
“Ho la testa piena di assurdità, mia moglie cerca molluschi”. Le lettere di Dylan Thomas
Poesia
Giorgio Anelli
« pour mieux voir comment se font magiquement les métamorphoses en tout genre »
Suzanne Doppelt, Rien à cette magie
La cinepresa affonda sulla paglia, qualche passo prima di levarsi su un cielo livido che assorbe un paesaggio lunare, « la terra di Puglia del Salento, spaccata dal sole e dalla solitudine ». Così apre La taranta, cortometraggio di Gianfranco Mingozzi (1962), nelle orme de La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud di Ernesto De Martino (Il Saggiatore, 1961), la coda lacera del tarantismo « agito » nel Salento, che Mingozzi documenta tra maggio e giugno 1961. L’azione magica dell’individuo contro la «noia», l’ennui che è danno, sperdimento, mancanza, morso simbolico della Lycosa tarantula, il ragno-lupo. In realtà, il morso pericoloso viene dalla malmignatta (Latrodectus tredecimguttatus) ma fu la scenografica Lycosa tarantula, sebbene innocua, ad entrare nella rappresentazione dell’ « incantamento » velenoso. L’avvelenamento dell’anima, il « risentimento » di colpa che insinua « il male del cattivo passato ». Mal di lutto, mal di fame, mal d’amore, mal di genere. La terra del rimorso è l’ultima tappa del percorso demartiniano, insieme alla teoria del sacro, sulla « crisi della presenza » dell’individuo al mondo, che da Il mondo magico (Einaudi, 1948) arriva fino al certosino assemblaggio postumo La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali (1a ed. Einaudi 1977, a cura di Clara Gallini; Einaudi 2019, a cura di Giordana Charuty, Daniel Fabre e Marcello Massenzio). Attraverso l’analisi dell’esperienza ‘polemica’ dei tarantati e, soprattutto, delle tarantate, esso scava nella precarietà della presenza, opera perpetua di crollo e ricostruzione di cui è parte l’« esorcismo coreo-musicale » dei tarantati e, soprattutto, delle tarantate, attraverso l’« evocazione » (uscita dalla realtà e immedesimazione nel ragno) e il « deflusso » (neutralizzazione dell’avvelenamento e reintegro nella società).
L’esperienza terapeutica di ek-stasis della tarantella racchiudeva, per De Martino, sia l’essere nel naufragio, nel rapimento che strappa l’individuo alla comunità, che l’azione di ripristino nella storia, la realtà socialmente codificata e condivisa. Andando oltre la visione demartiniana di uno stato extra-ordinario, e privilegiando una dimensione quotidiana della possessione, il ragno è stato interpretato come una delle metafore animali di negoziazione della corporeità femminile. Esse venivano apprese e narrate all’interno di una comunità di relazioni e di potere che oggi esplicita la possessione e il disagio esistenziale non più attraverso la coreutica ma attraverso la narrazione (Mariella Pandolfi, « Le self, le corps, la ‘crise de la présence’ », Anthropologie et Sociétés, 17, 1-2, 1993, 57-77). Il ragno rappresenta l’utero stesso del « corpo aperto », organo mobile « dai cento rami » che « si spartoglia » e invade tutti gli altri organi, simbolo di desiderio sessuale (Giovanni Pizza, La vergine e il ragno. Etnografia della possessione europea, Rivista Abruzzese, 98, 2012, 79-140).
