27 Marzo 2023

“Quella tremenda pace”. Il mistero delle Elegie Duinesi e il segreto mistico di Muzot

Sabato 11 febbraio 1922, alle sei di sera, Rilke posa la penna: le Elegie Duinesi, così faticosamente incubate, macerate, percorse in ginocchio – sono compiute. Con la stesura della Decima Elegia, la prediletta, risolve l’opera intera, librata d’assalto, in pochi giorni, insieme alla prima parte dei Sonetti a Orfeo, cui seguiranno le parti mancanti di entrambe le raccolte.

Dalla torre di Muzot, diverse lettere di esultanza partono alla volta delle persone più care: Baladine Klossowska, Marie von Thurn und Taxis, Nanny Wunderly Volkart, Anton Kippenberg e naturalmente Lou Salomé:

“Lou, cara Lou, […] Pensa! Ho potuto resistere fino a questo punto. Attraverso tutto. Miracolo. Grazia. Tutto in pochi giorni. È stato un uragano come allora a Duino: tutto in me, fibre tessuto, telaio, scricchiolava e si piegava. Al cibo non ho avuto tempo di pensare […] Ora mi riconosco nuovamente. Era come una mutilazione del mio cuore che le Elegie non fossero realtà. Ora sono. Sono.”[1]

Quella sera, al chiar di luna, Rilke esce dal suo studio e accarezza il piccolo Muzot che “gliele ha custodite, che, finalmente, gliele ha concesse, come un vecchio grande animale.”[2]

Ancora oggi i blocchi di pietra di Muzot vibrano di mistero. Come si può spiegare lo scatenamento di un simile prodigio in così pochi giorni? Non si può. “Prodigio: intangibile: inconcepibile”, dirà Marina Cvetaeva. Come tutti i misteri, anche questo non ammette spiegazioni: i versi vennero dettati a Rilke come da una forza superiore, la sua mano guidò la penna. Un uragano nello spirito, lo definì lui stesso. L’uomo e gli dei, vita e poesia, si fusero in sublime e nuova parola lirica.

Con la Decima Elegia, il cui inizio era già stato concepito a Duino ben dieci anni prima[3] “Ch’io un giorno, uscito da intuizioni arrovellate/possa mandar su, agli angeli concordi, il mio canto di/ giubilo e di gloria” (X,1-2), Rilke sa di aver fatto centro. Gli ultimi versi – e con essi l’opera intera – sono raccolti intorno all’immagine di una caduta, che non segna tuttavia una morte, una fine, quanto una metamorfosi, un rinnovamento – secondo due simboli tratti dalla natura, volti a rappresentare quella morte indagata lungo tutta l’opera, come un’altra faccia della vita stessa:

“Ma se i morti infinitamente dovessero mai destare un
simbolo in noi,
vedi che forse indicherebbero i penduli amenti
dei noccioli spogli, oppure
la pioggia che cade su terra scura a primavera.
E noi, che pensiamo la felicità
come un’ascesa, ne avremmo l’emozione/quasi sconcertante,
di quando cosa ch’è felice, cade.

(X, 106-113)

In questa celebrazione della terra, con il suo ciclo naturale di morte e di vita, la felicità non è dunque elevazione (ricerca di una trascendenza irraggiungibile) ma caduta, inchino verso la terra: umile adesione al ciclo della natura, eterna trasformazione.

Rilke è consapevole di aver chiuso il cerchio – e grandiosamente –; di aver legato con estrema cura la vastità ed originalità tematica dell’opera; di aver compiuto quello che aveva intuito anni addietro davanti ai quadri di Cézanne: la réalisation. Il compito dell’arte è salvare le cose. E salvarle, nel senso rilkiano, significa salvarle in noi, compiere un’incessante metamorfosi che le fa rinascere nella nostra dimensione interiore, attraverso un amore che non desidera o conquista ma semplicemente contempla – attraverso una sorta di operoso abbandono. Si tratta di uno sguardo nuovo sulle cose; uno sguardo che fonde l’oggetto osservato e il soggetto che osserva, lo spazio di mondo esterno e lo spazio di mondo interiore in un unico spazio terzo – spazio interiore di mondo – in cui ogni essere è attraversato da una “luce serale” che “abbraccia ed è abbracciata” al tempo stesso.

