16 Agosto 2022

Qualcosa sulla fatwa a Rushdie e i rapporti tra Iran e Usa

L’ayatollah Khomeini non ha mai letto I versi satanici: così mi ha rivelato il figlio, Ahmed, che ho incontrato a Teheran, all’inizio degli anni Novanta. La fatwa lanciata dal leader iraniano nel 1989 ai danni dello scrittore britannico americano è stata una mossa politica studiata in concomitanza con i disordini esplosi tra Pakistan e India, oltre che per la sequenza narrativa di sogni che coinvolgono il profeta Maometto. I passaggi del libro che minano la credibilità del Profeta come messaggero di Dio e ne ritraggono le debolezze umane, sono ritenuti blasfemi da alcuni musulmani.

L’ayatollah era un uomo scaltro. All’epoca, la giovane Repubblica islamica stava affrontando alcune sfide esistenziali essenziali: la guerra di otto anni con l’Iraq, che ha prodotto almeno un milione di vittime; il malcontento interno diffuso; certe fratture politiche nei gangli del clero; un’economia in declino che aveva portato a razionare cibo e carburante; un decennio di isolamento diplomatico. Khomeini ha condannato a morte Rushdie e i suoi editori, di qualsiasi paese. Ha invitato “tutti i musulmani valorosi, ovunque si trovino”, ad attivarsi e a ucciderli, senza indugio, “di modo che nessuno oserà più da ora in poi bestemmiare le sacre verità dei musulmani. Chi sarà ucciso in questa causa, verrà detto martire” e ascenderà all’istante in cielo. Teheran ha posto una taglia cresciuta fino a superare i tre milioni di dollari.

Khomeini ha spesso sfruttato il clamore di situazioni in grado di distrarre l’attenzione della gente dalle crepe e dai fallimenti della Rivoluzione. Ha operato nello stesso modo quando alcuni studenti hanno preso il controllo dell’Ambasciata degli Stati Uniti nel 1979. Nei mesi successivi alla destituzione dello Scià, i rivoluzionari erano divisi sul futuro politico dell’Iran, sulla nuova costituzione e i poteri del clero. Iniziarono a uccidersi a vicenda. L’assedio all’Ambasciata costituì un utile diversivo. Tre dei leader studenteschi, anni dopo, mi hanno detto di avere organizzato l’assedio dell’ambasciata per tre o cinque giorni, in protesta contro la decisione degli Stati Uniti di accogliere lo Scià, già malato, e offrirgli cure mediche. Ma Khomeini, tramite la radio nazionale, ha incoraggiato gli studenti a restare lì per un tempo indeterminato. Cinquantadue diplomatici americani sono diventati così pedine della politica iraniana. Dopo 444 giorni, l’ayatollah ha accettato di porre fine alla crisi degli ostaggi: un gesto ormai opportuno, politicamente e finanziariamente, per il suo regime.

Anche Rushdie è stato usato come una pedina. Teheran ha ignorato I versi satanici per sei mesi dopo la pubblicazione, nonostante il libro fosse stato bandito dalla maggior parte dei paesi musulmani. L’India, il paese dove è nato Rushdie, ha vietato il libro nell’ottobre del 1988. L’Iran non ha agito prima del febbraio del 1989, quando le proteste intorno al romanzo nel vicino Pakistan si sono incrociate a una grave crisi interna. La cerchia religiosa intorno a Khomeini si è divisa divisa proprio nel decimo anniversario della Rivoluzione. L’ayatollah Ali Montazeri, il successore indicato da Khomeini, che un tempo lo chiamava “il frutto della mia vita”, aveva criticato il governo reo, ai suoi occhi, di giustiziare i dissidenti e di tradire le promesse della Rivoluzione. La sfida di Montazeri rappresentava l’emergere di una fazione riformista, favorevole alla moderazione in politica interna ed estera, di modo che la Repubblica islamica potesse evolvere da società rivoluzionaria a stato reale, in grado di onorare la legge dell’uomo e la legge di Dio. Sfidò perfino l’editto scagliato da Khomeini contro Rushdie: “Nel resto del mondo credono che la sola attività praticata in Iran sia uccidere”, ammonì Montazeri.

Khomeini ha risposto allontanando il suo protetto, mettendolo agli arresti domiciliari. Quattro mesi dopo aver lanciato la fatwa, Khomeini è morto, per insufficienza cardiaca a 86 anni. L’Iran, così, ha affrontato una doppia crisi: nessun successore ufficiale e una fatwa che ha innescato una crisi diplomatica decennale, paralizzando il commercio internazionale del paese, isolando ulteriormente il regime.

Ora, trentatré anni dopo, la fatwa è ancora un punto critico nel dibattito interno, in Iran, e uno strumento politico sfruttato dai suoi leader più intransigenti. La cosa che più sorprende della figura di Hadi Matar, il libanese americano che ha pugnalato dieci volte Rushdie, al viso, al braccio, all’addome, nell’anfiteatro del Chautauqua Institution, è che è nato negli Stati Uniti quasi un decennio dopo che è stata combinata la fatwa. Matar è accusato di aggressione e tentato omicidio.

