Sono un uomo piccolo, sto sul palmo di una mano, e mi emoziona pensare il poeta che s’incunea a Whalsay, ferita rocciosa delle Shetland. Cercate Whalsay, ora, nel sobborgo metropolitano dove state, e svanite in quel rosario di rocce, in quella mistica oceanica. Il poeta voleva far parlare le pietre, dare nitore al bisbiglio roccioso che le convalida. Anche le rocce sognano.
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“Leggenda vuole che… avesse trascorso tre giorni sulla spiaggia di West Linga dormendo in una grotta e appuntandosi ogni tipo di osservazione sulla geologia del posto, sui colori delle pietre e sui mutamenti di luce di quel cielo nordico” (Marco Fazzini). Era il 1933. L’anno dopo il poeta pubblica Stony Limits and Other Poems. In quella raccolta spicca il capolavoro. On a Raised Beach. Il poeta si chiama Christopher Murray Grieve, ha 42 anni, è un tipo strano, tra il rivoluzionario e il profeta, politico e biblico; i poeti lo conoscono come Hugh MacDiarmid, indossa quel nome dal 1922. In un busto scolpito nel bronzo, Hugh ha capelli che paiono un’aquila, occhi stretti come pugnali. Quell’anno, nel 1922, T.S. Eliot pubblica La terra desolata, e, beh, posto che valgano questi giudizi sommari – ma la vita, in fondo, è una somma di eventi sommari – On a Raised Beach è un poema più grande, selvaggio, possente. Spaventa. Ecco.
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Il poema pare Giobbe ripetuto dalle labbra di Melville, una litania capace di ipnotizzare papà Atlantico. M’impressione il vigore, la forza che ha una cosa viva, con un muso e dei denti. Va letto, perciò, anche, come abbecedario d’etica, questo poema. Ne estraggo alcuni versi, a vortice:
“Dobbiamo essere umili. Siamo così facilmente vanificati dalle apparenze
Che non ci accorgiamo che queste pietre sono un tutt’uno con le stelle”
“È misero affare tentare di abbassare
L’arduo furore delle pietre alle fantasie futili degli uomini”
“La luna muove l’acque avanti e indietro,
Ma non si possono invogliare le pietre a procedere
Neanche un pollice al di qua o al di là dell’eternità”
“Sarà sempre più necessario trovare
Nell’interesse di tutta l’umanità
Uomini capaci di rifiutare tutto ciò che pensano tutti gli altri
Uomini, come una pietra rimane
Essenziale al mondo, inseparabile da quello,
E rifiuta ogni altra forma di vita”.
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Hugh MacDiarmid è la leggenda della letteratura scozzese contemporanea. Piuttosto: ne è l’evocatore, il bardo, il guerriero, il re che ha scelto di deporre la corona per imbracciare il forcone. Giornalista di talento, MacDiarmid diventa poeta per scardinare dalle pastoie inglesi il gergo di Scozia. “L’uso dello scots che MacDiarmid propugnò sin dal 1922 intendeva svincolare questo vernacolo dall’oblio a cui era stato relegato… Ciò che diede forza ed efficacia alla così detta Rinascenza scozzese fu la mistura esplosiva di poetica ed azione politica portate all’eccesso, in definitiva, da un solo intellettuale: Hugh MacDiarmid” (Fazzini). A Drunk Man Looks at the Thistle, pubblico nel 1926 è il punto di svolta della letteratura scots. Per MacDiarmid l’opzione estetica è sostanzialmente politica: nel 1928 è tra i fondatori del National Party of Scotland, da cui viene espulso; dagli anni Trenta s’impegna tra le fila del partito comunista inglese, da cui viene espulso un paio di volte.
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“La mia è la storia di un assolutista, i cui assoluti sono cresciuti a dismisura, fino al dolore nella vita privata”, ha detto. Di lui Kenneth Buthlay ha scritto: “MacDiarmid è il flagello dei Filistei, lo spietato intellettuale che cerca la rissa… era il bardo e il nemico del compromesso”. Il suo comunismo, per intenderci, era il contrario di quello professato dagli educati, cinici, abbienti poeti d’Albione, W.H. Auden, Stephen Spender. MacDiarmid era figlio di un postino, veniva dal sottosuolo, riuscì a leggere perché viveva di fronte alla biblioteca civica; nato nel 1892, durò fino al 1978. “Disprezzava le caste e le categorie, le classi sociali, culturali, l’accademia che, diceva, non è fallimentare, è criminale” (Ian Hamilton).
