Ha un candore sfrenato. Lo aiuto a infilarsi la giacca, lo accompagno verso un taxi, l’oscurità impugna Milano, trafitta di luci, come le mille spade che perforano il cuore di un titano fiacco. “Sono sempre stato terribilmente ingenuo. Infantile. E lo sono rimasto. In me c’è un eterno bambino che non vuole arrendersi alla realtà”, scrive Massimo Fini, introducendo Confesso che ho vissuto (Marsilio, 2018). Si dichiarava – così l’ha etichettato Gianni Minoli – “perdente di successo”, elogiava “i personaggi maledetti della Storia”, alternava la bohème all’antimodernismo, l’anarchia alla protervia dell’ego, “fra il Bene e il Male ho sempre preferito il Male, a Dio la titanica ribellione di Lucifero”. Ora, mi pare che sia al di là del bene e del male, Massimo Fini, nel regno delle cose risolte (ma mai paghe, mai pacificate): non gli chiedi più cosa ne pensa di un fatto, ma come bisogna vivere per salvare dal massacro mondano le ultime schegge di vitalità, giorni simili a candele tra le dita. Se possibile, la fragilità ha dotato di chiarezza la consueta ferocia. Per un tratto, Fini è russo: la madre, Zinaida Tubiasz, figlia di “una grande proprietaria terriera appartenente all’aristocrazia russa” e di un professore di matematica all’Università di Mosca, “di origini ebraiche”, ha mollato la Russia negli anni che seguono la Rivoluzione, quelli della guerra civile e della terribile carestia del 1920 (la sua storia è narrata in Una vita. Un libro per tutti. O per nessuno). Non disdegna i discepoli, ma ha sempre rifiutato il ruolo dell’intellettuale salottiero, ghiotto di conferme, di applausi e di contratti televisivi. Il suo narcisismo è sano, eroico, altro dal trogolo degli egolatri. La voce è marziale, con qualche golfo, siringhe di nostalgia, forse. Quando ti saluta, un buco di tenerezza scalfisce il frugale cameratismo; tutto è sempre l’ultima volta, il primo incontro, l’ora o mai più. “Fondiamo un giornale”, sussurra, a tratti, entusiasta come chi fa le capriole sui tetti, si getta in ogni leggenda, raccoglie le stelle in un barattolo.
Parto da un anniversario. Cinquant’anni fa muore Giangiacomo Feltrinelli: la rissa intellettuale lo esalta, lo demonizza. Che idea ne hai?
Intanto, ti racconto come l’ho incontrato. Era il Sessantotto, manifestazione davanti alla Scala, Milano, organizzata da Capanna, contro le lussuose che vanno a teatro. Arriva una macchina, di sdegnosa bellezza, ne esce un uomo, allampanato, con una bella bionda. I ragazzi assaltano l’auto. Io, un idiota, come sempre, intervengo, ‘fermi, è il compagno Feltrinelli!’, urla uno. Era accompagnato da Sibilla Melega. Non lo conoscevo, non mi è mai piaciuto il linciaggio, mi sono beccato le botte di un caramba. Quanto al resto, Feltrinelli era il classico imprenditore con il cuore a sinistra e il portafogli a destra. In azienda, si comportava come il peggiore dei padroni delle ferriere; come rivoluzionario, lo si è visto, era più teorico che pratico. Come operatore culturale, ha fatto cose che restano. Era un uomo vitale, ma attratto dalla morte, in questo la sua contraddizione rasentava gli estremi. Ho conosciuto bene Inge Feltrinelli che era il contrario di Giangiacomo: amava le feste, spesso ne dava, era gioiosa. Il vitalismo di Feltrinelli, invece, era cupo, oscuro.
Sei stranamente tenero…
Beh, sai, ho conosciuto Carlo, il figlio di Giangiacomo, che era giovanissimo. La figura del padre, con lui molto affettuoso, gli è rimasta addosso, ma è tutt’altro tipo. Era un mio fan. Eppure, quando gli proposi Il denaro, “sterco del demonio” preferì bocciarlo. Il libro andò benissimo e per un po’ presi ad apostrofarlo, ‘Beh, ti sarai pentito…’.
Continuiamo con gli affetti. Tua madre è russa. Cosa ti attrae della Russia?
Il popolo. Che è tutto e il suo contrario. È generoso e avido, ma non è, a dispetto dei nostri governanti, cinico. Nell’allora Unione Sovietica mi rubarono tutto, in metropolitana: l’Ambasciata mi diede sessanta rubli, che dovetti restituire immediatamente, una volta atterrato a Milano; i miei amici russi, invece, mi hanno riempito di soldi, con la promessa che prima o poi, tramite un conoscente, li avrei risarciti. Sono scialacquatori, i russi, e in linea di massima, nonostante il turbocapitalismo si sia imposto anche lì, non hanno il concetto di investimento. Per loro il denaro vale sempre meno di una buona occasione per spenderlo. In questo, mi sento totalmente russo.
