Infine, la bestia diventa un luogo, il lungo assolo dentro se stessi. Attesa, inseguimento, muta – il destino di fallire. Che paradosso: l’uomo è la più accessibile tra le creature, si ostenta, non sopporta il nascondiglio, eppure dilania per scalfire il proprio segreto. Nel 1978 Peter Matthiessen pubblica The Snow Leopard: il viaggio in Nepal, compiuto “sul finire del settembre 1973”, è inaugurato, come ogni impresa autentica, da un dolore. L’anno prima la seconda moglie di Matthiessen, Deborah, muore. Il viaggio, calamitato nell’etica buddista, dunque, è una fuga, una ascesi (“la vita stessa è un rito religioso”), di cui la bestia, il fatidico leopardo delle nevi, è l’emblema. Fuggire inseguendo ciò che sfugge, predare l’invisibile. E poi c’è quel bianco, mai innocuo, le piane, micidiali, eco pietrificata del tempo. Già fondatore della “Paris Review”, affiliato alla Cia, scrittore di incerto successo, Matthiessen, seguace del viaggio come sfida, a sfibrare ogni certezza (“dipendiamo interamente da noi stessi… abbiamo perso ogni contatto con il mondo di cui siamo parte e anche con il nostro secolo”), scrive un libro ‘di culto’, imitatissimo, premiato con un paio di National Book Award, continuamente ristampato anche in Italia. A voler essere ligi, ci sarebbero altri libri di Matthiessen da transitare sulle nostre coste: African Silences (1991), ad esempio; oppure l’esito del viaggio antartico, Creating End of the Earth (2004), oppure la trilogia di romanzi “Shadow Country”. Non sottilizziamo.
Quarant’anni dopo Matthiessen, un altro scrittore si è messo sulla via della Pantera delle nevi. Il taccuino di viaggio di Sylvain Tesson – edito da Gallimard nel 2019, tradotto da Sellerio l’anno scorso – non ha velleità liturgiche, intimiste, semmai ‘sociali’, polemiche. La pantera delle nevi non è l’anomalo, il dio, la creatura simbolica ma la misura della nostra ineluttabile distanza dal mondo, condannati al pensare, la perdita: “Ieri è apparso l’uomo, un fungo multicentrico. La corteccia cerebrale lo ha dotato di un’attitudine inedita: portare al grado più alto la capacità di distruggere tutto quello che è altro da lui e al tempo stesso lamentarsi di esserne capace. Al dolore si è aggiunta la lucidità. L’orrore perfetto”.
Tesson è l’artefice di una scrittura concentrata, minima, esatta, alla Cézanne: delle cose non gl’importa l’ammanto lirico, l’ammanco filosofico, ma la carne, la forma priva di formula, ciò che va preso a morsi. Quanto al resto, il suo vagabondaggio rischiara i luoghi insoliti, le piccole patrie in contrasto alle grandi istituzioni statali, l’eversione rispetto all’istituzione, il sangue bronzeo sul grigiore delle strategie geopolitiche, camminare nei sentieri contraffatti di felci di questo mondo più che colonizzare gli altri pianeti. Ricama intorno al fallimento umano, che non accenna a gloria: “Le tre proposte – fede rivoluzionaria, speranza messianica, ricerca tecnologica – nascondevano dietro il tema della salvezza una profonda indifferenza nei confronti del presente e, quel che è peggio, ci esoneravano dall’obbligo di comportarci degnamente qui e ora e ci risparmiavano il disturbo di preservare ciò che ancora restava in piedi”.
Tesson è uno che ha piglio: il messaggio che porta è semplice, inattuale, antimoderno, romantico. Gli scrittori ‘fuori tempo’ affascinano. Nel suo caso – inevitabile nel regno delle merci – il tono è diventato moda, il tema una politica. Tesson è intervistato di continuo, paladino di un’esistenza frugale, boschiva: e tutto, così, rischia il già detto. Ad ogni modo, l’ultimo viaggio di Tesson è in Siria, “sulle tracce dei Crociati”; il reportage è stato pubblicato il 23 dicembre su “Le Figaro”, attacca così: “Partire è vivere. Cristo ha rivolto un invito sublime: Vieni e seguimi. Matteo ha risposto senza chiedere nulla. C’è una poesia nel movimento, una gloria imperitura… Nel 1095 papa Urbano II a Clermont lanciò un appello a mettersi in marcia. Per dove? L’Oriente. Perché? Per soccorrere i cristiani bizantini e liberare i luoghi di pellegrinaggio in Terra Santa”. Di recente, Gallimard ha pubblicato una edizione di pregio de La Panthère des neiges, illustrata e con le fotografie di Vincent Munier, il naturalista e fotografo che ha portato Tesson nell’altipiano del Qiantang, in Tibet. La pubblicazione esce in concomitanza con il documentario omonimo – The Velvet Queen per il pubblico inglese – di una bellezza (spiando i trailer qua e là) fin troppo complice. Le immagini, cioè, sono immacolate, magniloquenti, ‘poetiche’ – alla cruda redazione del silenzio, dell’odore mai neutro, si preferisce l’opera d’arte, l’assonanza, l’immagine mozzafiato. Così, c’è il fotografo che vede, uno che riprende, un altro che guarda: troppi sguardi, uno stuolo, una falconeria, per stanare l’invisibile, che quando accade è, ovviamente, ‘da cartolina’.
Detto questo, il culto cinematografico è sancito dalla musica di Nick Cave, che pare il distillato di un’icona, pozione verbale che penetra nell’ombelico, rilascia veleni. Accompagna Nick Cave, Warren Ellis, storico polistrumentista dei the Bad Seeds: “Le star, qui, sono gli animali in tutta la loro gloria selvaggia, come mai li ho visti, e l’uomo li riverisce, con meraviglia”, ha detto. Una sorta di litania, dal ritmo lento, plumbeo, che incalza: We are not alone, ripete Cave come un mantra, We don’t see them. “Questo mondo ha orecchie, le pietre hanno occhi. La natura ama nascondersi. Il mondo è un cespuglio pieno di occhi infuocati”. I was observed and unaware. La canzone che orna il documentario è molto bella: c’è una quiete sotto la desolazione. Forse non vogliamo altro che farci abbacinare dal bianco, e dal terrore di essere ciò che siamo: prede. Nel canto tutto trova il proprio ruolo, e la pantera trotta nel salotto di casa. Cos’altro possiamo fare se non stare sotto l’arco del suo assalto?