Il rituale descritto da De Martino comportava una « terapia » a domicilio in cui « il dispositivo simbolico » di possessione si materializzava attorno alla sollecitazione della persona « incantata » a danzare accompagnata dagli strumenti della pizzica tarantata. Tra questi vi erano il violino, il farnaru (tamburello), la chitarra e l’organetto, che, insieme a nastri sgargianti e, a volte, allo « stimolo olfattivo » del basilico, del rosmarino e della ruta, « scazzicavano » (attizzavano) la « morsa », che ‘agiva’ su un lenzuolo bianco, vestita di bianco, stringendo un panno bianco. A volte era attorniata da uno « scenario acquatico » composto da decorazioni vegetali e, in alcuni casi, da fontane artificiali. « (…) allora l’aveva pizzicata la taranta acquarola, la taranta d’acqua… ballavano nell’acqua, facevano li crasti molto grandi, li cofini molto grandi pieni d’acqua, allora lei dentro e ballava nuda… solo i suonatori la vedevano, anche se con tutte le cautele, la coprivano con il lenzuolo quando la mettevano nell’acqua, quando la uscivano ma non è che la potevano coprire proprio bene » (Fernando Giannini, Tre violini. Inediti del tarantismo, Kurumuny, 2002. Versione pdf, 15-16). Erano talvolta presenti le spade, gli specchi, la fune o l’altalena, dai densi rimandi simbolici al gorgo della vertigine (Raffaele Salinari, L’altalena. Il gioco e il sacro dalla Grande Dea a Dioniso, Punto Rosso, 2014). Un armamentario terapeutico considerato eco del rituale coribantico dionisiaco, e dell’orfismo, (Vittorio Macchioro, Zagreus. Studi intorno all’orfismo, Vallecchi Editore, 1930 ; Ernesto De Martino, « Tarantismo e coribantismo », Studi e Materiali di Storia delle Religioni ; 1961, XXXII, 195-196), che, rispetto al pantheon classico, insinua il senso di colpa di tradizione giudaico-cristiana, il « morso » della noia. « Ascolta, o beato, le voci e dissipa la difficile ira/placando le fantasie, necessità dell’anima sbigottita » (« Al coribante. Profumo d’incenso », Inni orfici, XXXIX, a cura di Giuseppe Faggin, Edizioni Āśram Vidyă, 2001, 111).
Numerosi sono i paralleli con rituali di possessione dell’Africa occidentale e orientale e del bacino mediterraneo (Georges Lapassade, Dallo sciamano al raver. Saggio sulla transe, Urra, 2010), in particolare con il rituale sardo dell’àrgia e il jnoun tunisino (Clara Gallini, I rituali dell’àrgia, CEDAM, 1967 ; Gino Di Mitri, « Les Lumières de la transe. Approche historique du tarentisme », Cahiers d’ethnomusicologie, 19, 2006, 117-137). La danza poteva durare, con delle pause, tre giorni, fino a che la tarantata non avesse « sfogato » con il collasso, che ne segnava la catarsi e, se avvenuta, la liberazione dal morso. Le « crisi », che si manifestavano soprattutto da maggio a settembre, nella stagione dei lavori campestri, si acceleravano a ridosso del 28 e 29 giugno, quando durante la festa dei Santi Pietro e Paolo le tarantate affluivano nella cappella sconsacrata di San Paolo a Galatina per ringraziare il Santo, legato al tarantismo attraverso il culto orfico stesso (Vittorio Macchioro, Orfismo e Paolinismo. Studi e polemiche, Editrice Cultura Moderna, 1922), della guarigione avvenuta, o implorare, nel caso « la grazia della quiete » non fosse ancora stata concessa.
Ma come si avvicina, Suzanne Doppelt, a questo animale marcescente, fertile « cicatrice sulla carne » ?
« È stato durante un soggiorno vicino Ostuni, in Puglia, che ho visto La taranta per la prima volta (…). Questo piccolo film mi ha subito presa, per la sua stranezza, la sua potenza, la sua bellezza (…) vi ho visto anche una fortissima carica ‘poetica’. Conteneva tutto quello che mi interessa e che mi mette ‘in movimento’ » (Suzanne Doppelt, nota del 16 gennaio 2022).