Vladimir Putin. Perché ha attaccato l’Ucraina, cosa accadrà?
Beh, l’inizio della storia è l’accerchiamento della Nato. Non è una novità: avere missili atomici sui propri confini non può andare bene a Putin. Ricordiamoci della crisi dell’ottobre del 1962, quando i sovietici posizionarono missili balistici a Cuba: Kennedy reagì e Chruščëv ebbe il buon senso, dopo una serie di colloqui segreti, di ritirare le armi. L’obbiettivo di Putin, all’inizio, era quello di non avere un paese Nato sui confini: l’aggressione dell’Ucraina, che è poi una guerra agli Stati Uniti, poteva essere evitata, ora ha assunto dimensioni inquietanti.
…e ora dicono che Putin è pazzo…
Ovviamente, Putin non è pazzo. E se è vero che ci sono manifestazioni contrarie alla guerra in città, la Russia profonda sostiene totalmente Putin, che grazie all’appoggio del popolo non cadrà. D’altronde, ha ridato alla nazione l’orgoglio che aveva perduto con Gorbačëv, il capo di Stato che ha distrutto un impero per andare a Sanremo…
Dunque: cosa accadrà?
La guerra sarà breve, perché gli ucraini non hanno la possibilità di reggere l’urto russo. Il territorio, per lo più pianeggiante, non consente lunghi anni di guerra di resistenza, come è accaduto in Afghanistan. Pur sempre europei, gli ucraini non sono abituati al combattimento totale.
A proposito di Afghanistan: vedi una relazione tra l’attacco di Putin in Ucraina e il ritiro dei soldati americani da Kabul?
Certo. Putin si è convinto che se gli americani si sono fatti battere da quegli straccioni dei talebani, vuol dire che valgono poco. Ma è chiaro che una ipotetica guerra tra Russia e Stati Uniti si combatterebbe con ben altre armi. In questo caso, sarà strategico il ruolo di mediazione della Cina, che è alleata con la Russia ma ha scambi molto intensi con gli Usa.
Insomma: come sempre, vincono i cinesi.
I cinesi sono più intelligenti degli altri. Al posto di fare guerre ovunque, come gli Stati Uniti, conquistano il mondo economicamente. Gli americani non vogliono rendersi conto che se il Novecento è stato il loro secolo, il nuovo millennio sarà cinese. O dell’Isis…
Cosa intendi dire?
Che l’Isis è in agguato e non attende altro che attaccare ancora l’Europa. Isis è un’epidemia ideologica che raccoglie gli scontenti di tutto il mondo, è un fenomeno tutt’altro che sedato. Gli americani bombardano il mondo arabo-islamico senza modificare il proprio stile di vita; i martiri dell’Isis, di rimbalzo, colpiscono i simboli della grande festa occidentale: le discoteche, gli stadi… Sul campo, poi, sono temibilissimi: il talebano è coraggioso, ma non ha la vocazione al martirio; per il combattente dell’Isis, invece, morire è un onore che gli permette l’accesso al paradiso. Se con il denaro che hanno arruolassero alcuni hacker, potrebbero bloccare l’Occidente in un paio di mesi, disinnescando i sistemi delle città: in un tempo dove tutto è connesso, i supermarket si svuoterebbero in pochi giorni, e allora… Nell’Isis vedo un totalitarismo uguale e contrario a quello occidentale.
Alcuni hanno parlato, in relazione all’aggressione di Putin, di una guerra ‘metafisica’: è così?
Putin ha un solo obbiettivo: far tornare la Russia una grande potenza. Non c’è altro. Putin è religioso come lo è Salvini, ma un poco più serio. Se alludi all’appoggio della Chiesa ortodossa, quello c’è sempre stato: l’Unione Sovietica non è mai riuscita a debellare il senso del sacro insito nel popolo russo.
Cosa ne pensi degli intellettuali e dei giornalisti che si sono scoperti strateghi militari nei talk?
Non ne ho alcun rispetto. Sono stati zitti quando si è combattuto in Afghanistan, in Iraq, in Libia… che autorevolezza hanno? In genere, non abbiamo alcuna legittimità morale nel denunciare i crimini di Putin: ne abbiamo commessi altrettanti, se non di più. Non una voce si è alzata in difesa del popolo afghano invaso, durante una guerra che ha provocato la morte di 230mila civili.
