15 Luglio 2019

Demetrio Paolin è uno dei pochissimi scrittori italiani viventi di cui non mi perdo un libro. Una antologia per capirci

Ogni giorno vengono pubblicate montagne di libri, molti dei quali romanzi. La maggior parte rimane nell’ombra senza trovare mai la via della luce. Molti altri fanno parlare di sé per un po’ e poi la loro fiamma si spegne per sempre. Pochissimi quelli destinati a durare. In tutta questa gran massa, non siamo quasi in grado di distinguere un autore dall’altro. Voglio dire che non c’è tutta questa differenza di livello tra un autore e l’altro, nonostante le pagine culturali dei giornali si affannino per darci a intendere il contrario. Quello letterario è spesso un palcoscenico fatto di comparse, di protagonisti per un giorno. Rari gli autori per cui vale la pena sbracciarsi e precipitarsi in libreria non appena esce un loro libro. Per quanto mi riguarda, tra i viventi, non ne conto più delle dita di una mano: Kundera, DeLillo, Houellebecq, Joyce Carol Oates. Se penso al nostro Paese sono ancora meno, ovviamente. Ma, credetemi, Demetrio Paolin è uno di questi. Scrive poco, ma quello che scrive è sempre densissimo e intelligente; capace di farti puntare lo sguardo (a volte con raccapriccio) su lati oscuri del mondo di cui ignoravi l’esistenza o da cui ti eri sempre tenuto al riparo. Paolin è sicuramente uno fuori dal coro. E certamente il suo lavoro è frutto di una ricerca personalissima, estranea alle mode. Uno da leggere assolutamente, ogni volta che esce qualcosa di suo. Uno che mette in gioco la sua esistenza quando scrive, come pochi altri. Paolin mette tutto il corpo dentro la scrittura; pare quasi si ferisca, scrivendo. La prima parola che mi viene in mente quando penso a lui è: necessario. Paolin è un autore “necessario”. Sono dichiarazioni che non faccio alla leggera e che mi sentirei di sottoscrivere anche tra anni (almeno per quanto ha prodotto fin qui). Eccovi un esempio del suo universo e del suo stile, tratto dal dittico “Lo stato dell’arte”, Autori Riuniti, uscito da poco.

Gianluca Barbera

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Da “L’ospite”

Poi suo padre decise che era venuto il momento di andare. “Fammi vedere.” Max allora prese il suo sketch da disegno e glielo mostrò: una serie di linee grigie tagliavano un rettangolo bianco, ogni linea era disegnata con cura e precisione e stava millimetricamente vicina a quella che la precedeva e a quella che la seguiva. In qualsiasi modo si guardasse quello schizzo niente rimandava alla realtà che l’uomo aveva davanti a sé. “Cosa rappresenta questo?” chiese il padre. “Volevo disegnare la luce.” Suo padre aveva chiuso il quaderno e gliel’aveva ridato. Il gesto, il rumore secco della copertina sugli altri fogli, aveva significato per Max una sorta di bocciatura. Negli anni successivi, pur studiando molto la pittura, aveva sempre fatto a meno di carta, pennelli e gli attrezzi del mestiere; e aveva deciso che il suo corpo sarebbe diventato la sua opera. Perché il corpo, perché l’esposizione, l’abuso? Erano le domande che gli rivolgevano durante le interviste o mentre presenziava a una mostra. Lui mentiva, inventava discorsi filosofici e storico/antropologici che lo facevano sembrare il performer più intellettuale della nuova generazione di artisti fiorita negli anni ’90. In realtà era un impostore e del suo corpo gli interessava una cosa sola: la capacità di ingoiare la luce come un buco nero. Il corpo lo distraeva dalla sua una vera ossessione; più usava il suo corpo, più lo corrompeva con azioni, messe in scena, con violenza, più dentro di sé sentiva crescere un vuoto e il suo interno si faceva cavo. Poco alla volta Max aveva sentito di non essere più niente, più incideva il suo corpo o maggiore era la tortura più sentiva dentro di sé crescere un enorme niente. Un torbido niente grigiastro aveva preso possesso dei suoi organi, mucose e cartilagini; questo melmoso nulla uscirà fuori; e finalmente starà bene. Adesso guarda la campagna, lontana da tutti, e ha davanti a sé un’immensa tela da dipingere. Oggi contempla la sua opera prima che nasca. È un autunno bellissimo e lui non è mai stato più disperato di così e per questo inizia dall’alto a sinistra: prende il suo piccolo pennello e la latta di bianco, sale sopra il montacarichi, e comincia.