I legami di Matar con l’Iran – diretti o indiretti – non sono chiari. In tribunale, il procuratore distrettuale ha detto che l’attacco a Rushdie era “mirato” e “premeditato”. Gli account di Matar registrano il suo sostegno all’Iran e una profonda ammirazione per i suoi leader. Erano pieni di immagini di Khomeini, del generale Suleimani, comandante della Forza Quds delle Guardie Rivoluzionarie, assassinato durante un attacco di droni statunitensi nel 2020, e di Hassan Nasrallah, leader di Hezbollah, la milizia iraniana in Libano. Secondo quanto riferiscono, i genitori di Matar sono emigrati dal Libano meridionale, roccaforte sciita di Hezbollah. Matar viveva nel New Jersey, aveva una patente di guida falsa, con il nome di Hassan Mughniyah, una combinazione, secondo gli esperti, del nome di Nasrallah e del cognome di Imad Mughniyah, il defunto comandante di Hezbollah, legato agli attentati suicidi che uccisero più di duecento marines a Beirut, negli anni Ottanta. Entrambi i capi sono venerati da diversi sciiti libanesi.

Da quest’estate, Rushdie e le agenzie di intelligence europee e americane hanno ritenuto che la minaccia della fatwa fosse diminuita. Dalla fine degli anni Novanta, i riformatori iraniani hanno cercato di risolvere la crisi legata ai Versi satanici. Il governo di Khatami ha ripristinato i rapporti con la Gran Bretagna, ponendo lo status di Rushdie come una questione centrale. “Potremmo dire che la vicenda legata a Salman Rushdie sia definitivamente conclusa”, ha dichiarato Khatami a me e a un gruppo di giornalisti, durante una visita alle Nazioni Unite, nel 1998. Dopo aver vissuto sotto protezione di Scotland Yard per nove anni, Rushdie è gradualmente riemerso in pubblico, con rada sicurezza visibile. Nel 2001 ha perfino recitato in un cameo nel Diario di Bridget Jones. L’attacco brutale a Chautauqua, un’idilliaca comunità di case vittoriane sulla riva del lago, fondata per favorire il dialogo sulle questioni cruciali del nostro tempo, è paradossale. Su quel palco ho parlato più volte di Iran, della lotta tra estremisti e riformatori, per capire se le relazioni tra Teheran e Washington potessero normalizzarsi. Ogni settimana il programma copre un argomento diverso; ogni mattina migliaia di persone si radunano nel suo anfiteatro.

I religiosi più intransigenti, comunque, non hanno mai sconfessato la fatwa contro Rushdie. Nel 2017 l’attuale leader supremo, l’ayatollah Ali Khamenei, è stato interrogato in merito all’editto lanciato dal suo predecessore. “Il decreto è lo stesso emesso dall’imam Khomeini”, ha risposto. L’anno scorso, i sostenitori dell’intransigenza hanno sottratto il governo ai riformatori che hanno negoziato un accordo nucleare con gli Stati Uniti e cinque altre potenze mondiali. Gli ideologi dominano i rami del potere esecutivo, legislativo, giudiziario e militare. Cinque giorni prima dell’attentato a Rushdie, una testata giornalistica iraniana ha ripubblicato la fatwa. “Iran Online” ha salutato la condanna a morte di Rushdie come “una grande e indimenticabile fatwa per i musulmani di tutto il mondo… Dopo trentatré anni l’incubo della morte non ha smesso di abbandonare Salman Rushdie”.

Poche ore dopo il suo attacco, i media iraniani hanno elogiato Matar. “Kayhan”, il cui direttore è stato nominato da Khamenei, ha scritto: “Mille applausi… all’uomo coraggioso e onorevole che ha attaccato l’apostata e malvagio Salman Rushdie a New York”. Aggiungendo, “La mano dell’uomo che stacca il collo al nemico di Dio deve essere baciata”. L’immagine di Rushdie trasportato su una barella è stata commentata da “Khorasan” così, in prima pagina, “Satana sulla via dell’Inferno”.

L’attacco a Rushdie coincide con l’annuncio, la settimana scorsa, da parte del Dipartimento di Giustizia, che un membro della Guardia Rivoluzionaria iraniana, Shahram Poursafi, è stato incriminato per un complotto: avrebbe tentato di assassinare l’ex consigliere della sicurezza nazionale John Bolton. Nel mirino c’erano anche l’ex segretario di Stato Mike Pompeo e l’ex segretario alla Difesa Mark Esper. Entrambi erano in carica quando l’amministrazione Trump ha ucciso Suleimani. Bolton, Pompeo e Esper sono sotto protezione governativa 24 ore su 24, come altri alti funzionari di quel periodo.

L’attacco coincide anche con il conto alla rovescia dell’accordo diplomatico sul nucleare costruito dall’amministrazione Obama nel 2015 e abbandonato da Donald Trump nel 2018. Si stima che Teheran sia a pochi giorni dalla produzione di uranio arricchito, sufficiente per alimentare un’arma nucleare: un passaggio chiave per la costruzione della bomba. Questo mese l’Iran ha ricevuto un ultimatum dai negoziatori europei per decidere se riattivare o meno il programma dopo un anno di colloqui. Qualunque sia il motivo intimo di Matar, qualsiasi siano i suoi reali legami con l’Iran, l’attacco a Rushdie, uno degli scrittori più noti al mondo, esalta le tensioni che ancora elettrizzano le strategie politica dell’Iran rivoluzionario.

Robin Wright

*Si pubblica larga parte dell’editoriale di Robin Wright pubblicato sul “New Yorker” come “Ayatollah Khomeini Never Read Salman Rushdie’s Book”

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