Doppelt fa dell’evanescenza, dell’ambiguità, della vertigine, dell’immagine che inganna, del contrasto, radice e non voragine della presenza al mondo nella sua intrinseca mutevolezza. Integra il quadro demartiniano con una visione della magia come artificio cinetico autonomo. Incontra il corpo in movimento di Assuntina, detta Maria di Nardò, già centrale nella ricerca di campo di De Martino, e quello di Lea, da un orizzonte imbevuto del corpo-atelier dell’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert, degli automi di Jacques Vaucanson. Antenati delle bambole meccaniche, « le vere fate » dei passages parigini, come la fata Concordia descritta da Friedrich Hackländer (Walter Benjamin, Parigi, capitale del XIX secolo. I « passages » di Parigi, Einaudi, 1986, 876). Il corpo meccanico nel suo movimento ripetitivo porta così la dualità dell’inquietudine e del prodigio. Il tempo delle lanterne magiche e del teatro d’ombre di Dominique Séraphin (1780), dimora del mago Rotomagot, e delle sue tecniche d’incanto : « Per meccanizzare le figure si tagliano e si forano con un ago le due parti, poi si passa un filo che si chiude su ogni lato della figura con un nodo, in modo che il braccio sia attaccato al corpo e possa muoversi » (« Mécanismes des figures », Le Séraphin de l’enfance : recueil de pièces d’ombres chinoises dédiées à la jeunesse, Dembour et Gangel, 1843, 3). Il tempo dei jouets optiques di cui scrisse Baudelaire in Morale du jouou (Gallimard, 1961) : un disco di cartone tenuto da un manico attraverso cui guardare uno specchio, tromperies della meraviglia dove la magia incontra la mano. E, nell’opposto speculare alla materialità pignola della meccanica, i vapori delle anamorfosi che sgommano i contorni della realtà, li dilatano, li invertono in un eterno arabesque. « Non sono mai veramente sicura di quello che ho visto », dice Doppelt (intervista su Meta Donna, France Culture, dicembre 2020). Il trouble, lo sbandamento, non è limitazione ma dépassement, superamento, come lo è per Henri Michaux, che scrive di ‘essersi’ in interazione di molteplici « io », nel movimento « che rompe l’inerzia, che confonde le linee, che disfa gli allineamenti », forma di « disobbedienza » (Émergences. Résurgences. Les sentiers de la création, Skira 1993, 64). Come lo è per il musicista Arthur Higelin, che vede scapigliarsi la sala da pranzo, e la tovaglia, le sedie, il tavolo, i piatti volare via in un sussurro che attraversa il sistema solare. La parete della stanza si apre e Arthur, esposto allo spazio aperto, può prendere la luna tra le mani. Il tavolo tondo si rimette in piedi, i frammenti della flûte à champagne si riuniscono, la pioggia di petali rossi che accarezza la stanza si accorpa in una rosa, mentre l’ombra dell’amata si disegna sul muro. « Tu mi laceri, tu mi ripari/» (Arthur H, Assassine de la nuit, 2018). Tutto è magia, o niente. Tutto è magia, o niente.
Il mondo è quello che si vede attraverso il kaleidoscopio, « scatola da malizie », « smontaggio erratico » dell’occhio surrealista (Georges Didi-Huberman, « Connaissance par le kaleidoscope », Études photographiques [on-line] maggio 2000, http://journals.openedition.org/etudesphotographiques/204), dove ogni pagliuzza, ogni granello, è pianeta. Il suo movimento incantatorio oscilla tra collage onirico e materialità del frammento, che non rivela una perdita ma un microcosmo auto-sufficiente, come la mano-cosa del cane andaluso di Buñuel, ricettacolo di stupore, spavento e ribrezzo. La mano, corpo autonomo. Il genio alla luce del giorno cementato nei calchi delle mani d’artista e quello torbido, notturno, portatore di un desiderio inconfessabile, de La mano incantata di Gérard de Nerval, dove si riflettono « le meteore della testa e le tempeste del cuore » (Paul Verlaine, Mani). In Doppelt, la mano di Lazy Suzie (2009) tiene un uccellino da carillon ; quella di Rien à cette magie (2018) sfiora una piccola sfera che rimanda alla bolla di sapone del quadro di Chardin, pensiero pastoso sulla fugacità della vita; in Vak Spectra (2017) è all’interno di un cubo.
Nel suo teatro delle ombre, anche la Meta Donna, la tarantata di Suzanne Doppelt, metà donna metà ragno, è « macchinazione » (Rien à cette magie, 46), fucina dell’artificio, « sonnambula », come l’isterizzata magnetica (Clara Gallini, La sonnambula meravigliosa. Magnetismo e ipnotismo nell’Ottocento italiano, Feltrinelli, 1983), che perdendosi nella sua « battaglia fantasma » suscita la magia. Non soltanto la magia come azione storica e puntuale di De Martino ma magia immanente, corpo danzato nel suo proprio tour de magie, perché « non appare che ciò che è stato capace prima di essere contenuto » (Ibid. 54). In Meta Donna (2020) una delle illustrazioni è un piede di manichino : il piede delle tavole di chirurgia illuministe, disegnato secondo il principio tassonomico delle collezioni di farfalle, come il piede-arto di Amusements de mécanique (2014), simbolo della cinetica e del suo potere di creazione. Il piede-pedale del biciclo, il piede-propulsore della corsa cronofotografica di Étienne-Jules Marey. Metro di misura non solo quantitativo ma anche identitario di ciò che è al suo opposto, agli anti-podi ; recettore di lontananza e bizzarria. Il piede diventa « acrobata », « funambolo » quando cerca di schiacciare la bestia a passetti cadenzati, e nel movimento di vita propria che sbaraglia e rincolla è acrobata, è funambolo. Le mani della tarantata, sapientemente evidenziate dalle riprese della possessione di Lea, sono arti di ragno. Così il rituale diventa « un volo notturno su un corpo domestico », la vertigine che tiene desto il miracolo, dove ogni pezzo del corpo-macchina risplende di un’animazione indipendente e compiuta, « il cerchio dell’addome, il cilindro del collo, il triangolo del naso, le sfere degli occhi, tutto insieme in una bella tecnologia » (Lazy Suzie, 45). Come una farandola. « ci si danza in cadenza ci si sporge ben in tondo richiama la trottola una famosa ronda d’inferno in costume d’epoca turbinio vertigine delle scale e contro-scale tutto circola piccione vola tappeto vola una racchetta più un volano e la velocità del suono » (Rien à cette magie, 50).
