Jorge Luis Borges era terrorizzato dagli specchi: insieme ai labirinti, erano il suo incubo ricorrente. “Non sono incubi diversi”, scriveva, “giacché bastano due specchi contrapposti per creare un labirinto”. Due specchi contrapposti, piuttosto, danno l’illusione dell’infinito. Demoniaca capacità dell’oggetto artificiale di simulare un attributo divino; attraverso lo specchio – il contrario dello scudo, su cui è inscritta la solare, achilleide identità di chi lo arma: vi piovigginano gli avi, i primati e un cenno d’avvenire – l’uomo si crede dio, si forgia un dio. D’altronde, chi è davvero quell’uomo che ci fissa dallo specchio: fino a che punto corrispondiamo all’immagine che abbiamo (partorita a somiglianza di chi?) – come fare, piuttosto, a smascherarla?
In un racconto intitolato Lo specchio e la maschera, riposto ne Il libro di sabbia, Borges pare esporre una sorta di poetica. È vero, il racconto è ambientato all’epoca della “battaglia di Clontarf” (nel 1014), quando il poeta si chiamava ollam e fungeva da cardine dell’identità di un popolo. Esperto nell’arte metrica, l’ollam muta la materia del tempo: i suoi versi pietrificano ciò che altrimenti si perderebbe per sempre, nell’effimero del mondo, nella cronaca-fogliame del tutto. Specchio e maschera – ecco il punto – sono i simboli della poesia; che conducono all’ultimo, la daga. Il poeta rispecchia e vela, mostra per allusioni/illusioni: la verità, snudata, comporta morirne. “Siamo colpevoli entrambi”, dice il re al suo poeta, “colpevoli di aver conosciuto la Bellezza, che è un dono vietato agli uomini”.
Cecità, direbbe Borges, è il premio di chi ha osato vincere la Sfinge: artigliare le pupille vuol dire, dare a uno specchio entità di cometa.
Secondo Proclo, lo specchio è un attributo di Dioniso: specchiandosi, il dio si suddivide nel creato, l’uno si spezza nel molteplice (“Efesto fabbricò uno specchio per Dioniso e che il dio guardando dentro di esso e contemplando la propria immagine si slanciò alla fabbricazione di tutta la pluralità”). Secondo San Paolo (1 Cor 13, 12) lo specchio è il simbolo della nostra conoscenza imperfetta, per riflessi senza riflessione (Videmus enim nunc per speculum in aenigmate, tunc autem facie ad faciem; nunc cognosco ex parte, tunc autem cognoscam, sicut et cognitus sum), è vero, ma lo specchio è anche il volto del cristiano, che “a viso scoperto riflette… la gloria del Signore” (2 Cor 3, 18).
Amnistia del pio giudizio: inafferrabile è la vanità/verità dello specchio, oggetto tra tutti ambiguo, lago portatile, da comodino. Possibile immaginare un Eden costeggiato di specchi? Esiste qualcosa di più spiazzante, tentatore tentacolo?
La nitidezza dello specchio rende abulici: possibile che non ci sia differenza tra me e quell’altro? È l’idea della copia (gemella della colpa) – noi che ci crediamo singolari espressioni di un dio privato… – ad abbatterci. Ancor di più, è l’idea della replica, all’infinito, della copia. Meravigliosa idiozia del creato: nell’era fotogenica, le starlette ignorano che disseminandosi in scatti spariranno, spiritelle dell’ego, non sono che la copia della copia della copia di un io pusillanime, un io cavalletta.
La luce fatta esercito e marcia dallo specchio provoca l’incendio: ardore del cuore innocente.
