25 Febbraio 2019

“Io – io sono ormai un collettivo, io sono fuori di me, è tutta la vita che sono fuori (che fuggo!) da me stessa”: Marina Cvetaeva incontra Emily Dickinson

[Intorno allo stesso tavolo, Marina Cvetaeva e Emily Dickinson. Mercoledì prossimo, il 27 febbraio, ore 21, al Centro culturale Piccola Fenice in Varese (via Caracciolo), avrò il privilegio di parlare del mio libro, “Un alfabeto nella neve” (Castelvecchi, 2018), con Silvio Raffo, che è soprattutto poeta, è scrittore, ed è il massimo traduttore in Italia della Dickinson. Ritrovo Raffo dopo moltissimo tempo. Il dettaglio potrà irretire il tronfio, ma incontrai Raffo quando avevo ancora la zanna lirica di latte: mi regalò molti libri – tra cui “La voce della pietra”, da cui è stato tratto di recente un film – mi incoraggiò assai, gentilezza rara in un mondo, quello dove fanno rissa i poeti, grave di invidia, greve di fraintendimenti e di rancori. Per dare fiamme all’evento pubblico tre lettere della Cvetaeva a Boris Pasternak, dato che il romanzo ricostruisce il carteggio malauguratamente scomparso, in larga parte, durante i clangori della Seconda guerra: una delle tre è davvero di Marina, le altre sono il frutto della mia delirante fantasia. d.b.]

 ***

Mokropsy, 11 nuovo febbraio 1923

Caro Pasternak,

il Vostro libro brucia. Quello era un acquazzone, questo – un’ustione: provavo dolore ma non soffiavo. (Gli altri ci spalmano su un po’ di cold cream Vi-gliac-chi!). E così mi sono bruciata, mi sono bruciata e ho preso fuoco – e non conosco più sonno, giorno. Soltanto Voi, Voi solo. Io – io sono ormai un collettivo, io sono fuori di me, è tutta la vita che sono fuori (che fuggo!) da me stessa e mi placo solo quando in me non resta neanche un’acca di mio. Caro Pasternak, permettetemi di saltare di palo in frasca: Voi siete un fenomeno della natura. Le Vostre poesie non sono umane – non un solo segno. Dio vi aveva concepito come quercia e poi vi ha fatto uomo, e su Voi cadono tutti i fulmini, e Voi dovete vivere.

Pasternak, perché non vi sia errore né menzogna: le persone sono seconde mani, ma: i popoli – alcuni – e nella primissima infanzia i bambini e i poeti (i poeti ancora senza poesie) – sono loro le prime mani! Voi siete un poeta senza poesie, cioè: così amano, così ardono e così bruciano i non-scriventi, quelli che scrivono una sola volta – un’ottava in tutta la vita, non i mestieranti (pure se geni) della penna. Perché ogni Vostra poesia suona come l’ultima? – “Dopo questa non ha scritto più nulla”…

Le liriche (quelle che chiamiamo così) sono singoli momenti di un unico movimento: movimento nell’intermittenza. Ricordate, da bambino, i caleidoscopi? O Voi non ne avevate? Lo stesso gesto, solo con la mano appena più in avanti. A destra, un po’ più a destra, ancora un po’, e così via. E quando lo giri – si muove. La lirica è una linea tratteggiata, da lontano è intera, nera, ma prova a guardarla da vicino: è tutta interrotta e tra i puntini c’è uno spazio senza aria: la morte. E Voi da una poesia all’altra morite. (Di qui l’“ultimità” di ogni poesia!)… In questo libro ci sono alcune poesie eterne, e il libro va acquistando chiarezza e rilievo sotto gli occhi, come un serpente che si libera di tutte le sue sette pelli… Da nessuno: né dalla Achmatova, né da Mandel’stam, né da Belyj, né da Kuzmin io mi aspetto altro che loro stessi. (Nient’altro che loro stessi). Amandoli, forse, appassionatamente! (Perfezione, finezza – per, fino: limiti). Io invece so che il Vostro limite è la Vostra morte fisica.

Marina Cvetaeva

*

12 agosto 1936

Tu non sei innocuo, Boris, tu istighi la vendetta e la gelosia: questo è il destino di chi conosce il segreto della vita. Quando sorridi, tu stritoli, lo so, anche se non ti vedo – e non voglio vederti per non essere stritolata. Come può non avere terrore la donna che abita la tua stanza da letto quando tu possiedi continenti e civiltà nei tuoi occhi? Se fossi tua moglie, di notte ti cucirei le palpebre – oppure le bucherei con un ago, per vedere sorgere, insieme al sangue, giungle e ghepardi, galeoni e sassoni, nevi, carrozze, monasteri, prigioni… Vivo in cattività – incattivita – tu non puoi darmi nulla. Io non ti darò niente. Le parole infine sono la nenia con cui imbamboliamo l’assenza del corpo. Ieri ti ho sognato, Boris: eri Rilke. Io avrei potuto essere qualsiasi cosa, anche un verso delle Elegie, oppure il portiere dell’albergo che lo ha ospitato, a Firenze, oppure la Neva. Eri Rilke, ma poiché eri Pasternak ti avrei potuto avere – saresti stato mio, ceduto. Eppure, eri così innocuo che preferii abbandonarti.

Marina

*

25 febbraio 1939

Boris, io ti conosco e ti amo come se fossi me – anzi, come se fossi me nell’altra vita – o nella casa di fronte. Le parole sono esattamente quello che sei, la tua carne è un vocabolario, le tue ossa delle metafore, per questo cerchi di fuggirle. Cercando – come tutti – qualcuno che ti perdoni ogni cosa, assegnandoti una giovinezza perpetua, e la perpetua possibilità di perpetuare il dolore, con prodigi retorici e prodigalità. Oggi pomeriggio ho sognato ancora una volta che eri Rilke. Eri lui e sapevo che eri Boris. Parlavi come lui, scrivevi come lui – nel sogno ti ho chiesto una prova grafica e la tua era proprio la scrittura di Rilke, così indipendente… Mi dicevi le stesse cose che mi diceva lui, educato, virgineo, e lontanissimo. Allora, visto che eri nella mia piccola cucina dipinta di giallo, ho preso un coltello e ti ho squarciato. Non ho fatto fatica perché la carne era morbida. Ma dietro a Rilke c’era un altro Rilke. Ogni volta che tagliavo a metà Rilke, ne appariva un altro. Mi sembrava di tagliare la giacca a un bambino o di aprire le innumerevoli porte di un corridoio infinito. Rilke, Rilke, Rilke… ma sapevo che eri tu, Boris. Forse abitavi nella pupilla di Rilke, che è più vasta dell’Africa – forse eri un’insidia, una spina nella sua coscia sinistra. Eppure, nel sogno, mentre Rilke accettava di essere colpito dal coltello, incantato dalla pianta di menta che cresceva sopra la finestra della cucina, convertii l’arma su di me. Prima che la tua voce grafica, Boris, fosse incastrata in me – volevo estirparla.

Marina

Gruppo MAGOG