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In questi giorni ho un ospite, e questo mi ha distratto dallo scriverti. Una piccola volpe ogni notte viene a trovarmi, le prime volte si è avvicinata furtiva agli avanzi di cibo che avevo lasciato nel cortile. Credo che abbia scavalcato o abbia trovato un buco nella cancellata. Era affamata e forse per questo motivo si è spinta fino a me. Io sono stato molto fortunato a vederla la prima volta, mi ero assopito nello studio e dalla porta aperta ho visto due occhi luminosi, come quelli dei gatti, che si aggiravano. Sono rimasto in silenzio e immobile, poi sono strisciato fino al cortile, curandomi di non farmi scoprire. È così l’ho vista, la luce della luna tagliava in diagonale lo spazio, e la volpe era pienamente illuminata. Un animale stupendo. Nel vederla mi sono commosso, mi sono sentito parte di qualcosa che fino ad allora mi era sembrato precluso. Così ho cercato il modo di farla tornare e nei giorni successivi le ho lasciato cibo e tranquillità, ho deciso di non sporgermi più a guardarla così che si sentisse perfettamente a suo agio. La mattina riconoscevo i segni del suo passaggio. Mi interessava che venisse, non che io la vedessi: non mi interessava diventasse mia, ma che io e questo luogo diventassimo suoi. Credo dopo questi mesi di esserci riuscito. Ne ho avuta la certezza qualche sera fa, poco prima di ricevere la tua accorata, benché ironica, lettera. Io ero all’aperto e mi stiravo la schiena appoggiato al muro, godendo dall’edera fresca che gli cresce sopra, quando la volpe è arrivata e mi si è messa davanti. Si è avvicinata e ha incominciato ad annusare me, il muro e le radici dell’edera. Io sono stato felice, perché in lei non ho visto nessuna paura o timore. Io non ero più un pericolo o un altro animale che aveva invaso il suo territorio, io ero semplicemente parte della natura: non c’era nessuna differenza tra me, le piante dell’orto, le frattaglie che lasciavo per cibo. Ero diventato naturale, ero un essere vivente, ma non ero più un essere umano. Ero regredito a batterio, virus o spugna: mi ero fatto piccolo, fino a sparire. E in quel preciso instante ho capito il significato segreto dell’opera che andavo costruendo.

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Da “Il quadrato nero di M.”