So che la parola Occidente ti fa venire l’orticaria…
Mi fa venire i brividi. Mi ricorda i grandi agglomerati descritti da George Orwell, Eurasia, Estasia, Oceania… Occidente esprime una cultura, quella dominante, dominata dal consumo, dalla tecnica, dalla democrazia. Comprende, però, realtà diverse: l’Europa, con il suo sostrato culturale greco, c’entra molto poco con gli Stati Uniti, e dovrebbe svincolarsi dalla sudditanza americana. Mi verrebbe da dire, provocatoriamente, che forse non è stato un bene che gli Stati Uniti abbiano vinto la Seconda guerra. Ad ogni modo, non vedo nel contesto della leadership europea, a parte Francia e Germania, forze che sappiano distaccarsi dall’atlantismo. Eppure, ricordiamolo, l’Europa sta perdendo e perderà molto a causa del conflitto in Ucraina; gli Usa, nulla.
Il ruolo del papa non sembra rassicurati.
Il papa non ha nessun ruolo in questo conflitto. Per due ragioni. La prima è brutale: dove sono le armate del papa? La seconda è sostanziale: la Chiesa cattolica sta perdendo adepti un po’ ovunque, anche in Sudamerica. D’altronde, l’Occidente, del tutto materialista, ha smarrito il senso del sacro e gli ultimi papi, a parte Ratzinger, hanno perso di vista la ragione invitta della Chiesa: l’uomo, non la politica.
In un incontro pubblico, hai detto che l’ideologia di Pasolini sarebbe piaciuta al Mullah Omar: spiegati meglio.
Pasolini era un reazionario, è lui per primo che parla di ‘dittatura dei consumi’, che guarda a un mondo pre-industriale. Il Mullah Omar non era anti-occidentale, ma a-occidentale: voleva che il suo mondo, quello afghano, rimanesse tale quale era sempre stato. Non era ottuso, però: nel campo della salute e dei trasporti non rinunciava alla modernità. Auspicava una sorta, scrivevo, di Medioevo sostenibile.
Chiuderei con un altro anniversario. I cinquant’anni dall’uscita in sala de “Il padrino” di Francis Ford Coppola. La mafia diventa hollywoodiana…
L’unico che in Italia ha combattuto davvero la mafia è stato Mussolini. Per una ragione semplice: un potere forte non può accettare un altro potere forte. La mafia è forte perché è più forte dello Stato. Il sistema mafioso, che non mi piace proprio, è replicato nel sistema dei partiti su cui si regge l’Italia, con l’eccezione che i partiti non ammazzano. Non sempre, almeno.
Guerra, corruzione, dominio del denaro, assenza del sacro: come ci salviamo, allora?
Un mondo che si regge su crescite esponenziali è lecito in matematica non in natura; un mondo simile è destinato a crollare su se stesso. Il crollo dell’Impero romano diede origine al feudalesimo europeo; oggi tutto è globalizzato, dunque crollerà un intero sistema di vita. Il singolo può salvarsi emancipandosi, dipendendo il meno possibile dallo Stato. Alcuni ragazzi di Movimentozero hanno comprato un casale nell’astigiano, hanno imparato a coltivare, a mungere una mucca. Un’esperienza simile, in Puglia, non è riuscita. In guerra, solo i contadini, che autoproducono, stanno bene; per questo ho suggerito ai ragazzi di fornirsi di kalashnikov: stufi di ingollare cherosene, i cittadini, servi dello Stato, prima o poi, torneranno a razziare le campagne.
Ci sarà ancora qualcosa che ti stupisce…
L’animo umano. Siamo sempre alle solite… Marx diceva che la filosofia doveva diventare una prassi rivoluzionaria; invece, la filosofia deve comprendere l’uomo. In tremila anni ci è riuscito in parte soltanto Eraclito; l’ultimo filosofo in quanto tale è Martin Heidegger, che ha svelato l’ambiguità della tecnica. Ecco: io mi ribello alla tecnica…
…e pensi che non siamo altro che carne per vermi…
Se mi chiedi se credo… No. Non credo. Sto con Baudelaire quando dice che l’unica scusante di Dio è che non esiste. Il che non toglie che l’uomo abbia bisogno del sacro, che non è necessariamente religioso. Soprattutto, l’uomo ha bisogno del mistero. Se vivi in una stanza chiamata mondo di cui conosci perfino l’ultimo pulviscolo, cosa fai? Ti spari. La dimensione del mistero, un sentimento religioso al di là della religione codificata: ecco ciò di cui ha bisogno l’uomo.