13 Agosto 2020

“Io stesso non comprendo che senso abbia questa mia situazione così terribile e complessa”. Mishima, la formula micidiale: Proust+Dostoevskij+D’Annunzio

Atto V – Il prologo come epilogo

Questo quinto atto consiste essenzialmente in un’appendice documentaria e nel suo commento, che produce la proposta finale di una definizione riassuntiva e sintetica, una sorta di formula chimica o, meglio, alchemica.

Il documento d’appendice si avvale dell’epistolario che un ventenne aspirante scrittore, che ha già esordito a sedici anni con un delicatissimo e struggente racconto, tiene con un già celebrato scrittore connazionale. Il 18 luglio del 1945, colui che non è ancora definitivamente Yukio Mishima e continua a firmarsi Kimitake Hiraoka, scrive una lettera «come in delirio, per il desiderio di confidarmi e di essere ascoltato da Lei», e questo Lei è Yasunari Kawabata. In questa lettera, assieme alla busta con cui la invierà al maestro, il futuro Mishima già sigilla il proprio destino. Merita riportarne alcuni passaggi fondamentali e fatali:

“…ed io trascorro i giorni contemplando le nuvole bianche in cielo, nell’impaziente attesa di un’estate che non giunge. La temperatura di quest’anno è troppo rigida per chi, come me, ama lavorare lottando con un caldo feroce: ogni entusiasmo minaccia di spegnersi sul nascere, e questo m’inquieta. La guerra imperversa con sempre maggior violenza, e il tavolo su cui scrivo mi sembra sempre più angusto, giorno dopo giorno: ho soltanto lo spazio per posarvi un foglio. E poiché non posso neppure appoggiarvi i gomiti, fatico persino a muovere la penna. Lavorare pazzamente, in circostanze simili, significa esser fedele allo spirito della letteratura? Lo ignoro. Vado avanti solo nella convinzione quasi disperata di esser fedele a qualcosa. […]

Io stesso non comprendo che senso abbia questa mia situazione così terribile e complessa, e tutto quello che sono in grado di dire è che mi agito con l’arrendevolezza di un burattino manovrato dagli dèi, accarezzando un desiderio del tutto banale e comune, ossia di comporre un racconto magnifico, come nessuno è più in grado di scriverne, un racconto per cui chiunque, leggendolo, debba esclamare: “Com’è bello!”, e questo stolto desiderio mi domina con la stessa ineluttabilità di un male incurabile. […]

A cosa sono fedele nella folle, egoistica convinzione di “esser fedele a qualcosa”? […] Non immaginavo che la letteratura esigesse una vita di fede fanatica e di dubbio, simile a quella di un Martin Lutero. Ho a lungo pensato che fosse fatale per la letteratura seppellire la vita quotidiana. Credevo che creare una letteratura significasse avere il tempo di vivere le esigenze secondarie per poter pensare a ciò che è essenziale. Ma ho forse il diritto di pontificare sulla “vita”?

Penso all’epoca in cui i grandi, magnifici sauri della preistoria andarono improvvisamente incontro all’estinzione a causa del rigore delle condizioni ambientali: cosa sarebbe accaduto se molti di loro fossero riusciti a sfuggire al pericolo e a riprodursi in qualche luogo? Suppongo che nelle loro abitudini e nei loro comportamenti si sarebbero ostinatamente conservate le tracce di una specie “in via d’estinzione”: E per aver vissuto quell’estinzione, ossia una condizione antitetica alla vita, sarebbero a poco a poco degenerati. E alla fine avrebbero conosciuto l’annientamento senza alcun bisogno dell’intervento umano. Non è forse possibile riconoscere anche in letteratura l’esistenza di limiti alla vita e all’esperienza, limiti invalicabili e che sfuggono all’ambito dell’esperienza letteraria (nel senso in cui l’intendeva Rilke)? Non verrà forse il momento in cui sarò costretto alla dolorosa scelta di realizzare, al di fuori dell’ambito della letteratura, le mie fantastiche, letterarie visioni?”.

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Nel momento in cui sta nascendo lo scrittore e artista Yukio Mishima se ne sta anche determinando la missione, il fine ultimo a cui deve tendere un’intera esistenza che sarà esattamente di un quarto di secolo, spegnendosi infatti venticinque anni dopo la sua nascita letteraria, il 25 novembre 1970. La lunga citazione si giustifica per questa sua natura di testamento scritto in punta di nascita, almeno artistica, come un neonato che già dica ora e data precise della propria morte. E, soprattutto, causa e fine di questa dipartita volontaria: L’orgoglio dei fiori non si manifesta forse nel “momento stesso della fioritura” più che nella possibilità di fiorire in futuro o nella consapevolezza di esser fioriti in passato? Un tale pensiero mi offre un certo conforto. Perché permette, al di là delle esperienze vissute, di considerare la vita come un modo di prepararsi, e anche come un modo di essere, pienamente. E poi perché forse quel momento doloroso potrebbe non presentarsi mai. In un certo senso sono diventato ottimista. Non temo più l’imitazione. E neppure il tempo!”.