Non ho più voglia di scrivere; l’ho capito questa estate al mare, mentre guardavo il cielo e l’acqua entrambi verdastri la mattina. Mia figlia e mia moglie si mettevano la crema e osservavo loro e le altre persone. Ascoltavo i loro discorsi, li registravo, notavo i loro tic, collegavo certe frasi le une alle altre, interpretavo segni, gesti, minuzie e attenzioni. Mi dicevo: ne avrei per scrivere un romanzo o un racconto, potrei averne anche per scrivere un saggio. Poi guardavo l’immensità verdastra davanti a me, la complessità dei riflessi della luce sull’acqua, la precisione con cui l’onda si infrangeva sulla battigia, il modo con cui le nuvole cedevano la loro forma sulle montagne alle mie spalle e mi dicevo: Ecco potrei scrivere una poesia, un poemetto o una frase brillante. Invece nulla. Poggiavo la mia testa sullo sdraio e mi addormentavo per lungo tempo. Quando mi svegliavo tutto era passato. Se nei primi giorni questa sensazione di povertà mi ha reso triste, con il tempo essa è diventata seducente come una casa total- mente vuota e abbandonata. Così, senza aver più nulla da dire, nei lunghi pomeriggi con il sole a picco sulla testa, ho guardato meglio dentro di me, sono tornato indietro a quando mettevo sulla pagina i miei primi lavori per capire come mi sentivo allora. Scrivere mi è sempre sembrata un’attività faticosa: stare seduti ore a pigiare le lettere su una tastiera, cercando di mettere in fila una frase che non fosse solo di senso compiuto, ma che contenesse una certa dose di bellezza e di interesse. Se ci pensate è strano che a scuola ci facciano studiare la vita di uomini e donne che per la maggior parte del tempo stanno curvi su un tavolino. Di quelle lunghe ed estenuanti ore ricordo un certo benessere che pervadeva il corpo. Non saprei come descriverlo se non come un maligno divertimento. Io mi divertivo a scrivere, mi divertivo a passare i giorni davanti allo schermo a digitare parole. Ora ci dovremmo mettere d’accordo sul termine divertire, perché immagino che come tutte le parole neppure questa sia così semplice e neutra. Per me divertire ha il significato di distogliere lo sguardo da. Scrivere era divertente perché mi faceva volgere lo sguardo. Poi è successo un fatto, che è stato bizzarro, ma è accaduto. Le mie parole sono diventate pubbliche, che poi era quello che volevo, perché la dose di narcisismo in chi scrive è altissima; e queste parole pubbliche sono piaciute e la gente ha incominciato a vedere delle cose profonde e interessanti nelle mie parole; delle cose che io non vedevo, ma che mi sentivo in dovere di replicare; un dovere che potrei definire come un continuare a produrre quello stupore di profondità negli occhi dei miei lettori. La scrittura è diventata un lavoro; anche questo pezzo se ci pensate bene è nato così. Una persona che pensa che io scriva cose interessanti mi chiede di scrivere qualcosa per un libro che deve pubblicare. Io apro il pc e scrivo le mie pagine: una parola dopo l’altra, una frase dopo l’altra. Aggiungo un paragrafo e ne tolgo un altro, ne modifico uno e ne taglio un altro. E così via, finché non mi dico che il pezzo va bene e può essere letto. Sono anni che vado avanti in questo modo come se fossi una scimmia ammaestrata. Cosa ci si aspetta da me? Penso di averlo abbastanza chiaro: una narrazione disturbante, ma chiara e nitida nelle forme, quasi banale, con alcune immagini forti e uno sguardo disperato sul mondo. È questo che si vuole da me.

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In una casa, che potrebbe essere simile alla mia, o che è proprio la mia, un uomo di quarantaquattro anni è seduto davanti a un tavolo di legno e scrive al pc. Quest’uomo è così uguale a me che voi lettori considerate tutto ciò che leggete come perfettamente attinente alla mia vita privata, in una parola lo considerate “reale”: reale è il quadro astratto davanti a me, reale l’acquario con il pesce rosso, reale la cameretta della bimba, reale la camera da letto alla destra dell’uomo, che poi sono io, che scrive, e reale la donna di colore legata al letto di ferro battuto con fascette di plastica nere, che le stringono i polsi e le caviglie. L’uomo, che poi sono io, scrive: sta correggendo un saggio che parla di storia dell’arte. In particolare, sta scrivendo del Quadrato nero di Malevic. Mentre fa dei ragionamenti astrusi su questo quadro, si alza e raggiunge la donna nera che è legata al letto. Mentre cita brani dell’estetica di Kant e del sublime di Burke, l’uomo, che poi sono io, incide la pelle nera della donna con un lama piuttosto affilata. Il sangue sgorga dai tagli lentamente, perché l’uomo sta lacerando l’epidermide solo sulla superficie. Poi l’uomo torna alla scrivania e si chiede in che modo potrà giustificare con sua moglie quel sangue sulle lenzuola.

Demetrio Paolin

Gruppo MAGOG