Poiché sa tutto e prevede i pensieri di tutti – forse perfino quelli degli alberi – Vladimir Nabokov non vive. Sopporta. Controlla che il creato corrisponda esattamente alle sue previsioni. Prima mi chiese di mostrargli la genealogia dei re di Zembla. La srotolo sulla scacchiera. Insieme alla mappa di Zembla. Costruita secondo le indicazioni – glaciali, artefatte, artigiane – contenute in Fuoco pallido. Confrontandole con quelle desunte dalle interviste redatte da Nabokov – godeva nell’introdurre modifiche, nel disseminare cambiamenti, disorientando l’intervistatore – di solito, un cretino – e i lettori.
«Caro Kinbote, lei è davvero il re di Zembla in esilio, mi complimento», fa lui. Sembra, ora, Ernest Hemingway, una creatura carnale – ma non ti tocca. Nabokov non tocca nessuno, ha una sana repulsione per la carne, per ogni rapporto umano. «Ogni legame con gli uomini è una responsabilità – che sfocia nella colpa, che s’impantana nella delusione», mi disse, diverse ore dopo, sfarfallando le palpebre. Nabokov ha occhi che mutano. Ho capito questo. Chiude le palpebre. Le riapre. Ha occhi diversi. Prima azzurri. Ora li ha grigi. Poi neri. Gli occhi prima sono umani – ora di giaguaro – poi di gazza. «Sarà con me. Otto giorni. Le darò soddisfazione, vedrà».
L’ordine era che non facessi domande. «Io non ho interessi e non sono interessante; piuttosto, mi interessa lei, Kinbote, redivivo re di Zembla». Mi fece confessare gli inconfessabili – era così facile donarsi a quell’uomo. Ciò che desideriamo, in effetti, è che qualcuno ci mangi, ci divori. Per questo Cristo si fa mangiare spezzettato in miliardi di pezzi, ogni giorno, dai suoi fedeli: solo quando qualcuno ci mangia possiamo ricostruire l’immagine ideale, perfezionata di noi. Cristo esiste perché noi lo divoriamo. Ammirai i suoi denti, mentre confessavo a Nabokov che avevo tradito mia moglie con la sua allieva prediletta – di vent’anni più giovane di me – e con sua madre – di vent’anni più grande. Era un modo, infernale, per avere dominio su di lei – che mi dominava.
I denti suggerivano una pazienza infinita – Nabokov sapeva ruminare le sue vittime per decenni – non ricordo se eravamo nella hall dell’albergo o nel corridoio che dava verso la sua camera – quando sei al cospetto di Nabokov esiste soltanto lui, lo spazio scompare, come olio. I denti fiammeggiano – sono terribilmente bianchi. Il canino sinistro di Nabokov è lungo come un sonetto. Non so perché – penso che alla morte di Nabokov – se saprà morire – si spartiranno i suoi denti – per incastonarli e farne dei gioielli. Forse la forza di Nabokov è nei suoi denti – ipnotici.
«Si scrive – lo immagina – per sottomettere il prossimo. Chi scrive per ottenere applausi è uno schiavo; chi scrive per uccidere gli altri è un demente – si scrive per schiavizzare. Desidero che tutti conoscano a memoria i miei romanzi, che ne sussurrino le frasi, come una preghiera – che i miei libri siano sostituiti ai libri sacri agli ebrei, ai cristiani, ai musulmani, ai buddisti, ai taoisti. Chi scrive non si accontenta di sottomettere i propri simili: vuole imporre ordini ai celesti e alle creature infernali. Il fatto che in questo albergo mi conoscano semplicemente come “il grande scrittore” – o meglio, come “il grande scrittore che non vuole essere disturbato” – senza inginocchiarsi al mio passaggio, con devota paura, consapevoli che una mia parola può incenerirli, un po’ mi irrita – ma in fondo, per natura, preferisco essere tutelato da una timorosa indifferenza piuttosto che affaticato da folle di fedeli».
Eravamo per strada. Il paesaggio svizzero è ordinario: anche i predatori sono afflitti dalla noia, hanno perso la foga. Un falco era bloccato a metà tra il prato – verde da capolettera medioevale –, il campanile della chiesa di un paese distante, il cielo, che ha fatto defluire le nuvole in un altro mondo. Non si muoveva, come fosse fabbricato con lo spago – se si fosse mosso, sarebbe precipitato il cielo, si sarebbe sfibrato il prato, il paese, il paesaggio. Nabokov aveva deciso di non ammettermi nella sua stanza. «Anche la pioggia mi sembra un cubo di cemento – ciò che è chiuso mi limita: lo sa che il mio ginocchio sinistro è più grande dell’albergo in cui sono costretto a dormire?» Disse proprio così. Poi disse che le finestre gli parevano «delle ferite sul corpo oscuro dei palazzi».
Non lo vidi mai mangiare. Per i giorni in cui fui in sua compagnia. Non lo vidi mai mangiare. Adorava guardare come mangiano gli altri. «Il carattere di un uomo si capisce da come mangia», mi diceva. Diceva che da come un uomo mangia puoi indovinarne il destino, puoi capire il suo modo di amare e la sua sopportazione al soffrire. «La mano non è niente, bisogna imparare a leggere i denti, Kinbote, la forma del mordere», disse. I suoi denti sembravano ancora di latte, perfetti, quelli di un bambino, che non hanno mai masticato. Nabokov succhia e inghiotte. Come il pitone.