Un secondo elemento portante di Meta Donna, oltre alla meccanica, è il gioco dei contrasti che svelano la corrispondenza : donna/ragno, veleno/anti-veleno, dolore/riparazione, come nel cinema di Robert Bresson : « montare un film è legare le persone le une alle altre e agli oggetti attraverso gli sguardi ». I personaggi di Bresson dialogano in un contrasto silenzioso. Il montaggio è cucito sui ritagli degli sguardi. « Sii certo di aver esaurito tutto quello che si comunica con l’immobilità e il silenzio » (Bresson in Rien à cette magie, 75). Mingozzi affida agli squarci silenziosi di luce e ombra la sospensione della noia, la tribolazione, il danno incombente, la disperanza. È contrasto la luce che entra dalle bocche mute delle chiese di campagna. È contrasto la nera croce traversa, e la sua impronta dritta bianca rimasta incollata al muro. È contrasto la luce dietro il presepe di bambini che guarda la danza di Lea in penombra. È contrasto la madre di Lea imperturbabile come una crepa mentre lei striscia da sotto una tenda e si dimena. E contrasto è il pugno legnoso di Lea sul vetro del ritratto di San Paolo taumaturgo, che non vuole ancora esaudirla, e Lea straccia il santino. « Il santo taceva ». « No ! ». Per un attimo si riprende nel pugno la sua fede, Lea. La lotta d’amore richiede supplica e negazione.
In Meta Donna, la metà-donna (in corsivo), che restituisce in forma poetica il documentario di Mingozzi, dialoga frontalmente con la metà-ragno, in cui si ritrovano alcuni rimandi cari a Doppelt, dalle illusioni geometriche alla presenza degli insetti. Così, seguendo il flusso visivo de La taranta, la poeta evoca l’ampio spettro del processo di possessione e depossessione, che non si limita all’evento di terapia domiciliare e al pellegrinaggio a Galatina (una terza tappa prevedeva che la persona guarita si recasse insieme all’orchestra nel luogo preciso in cui era stata morsa) ma costituisce una condizione latente di caos intrinseca al mondo del vivente, con « il paesaggio dagli alberi sfatti rivoltato più volte ». Un’apocalisse sospesa dagli orli cangianti nelle parole di un poeta sul bilico. Salvatore Quasimodo, che scrisse il commento de La taranta. Pellegrino del dolore, Quasimodo conosce la noia incombente : « l’ansia di noia », « la noia dell’attesa », la sconfitta dell’anima, la speranza nella guarigione. Si nutre della sua pelle, attraverso piaghe, eruzioni cutanee, rossori (Héloïse Moschetto, « Dall’esorcismo al transumanar : le tarantolate di Salvatore Quasimodo », Babel. Littératures plurielles, 2020, 273-300). « E un sepolto in me canta/che la pietraia forza/come radice, e tenta segni/ dell’opposto cammino ». Diversi sono, nel testo de La Taranta, i rimandi alla poetica di Quasimodo. La terra di Puglia « spaccata dal sole » rievoca i « ginocchi spaccati dalla noia » di « La mia giornata paziente ». L’accerchiamento della vertigine, « passo dopo passo », fa eco allo splendore di « La terra impareggiabile » : « Da tempo ti devo dire parole d’amore:/o sono forse quelle che ogni giorno/sfuggono rapide appena percosse (…) o la mia vita già