Pagina dopo pagina, prende forma nell’opera una progressiva dilatazione della sua soggettività verso questo spazio interiore di mondo, che la lingua tedesca riesce ad esprimere con un unico vocabolo composto: Weltinnenraum, coniato da Rilke. Ed è questa la via – disarmante nella sua mistica essenzialità – che lo ha guidato nella composizione delle Elegie e che ha dimora nella bellissima metafora con cui cercò di spiegarne il senso a Witold von Hulewicz, suo traduttore polacco, nella celebre lettera del 13 novembre 1925, una sorta di breve trattato esplicativo delle Elegie: “Noi siamo le api dell’Invisibile. Bottiniamo perdutamente il miele del visibile per accumularlo nella grande arnia d’oro dell’Invisibile”[4].

Trasformando il visibile nell’Invisibile, i versi diventano nelle Elegie sinfonia di concetti, immagini struggenti, metafore, enfatizzate da sapienti corsivi. Cadere e rialzarsi, morire e rinascere. Guardare in alto verso il grande mistero per abbassarsi verso le cose umili ed amarle. C’è da perdersi e ritrovarsi; “il leggere, il leggere fino alla fine è a malapena possibile”, dice Lou,

“così è soltanto nei giardini i cui sentieri non si possono assolutamente percorrere come sentieri poiché il tripudio dei fiori e del verde tutt’attorno ostacola, arresta il cammino; ovunque, sempre di nuovo, a ogni strofa, a ogni verso mi siedo, sentendomi come sotto un pergolato i cui rami si intrecciano sopra di me per creare una patria favolosa”[5].

Come incise su una gigantesca tavola di pietra, quelle dieci Elegie esprimono quello che da anni Rilke sentiva come il compito della sua vita [6]: interlocuzione con la morte – l’altra faccia della vita che tendiamo a lasciare in ombra; riflessione esistenziale sui compiti ultimi della vita; assenso definitivo alla vita ealla morte, alla grande unità del tutto – dell’aldiquà e dell’aldilà. Dieci componimenti in cui si muovono gli angeli (figure centrali delle Elegie, uccelli dell’anima, sottratti al tempo, al peso e ai vincoli della materia, di casa nella grande unità), i santi, gli amanti, i giovani morti, le fanciulle, le marionette, i saltimbanchi, l’eroe, il bambino, le lamentazioni e le altre originalissime proiezioni rilkiane.

Muzot: il luogo magico dove Rilke compie le Elegie e scrive i Sonetti a Orfeo, colto da un turbine, nel 1922

Non sono mai i singoli concetti a guidare il senso nelle Elegie, ma combinazioni di concetti, archetipi, figure, costruzioni mentali che Rilke gira, rigira, rimedita per tesservi sempre più sottili significati e collegamenti, talvolta difficili da catturare nella loro inarrivabile altezza. Nell’aria rarefatta delle vette ne respiriamo intensamente la grandezza: siamo di fronte ad una delle opere liriche più profonde e complesse della poesia del Novecento[7]. È Rilke stesso ad affermare che le Elegie lo sopravanzano infinitamente; lo dice con la sua consueta umiltà a von Hulewicz (nella lettera citata del 13 novembre 1925), con parole illuminanti sul significato generale dell’opera e sul suo rapporto inscindibile con I Sonetti a Orfeo, nonché con la produzione precedente – Il libro d’ore, Nuove Poesie, I quaderni di Malte Laurids Brigge.

Le robuste mura di Muzot hanno custodito questo compito poetico e hanno permesso che fosse realizzato. Rilke ha trovato finalmente la sua casa, il suo angolo di mondo. Ne parla alla sua giovane amica svizzera, Anita Forrer, in una cartolina con l’immagine di Muzot e l’iscrizione “J.J. 5380 Castello di Muzot (XIII secolo) presso Sierre (Valais)”. La cartolina è senza data[8] – un dettaglio, questo, che pare consegnarla idealmente all’eternità:

“Le avevo inviato un’immagine del mio «castello»? – Ecco dunque Muzot, certamente prima delle ristrutturazioni iniziate verso il 1900, ma che, grazie a Dio, non hanno rovinato né alterato nulla di questo maniero, prevenendo al contrario la sua rovina sempre più avanzata. Vi si è anche allestito un piccolo giardino; cosa appena necessaria: perché questo paesaggio maestoso e magnanimo è di per sé solo giardino e parco, è soprattutto mondo, un mondo plasmato nel senso più alto, vergine e intoccato, come all’indomani della Creazione” [9].