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Mastico ancora quei versi, un’epica per petroglifi, dal vigore biologico.
Devo entrare in questo mondo di pietra adesso.
Fragmenti, striature, relazioni di tessere,
Ombre innumerevoli di grigio,
Forme innumerevoli,
E sotto tutte loro una stupenda unità,
Movimento infinito che si difende visibilmente
Contro ogni assalto del tempo e dell’acqua…
Penso che del libro mi dissero Andrea Ponso e Gian Ruggero Manzoni. Fu scoperta devastante. On a Raised Beach/Sopra un terrazzo marino. Era il 2001. Editore Supernova. Curatela, impeccabile, di Marco Fazzini. La domanda non sembri cretina: perché questo libro fondamentale di un poeta fondamentale non sta nella ‘bianca’ Einaudi o nello ‘Specchio’ Mondadori? Perché se raspo in Internet mi dicono che non è più disponibile (come se Ii libri fossero ben disposti)? A me pare, questa, seccamente, una idiozia.
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Nella raccolta di saggi oxfordiani La riparazione della poesia Seamus Heaney dedica un testo a Hugh MacDiarmid, La fiaccolata di un singolo. Questo è il dettaglio culturale: “La posizione di MacDiarmid nella letteratura e cultura scozzese è per molti aspetti analoga a quella di Yeats in Irlanda, e le ambizioni indipendentiste degli scrittori irlandesi furono sempre molto importanti per lui. Il suo ardimento linguistico fu ampiamente incoraggiato dall’esempio di Joyce, mentre Yeats e altri scrittori successivi alla rinascita irlandese continuarono a esercitare un ampio influsso sul suo programma di nazionalismo culturale”. Ritratto personale: “Fu comunista e nazionalista, propagandista e plagiatore, bevitore e confusionario, e recitò tutte queste parti con straordinario vigore. Si fece dei nemici con la stessa passione con cui si fece degli amici. Fu stalinista e sciovinista, anglofobo e arrogante, ma la stessa tendenza all’eccesso che manifestava sempre, la qualità esorbitante che segnava tutto ciò che faceva, dava anche forza ai suoi successi e li rendeva duraturi. In altre parole, MacDiarmid possedeva quella ‘forza’ che Sir Philip Sidney giudicava essenziale segno distintivo della poesia stessa”.
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Semus Heaney, al di là del detto accademico, dettò una meravigliosa poesia In Memoriam Hugh MacDiarmid. “Volgiti a me, MacDiarmid, dalle Shetland,/ occhio impietrito dal guardare pietra, sobrio,/ e ostinato”, comincia Heaney, esaltando il poeta “pazzo di scrittura”, con “quell’orgoglio di mettersi alla prova. Di solitudine”, che possiede “l’occhio ciclonico d’una poesia come le stagioni”. La terzina finale ricorda che il linguaggio è scelta di vita, estasi della prova, mai l’ornamento: “Nell’accento, nell’idioma,/ nell’idea come un cardo nel vento,/ un catechismo degno d’esser detto e ridetto in eterno”. Da nessun poeta ho percepito prossimità così chiara, ferina, all’elemento naturale. Questo è un poeta in cui rovinare. (d.b.)
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Mi sono innamorato alfine del deserto,
La dimora della serenità suprema è inevitabilmente un deserto.
La mia disposizione è per le questioni spirituali,
Rese inumanamente chiare; non permetterò che nulla sia interposto
Tra la mia sensibilità e la sterile eppur bella realtà;
La chiarezza mortale di questo “vedere da affamato”
Solo le tracce d’una febbre di passaggio sulla mia visione
Varieranno, turbandola davvero, ma turbandola solo
In modo che acquisterà per un momento
Una chiarezza sovrumana, minacciosa: il riflesso
D’una brillantezza attraverso un cristallo bruciante.
Una cultura richiede agio e l’agio presuppone
Un ritmo di vita auto-determinato; l’abilità di star solo
È la sua prova; con ciò il deserto ci conosce.
Non è questione di sfuggire alla vita
Ma il contrario: questione d’acquisire il potere
D’esercitare la solitudine, l’indipendenza, delle pietre,
E quello viene solo dal sapere che la nostra funzione permane,
Per quanto sembriamo isolati, essenziale alla vita come la loro.
Abbiamo perso le fondamenta del nostro essere,
Non abbiamo edificato sulla roccia.
Hugh MacDiarmid
*Il brano di Hugh MacDiarmid è tratto dal poema “On a Raised Beach/Sopra un terrazzo marino”, Supernova, 2001, cura e traduzione di Marco Fazzini