accerchiata, amore/ ». Trafitto dai segni dell’invisibile. La voce di Quasimodo, come la tarantata-automa di Doppelt, conduce ineluttabilmente all’arena arroventata della cappella di Galatina, alla ronda finale, « un drammatico pozzo di serpenti in lotta » (Gianfranco Mingozzi, La taranta. Il primo documento filmato sul tarantismo, Kurumuny 2009, 33). Nella piazza ancora deserta il mirador a cupola aspetta la festa. Il lampadario, una taranta nera picchiettata di bianco, oscilla. Raccoglie piano l’annuncio del vento del rumore che verrà. Ora la piazza è malassata dai corpi addensati a ridosso della chiesa dei Santi Pietro e Paolo. Sotto il canto ilare, quasi in falsetto attorno ad Assuntina, vestita di bianco, all’interno della cappella, che scuote ossessivamente la testa, scorre l’ululato strozzato che alita su una tarantata vestita di nero con le calze nere mentre arranca a quattro zampe sul piazzale. Si rialza in piedi e inizia a saltellare, scagliando una smorfia rabbiosa contro l’operatore, Ugo Piccone (aggredito il giorno prima a casa di una tarantata) e l’assistente Giorgio Aureli che stavano riprendendo dalla terrazza di un’abitazione. Anche Assuntina ora saltella, mentre la donna in nero si sbriglia in una corsa concentrica accompagnata dai versi della folla che accerchia. Assuntina si è arrampicata sul cornicione della pala d’altare. Immobile come una mantide. La donna in nero rotea a braccia aperte. Sta per cadere, un uomo la prende e la adagia a terra. Un vigile gli passa un cuscino. Il passaggio della banda in uniforme inghiotte le urla e segna la cesura con il tempo arcaico del chitone bianco. Un uomo vende santini in un ombrello nero rovesciato. Una tarantata bianca è messa a sedere da un vigile ; salta sulla sedia e guaisce mentre le tengono le braccia. Le portano l’acqua.
Infine arriva la notte. Infine arriva la notte. Dal mirador illuminato allestito davanti alla facciata della chiesa la banda suona solennemente l’omaggio a San Paolo. L’estromissione dei vagiti delle tarantate dalla civiltà. Le lampadine e gli ottoni lucidati spengono « l’ultimo tempo ». La cupola risplende come una torta alla panna. Suzanne Doppelt restituisce bene la tragedia della ronda di Galatina, l’«uragano fosco». Con la notte, «l’animale comincia a declinare, e la favola diventare un mal di nervi». Spoglie dell’habitus di gesti e pareti quotidiani veicolato dal dispositivo coreutico del rituale a domicilio, le tarantate sono schegge, corpi vaghi. I loro movimenti, disertati dall’apparato magico che ne faceva azione culturale, scemano senza orizzonte, sono «rottame». Due anni prima, nel giugno del ’59, la fine della magia era stata decretata per legge dal sindaco di Galatina, che per motivi sanitari aveva fatto chiudere il pozzo di San Paolo che dava «l’acqua grossa», l’acqua di grazia dove pullulavano scorzoni (serpi) e scorpioni, «gli animali del santo». Assuntina, accompagnata da De Martino, fece in tempo a bere l’ultimo bicchiere d’acqua.
«In questi deserti, in questo irriconoscibile sole, incominciare la nuova Preistoria» (La rabbia di Pasolini chiude Meta Donna).