Dal Cielo mistico, cioè contemplazione delle virtù, dei misteri e delle eccellenze del Nostro Signore, spicca per nitore intellettuale l’immagine dello specchio, specie di effimera luna – dello specchio va in effetti considerata anche la sua eclisse, l’opera al nero. Non è un caso. Maria Gaetana Agnesi, primogenita di inclita famiglia, nata, milanese, nel 1718, fu, del suo secolo, il prodigio: poliglotta – la dicevano “oracolo settilingue” –, abile nel violoncello, dalla ‘mostruosa’ mente. A nove anni disquisiva con gli adulti, prodotti in vasta cortigianeria, di problemi filosofici, si diede, diciannovenne, allo studio dei fenomeni naturali: era affascinata dagli astri e dalle meteore, dai fossili e dalle abitudini solari delle piante. Sapeva domare i sauri; una malattia nervosa ne minò il cuore fino a un tentato suicidio. Il padre scortava di corte in corte questo Mozart dell’intelletto: sfoggiava la miracolosa figlia come un monile. Lei, di ricambio, disprezzando quel mondo, voltò l’adulazione in adorazione: chiese di potersi ritirare in monastero. Le fu impedito, dunque, s’inoltrò in altri alti studi: nel 1748 pubblicò le Instituzioni analitiche ad uso della gioventù italiana, dedicando il tomo all’imperatrice Maria Teresa, che ricambiò con doni (compreso un anello d’incomparabile pregio).
Il libro fu tradotto in tutta Europa, ma alla fama – scrisse la Agnesi di “essermi con sodo e vero piacere divertita”, “non intendendo io di raccogliere lodi” – la donna preferì il rifugio nei meandri dell’interiorità e della cura. Dal 1752 si occupò degli infermi, fece della sua casa un ospizio; alla cattedra di matematica a Bologna, offertale da papa Benedetto XIV, preferì l’impegno presso il neonato Pio Albergo Trivulzio, che diresse fino a morire, letteralmente – nel 1799 – per gli altri. Dagli studi matematici, abiurati, passò dunque a quelli teologici – Gadda la dice “matematichessa e filosofa”, lei si impegnò a definire l’ascesa dell’anima, piccola ape, entro gli alveoli di Cristo.
Che genio questa donna che scartò corti e accademie per darsi ai devastati, agli incurabili. Passò “dal ritiro studioso alla cura sempre più intensa degli infermi più derelitti, che diventa sua occupazione dominante dopo la morte del padre; dai trentaquattro anni di allora agli ottantuno del suo decesso sarà infermiera e catechista” (così Giovanni Pozzi e Claudio Leonardi, che insediano la Agnesi tra le Scrittrici mistiche italiane).
Anima: specula senza speculazione; specchio: foyer del Paradiso, porziuncola di deserto, dove Iddio pare un idolo e viceversa.
Cosa resta da fare, allora? Spaccare lo specchio – che le scaglie siano chiodi, che il sangue divenga pane, il dolore sfoghi in gioia, purissima, senza più rispecchiamento.
**
Maria Gaetana Agnesi
(Milano, 1718 – 1799)
Dal Cielo mistico
In questo stato l’anima è come uno specchio della passione del redentore. Nel suo profondo si rappresentano distintamente ed ordinatamente tutti e ciascuno i dolori, affanni, tormenti ed obbrobri dell’amato Gesù. Quindi, siccome le cose ancorché distanti e diverse fra esse, si mirano ridotte in una sola imagine nello specchio, e l’occhio con un puro, semplice ed unico sguardo tutte le comprende, così i misteri della passione divina, benché fra loro distinti e varii, si contemplano dall’anima in se medesima come in un cristallo fedele con un atto universale solo ed indistinto, senza che la semplicità dell’atto confonda l’ordine del medesimo, o la varietà delli stessi distrugga e divida la purità dell’atto. Anzi in quella guisa che nello specchio tutto si vede il movimento e l’agitazione che hanno li oggetti al di fuori, ma per dir così in silenzio e mutolezza, giacché lo specchio rappresenta i movimenti senza moto e le agitazioni senza agitazione, in simile maniera nello specchio di quest’anima tutti i passi della passione, li assalti, le furie, le crudeltà delle turbe e de’ magistrati, gli atti penosissimi dell’orto, de’ tribunali e del Calvario si rappresentano in profondo silenzio e dolorosissima mutolezza, perché ella piange senza effusione di lagrime e si duole senza strepito di dolore. Ma vi ha questo divario fra questo mistico specchio e lo specchio materiale, che nel cristallo tutti gli oggetti sembrano correre alla superficie per presentarsi alla vista; laddove nell’anima tutti i misteri s’affondano e si nascondono nel centro per maggiormente essere contemplati dallo sguardo più puro dello spirito.
*In copertina: Parmigianino, Autoritratto entro uno specchio convesso, 1524 ca.