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Fossi costretto ad introdurre Mishima a lettori europei colti ma ignari della sua opera, dovessi dunque riassumerlo in una nostra formula continentale, con tutta la brutale nettezza propria di ogni formula, direi: Mishima = Proust + Dostoevskij + D’Annunzio.

Mishima e Proust. L’arte come apprendistato alla vita, o meglio: l’arte come armatura con cui gloriarsi di una vita sognata come avventura infinita e sospensione da un tempo il cui trascorrere è subìto come condanna, ma è redento se proiettato sugli schermi della nostalgia. Vivere più nel ricordo che nel momento presente, affidandosi al potere negromante della scrittura coltivata con l’ossessione di chi ritiene che per ogni emozione e pensiero, gioia o dolore, il vocabolario sagacemente compulsato, la lingua elegantemente corteggiata e infine signorilmente padroneggiata ti possa offrire la parola esatta, l’artiglio che tutto afferra e senza scampo. Proust entra nel 1910 in una stanza dalle pareti imbottite di sughero per raggiungere la concentrazione massima così da poter consegnare la sua opera all’immortalità; Mishima esce definitivamente dalla sua letteraria stanza chiusa a chiave (titolo di un suo romanzo breve del 1954) al culmine fisico e artistico della sua vita per consegnarsi tutto intero, anima e corpo, ad un atto finale che non smetterà mai di andare in scena.

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Mishima e Dostoevskij. La cronaca nera e la cronaca politica, i bassifondi e i salotti, le bettole e i monasteri sono gli scenari più adeguati per l’incontro con quell’anfibia creatura che ha nome uomo. Lo sa il russo, lo sa il giapponese. Dostoevskij è un radar infallibile della psicologia umana, di cui capta anche i segnali più sordi, i rantoli più sotterranei, i latrati e i mugolii che appaiano l’uomo all’animale. Mishima allarga il raggio e sa sondare anche l’animo femminile, spingersi là dove le antenne del russo stentano ad intercettare frequenze che restano solitamente criptate ai più. La pagina del giapponese Mishima contiene, cosciente o meno, una sinica sapienza taoista e così si mostra capace di abbracciare lo yin e lo yang, sa restituirceli nei loro equilibri temporanei, nei loro squilibri prolungati e sovente addolorati dalla logorante ricerca di una balsamica ricomposizione. Quanto al divino, tema presente in entrambi, ciò che nel russo è uno nel giapponese si moltiplica, così che ai demoni si affiancano gli dèi e il campo si dispiega ora per una battaglia ora per un’orgia.

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Mishima e D’Annunzio. L’estetismo ai tempi dell’estetica della politica, ovvero il poeta come condottiero e un dandy che fa della propria vita un’opera d’arte se quest’arte imita le gesta di un ideale guerriero romantico, mosso da un’etica cavalleresca. Un decadente che avverte l’ultima chiamata al riscatto rispetto al molle compiacimento di cui cantavano Paul Verlaine e i suoi poeti maledetti. Uno scatto di orgoglio simile a quello di Rimbaud, ma non fuori dal perimetro dell’arte, vestendo magari i panni del trafficante d’armi in Africa, semmai tutto al suo interno, laddove fosse possibile far confluire il fiume dell’azione in quello della bellezza come arte, come frutto di un gesto o una sequenza di atti solenni, inquadrati in una cerimonia e in un codice che rispettino un registro antico e immutato nel tempo. La tradizione samurai rispondeva perfettamente alla bisogna. L’inalterato dalla tradizione quale antidoto che uccide il virus moderno dell’alterazione continua, incessante. Fermare l’attimo con un affondo di pugnale ed un taglio di katana. E qui Mishima soddisfa l’esigenza più intima di Proust, al quale strappa la penna e consegna una spada, conducendo fino all’estremo lugubre dell’auto-immolazione il vitalistico amore dannunziano del pericolo.

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Ecco il senso della formula Mishima = Proust + Dostoevskij + D’Annunzio. Un’addizione il cui risultato, la somma, è qualcosa di diverso dalla sovrapposizione ed accumulazione dei tre addendi. Qualcosa di inevitabilmente differente perché l’amalgama fra i tre addendi, quel segno + è fornito dalla cultura autoctona che il giapponese, sin dalla prima infanzia, assorbe tramite le voracissime letture dell’intera tradizione narrativa e drammaturgica della propria madre patria, dal primo medioevo ai suoi coevi. Sbagliato soprattutto dire se una tale somma sia superiore o inferiore all’accumulazione delle virtù letterarie dei suoi tre addendi; impossibile dirlo, come del resto sempre accade quando si tratta di vette assolute dell’arte mondiale, ma soprattutto perché con Mishima voi avrete molte qualità proprie del primo, del secondo e del terzo addendo, con il risultato di una miscela artistica che rende la sua opera unica, indiscutibilmente originale e a tutt’oggi inimitabile. E scusate se è poco. (Fine Atto V)

Danilo Breschi

*Il lavoro di Danilo Breschi, sotto il titolo complessivo “Yukio Mishima: uomo vinto dalla Storia o enigma letterario invincibile?”, è pubblico, in più “atti”, qui: Atto I; Atto II; Atto III; Atto IV

**In copertina: Mishima Yukio (1925-1970) in una fotografia di Elliott Erwitt

 

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