*
Da Meta Donna :
Il sole è largo come un piede d’uomo e piatto
come una foglia di cavolo, c’è da guardarlo lui oppure
la polvere vecchie stelle sfumate, bianca quella del suolo
nera quella delle case delle urne degli antenati, basta
che una superstizione le uccida, e gli alberi da mastice le
statue pile diventate confuse cadute dal cielo o
trovate in un cespuglio, non abbiamo che il silenzio
per irritare il diavolo e le forme mute, non si vede che l’ombra,
il tempo cerca prede per incarnarsi
non si vede null’altro che l’ombra un piccolo miraggio perso
nei campi, alla fine abbiamo solo il silenzio quello
della natura è grande, quello dei chiostri è ingannevole
e il gioco sordo degli automi una bella prestazione acustica
la bocca cucita e senza espressione, quattro minuti e
trentatré secondi ma resta il suono acuto del sistema
nervoso e l’eco senza timbro una nota che risuona in ogni dove,
parlare non dice niente a questo modesto animale,
la sua misura silenziosa questa noia che gli ha rotto la voce
bianco su bianco la luce sottrae i bordi, metallico
o di piombo un colore tossico suona come un silenzio
in questa scena prosciugata, sono a metà immobili
tra il grano e il tabacco capato arrotolato e archiviato
per terra sul suolo antico
tutto pesa è un curioso sortilegio domestico, una noia
così profonda che deve smorzare in ritmo insensato
il violino quello del barbiere, il tamburello quello del contadino
e la fisarmonica del becchino, quando l’estate arriva a mezzogiorno
l’ora senza ombra e senza alcuno sfumato
è proprio per terra e ognuno al suo posto, dietro la
tenda lei rimesta né sorridente né profumata muta come
una carpa o dietro lo schermo delle sue notti insonni,
ne esce con un movimento continuo e magnetico che
aderisce intero al pavimento, con il corpo tutto, piedi
e mani, rotola ruota batte la misura, è caduta
piano di che rialzarsi ma per ora diventa il ragno, è una corda elastica
e invisibile che l’ha fatta inciampare
né sorridente né profumata nessun trucco eppure regna
un odore senza pari, quello viziato della cicuta in fiori
o dell’ortica bruciante, i colori e i suoni gli rispondono
flotta libero nell’atmosfera, rustico tossico e introvabile
nubi invisibili, lo fabbricano in laboratorio,
un composto che vibra nelle minime parti
come un albero di mastice, come il grano, le foglie di tabacco
o l’euforbia secca in estate, si può dipingere un fiore
più tutti i suoi colori ma non il suo odore
in piedi ora piede a piede lei è venuta
piede a piede deve andarsene per questo si deve battere il suolo
sempre più forte a misura delle correnti i salti e i controsalti
guardala, la sonnambula del Sud
il suo balletto meccanico, dall’esterno di una finestra
spalancata con filosofia, il suo numero si fa sulla
polvere dei morti e di tutti gli assenti, rapita
dall’azione e bianca come un panno fino alla vertigine
e fino all’oblio lei ricade un povero straccio
vedere fuori tra una linea d’orizzonte e una di fuga
i muri che si disfano, gli alberi da mastice, l’erba feltrata,
scene di genere l’occasione di un’apparizione
da una finestra spalancata dove dentro lei lascia passare
l’aria, la luce, gli odori e i suoni, vedere tra le
quattro mura di una stanza un vero spettacolo il peggio
e il meglio si trovano dietro rotonda quadrata in foglie di
trifoglio o in occhio di bue, una romanza stramba,
rimpiazza la passeggiata e il teatro
la forma di un piede quello di un braccio e di un occhio sperso,
in ferro in pietra cera d’api, una cosa in cambio di
un gesto unico, prodotti del mare contro prodotti della terra
oppure una danza à tout casser, un dato per un reso
caccia uno spirito maligno quello dei muri incurvati,
impedisce di affogare in un lavatoio pubblico
la caduta di un uomo in un crepaccio, un bambino in fondo
a un pozzo o un attacco di animali incantati, lo stesso per la forma
di un orecchio una macchina passiva e a metà sorda
attraverso il suono e il movimento l’equilibrio si ricompone fino
all’estate seguente la prossima raccolta piena di bestiole brille,
per ora l’auto attraversa le immagini, è la radio attività
che ha fatto il paesaggio di linee spezzate,
di muri divisi, di materia bianca senza bordi
e senza edificato, il silenzio incompleto della natura esattamente il 29 giugno
sotto un sole del diavolo lei guida verso la cappella ufficiale
qui basterebbe una parola, una retro-visione ma insomma cosa fuggite?
il mio solco, accidenti
da un punto all’altro l’auto attraversa le immagini
tremano di apparizioni furtive, i cespugli gli alberi,
un pezzo più un altro, un vuoto pieno di corpi fissi,
il paesaggio inquadrato dalla finestra tutta una storia dipinta
e nessun fuori-campo, scivola per la campagna
di legno e ferraglia il suo cammino di ruggine e grigioverde,
non c’è più che il movimento ma quasi fermo,
il montaggio è generale, è una banda magnetica il cui
inizio è la fine qualunque viaggio è circolare
un paesaggio alberi sfatti silhouette che si
ripetono e un cammino conforme, è una vaga pittura
bianca nera e ruggine, lo sguardo durante scivola
si deve seguirlo fino al cuore della città
là dove si depongono come morte le sonnambule in disfatta
per una mirabile cerimonia prima del prossimo morso
siamo al gran giorno della tarantola, la folla c’è è non c’è
testimoni gravi e riservati, assistenti che guardano impavidi
una donna che si appresta a muoversi come un serpente
[l’albero] si tende dal basso verso l’alto portandosi via un po’ di suolo,
è il più innalzato e apparente, l’insieme gli si ordina intorno
il tempo cerchio per cerchio l’orizzonte e il paesaggio
dagli alberi sfatti rivoltato più volte, in inverno delle silhouette
che si ripetono, una linea generale e schematica, non figura più veramente
né vibra, privato di tutto il suo ruolo è sempre quello di una spia,
in estate può produrre suoni ed emanazioni l’albero da candele e da grilli,
l’albero da febbre e da trasmissione
dentro o nell’aria si sentono urla bizzarre e si vedono
figure di ogni genere, per terra torsioni sommarie e animali,
in piedi sul sagrato si gira a vuoto una ronda
dal ponte, loro ripassano venti volte allo stesso posto
una ronda immensa un uragano fosco, vestite di nero
o di bianco come un panno imitano i giri e le svolte
del labirinto, a chi è venuto insegnano
i fondamenti della geometria i suoi fascini diabolici
o come divenire semplicemente acrobata
un solo filo teso fa ritrovare il suo cammino,
A ha dato a T un bel gomitolo ricevuto da D oppure
qualche ciottolo, un cammino coperto di orli, doppio o semplice
traccia curve dritte controcurve e cul-de-sac
dalla bestia sotterranea alla luce del sole, i giri e le deviazioni
del labirinto che imita con spirito la gru una danza asimmetrica
e a tre tempi, lei è passata da qui, ripasserà sicuramente da qui,
è il gioco del dedalo non ci si perde ma se ne esce sempre persi
tutt’intorno alla terra gira la luna semplice o doppia
con la sua luce a prestito che lei rimanda come uno
specchio di vetro, le immagini volteggiano in aria
delle silhouette nuove e il ritmo delle ombre forma
qualcosa che somiglia a una tela, è che nei sogni tutto
si presenta volentieri e un gran numero di fatti possono
sembrare veri ma quando si dorme colui che passa la notte
nella marrana si sveglia cugino delle rane o del ragno nel suo letto,
è un’altra storia
è la fine del giorno il nero che viene dall’ombra la stringe,
gli occhi ancora vuoti dormienti o sonnolenti lei vede il cielo
tra le stelle la luna doppia a volte fa sogni a colori,
l’animale inizia a declinare e la favola diventare un mal di nervi,
Paolo delle tarantole sfila alto, tutt’altra musica e altre luci,
Il mondo si dà in spettacolo, un teatro di strada e di marionette con i suoi gesti conformi,
fa un po’ giorno nella notte e lei ignora quello che ha fatto prima.
*
Suzanne Doppelt è nata a Parigi. Ha insegnato filosofia, scrive e fa fotografie. La maggior parte dei suoi libri, pubblicati da P.O.L. (Gallimard), vertono sul tema della percezione. Cosa vediamo? A questa domanda banale la poeta tenta di dare risposta attraverso le corrispondenze simboliche (Totem, 2002), le immagini spiritiche (Le pré est vénéneux, 2007), le anamorfosi (Lazy Suzie, 2009), il quadro di Jacopo di Barbaro (La plus grande abérration, 2012), il teatro saturo di segni di Amuséments de mécanique (2014), la camera ottica di Vak Spectra (2017) o la bolla di sapone del quadro di Chardin. La sua ultima opera, Meta Donna (2020), interpreta il morso simbolico della taranta in Puglia negli anni ’60. Ha esposto al Centre Pompidou, all’Institut Français di Napoli, alla galleria Martine Aboucaya, al Louvre, alla New York University, agli Ateliers des Arques. È membro della Redazione della rivista Vacarme e dirige la collezione « Le rayon des curiosités » delle edizioni Bayard.
Tutte le traduzioni da opere originali in francese nel testo sono dell’autrice.
Le foto-ritratto e la foto di copertina di Meta Donna sono di proprietà di Suzanne Doppelt.
La pubblicazione dell’estratto da Meta Donna in traduzione è stata amabilmente concessa dalle Edizioni P.O.L. © 2020.
Cristiana Panella