Quell’angolo di mondo non l’aveva forse già immaginato a Parigi, negli anni del Malte? Sedeva nella sala della Bibliothèque Nationale e leggeva un poeta, all’epoca. Malte aveva ventotto anni, su per giù la sua età, quando ne iniziò la composizione. Nella sala della Biblioteca c’erano  trecento persone e chissà cosa leggevano. Impossibile che ognuna di loro avesse un poeta. “Trecento poeti non esistono”, scriveva, “Ma guarda quale destino, io, forse il più misero di questi lettori, uno straniero: io ho un poeta. Sebbene sia povero… Non sapete che cos’è un poeta? – Verlaine… Nulla? Nessun ricordo. No. Non l’avete distinto tra quelli che conoscete? Voi non fate distinzioni, lo so. Ma è un altro poeta che leggo, uno che non abita a Parigi, molto diverso. Uno che ha una silenziosa casa sui monti [10]. Che suona come una campana nell’aria pura. Un poeta felice, che racconta della sua finestra e degli sportelli vetrati della sua libreria, i quali riflettono pensosi uno spazio amato e solitario. Proprio questo è il poeta che sarei voluto diventare […] Che sorte felice, sedere nella stanza silenziosa di una casa ereditata, tra oggetti calmi, stabili, e ascoltare fuori, nel soave giardino verdechiaro, i primi tentativi delle prime cinciallegre e, lontano, l’orologio del villaggio. Sedere guardando una calda striscia di sole pomeridiano e sapere molte cose di fanciulle scomparse ed essere un poeta. E pensare che anch’io sarei potuto diventare un poeta così, se avessi potuto abitare da qualche parte nel mondo, in una delle tante case di campagna chiuse, di cui nessuno si cura. […] Avrei scritto molto, perché avrei avuto molti pensieri e ricordi di molte persone” [11].

Rilke sceglie di farsi seppellire a Raron

A rileggere quella pagina vengono i brividi, col senno di poi: per tutta la vita Rilke ha desiderato la solitudine di Muzot, un angolo quasi ai confini del mondo, un eremo tra monti e campagne [12]. Ma per arrivare fin lì, a Muzot – e scrivere le Elegie – fu necessario compiere un lungo – e sofferto – cammino, perché

“i versi non sono, come si crede, sentimenti (che si hanno abbastanza presto) – sono esperienze. Per un solo verso bisogna vedere molte città, uomini e cose, bisogna conoscere gli animali, bisogna sentire come volano gli uccelli, e sapere i movimenti con cui i piccoli fiori s’aprono il mattino. […] bisogna avere ricordi […] E non basta […] Bisogna saperli dimenticare, quando sono molti, e attendere, bisogna avere la grande pazienza di attendere che tornino. Perché neppure i ricordi sono ancora esperienze. Solo quando essi diventano in noi sangue, sguardo, gesto, anonimi e indistinguibili da noi, soltanto allora può succedere che la prima parola di un verso, in un’ora rarissima, s’alzi ed esca dal loro centro” [13].

Per arrivare sulle vette della parola, fu necessario vivere; camminare per il mondo; accumulare esperienze e ricordi; ripensare ai sentieri dispersi in contrade sconosciute, agli incontri inattesi, ai lontani tempi d’infanzia, al padre e alla madre, alle mattine in riva al mare, alle notti di viaggio che volavano con le stelle, alle notti  d’amore, una dall’altra diversa, alle grida delle partorienti, all’assistenza ai moribondi, alle lunghe ore di veglia accanto ai morti, nelle camere ardenti[14]. Fu necessario abbracciare anche il lebbroso, come San Giuliano l’Ospitaliere nel racconto di Flaubert. Distendersi-accanto-al-lebbroso e condividere con lui tutto il proprio calore; abbracciarlo senza pretendere di guarirlo; semplicemente abbracciarlo, per stabilire un rapporto intimo anche con il dolore, senza respingerlo, come dice nella Prima Elegia:

“Tanto antichi dolori, non dovrebbero, ormai,
diventar più fecondi per noi? non è tempo che amando,
ci liberiamo dall’essere amato, lo reggiamo fremendo:
come la freccia regge la corda, tutta raccolta nel balzo,
per superarsi?”. 

(I, 49-53)

A Muzot – in quell’eremo così ricco nella sua povertà – le esperienze e i ricordi, così a lungo sedimentati e meditati nel suo intimo, dimenticati, ormai diventati sangue, sguardo, gesto, proruppero finalmente in versi – divennero canto.  Divennero: le Elegie Duinesi – scritte proprio in un piccolo villaggio di campagna, circondato dai monti, come aveva desiderato alla Bibliothèque Nationale. Un villaggio d’altri tempi, un luogo dolce e sconfinato, quasi sospeso tra terra e cielo, che si snoda tra sentieri indolenti lungo i declivi delle vigne ed il corso delle acque, dove la torre di Rilke spunta – solitaria, piccola, immensa – tra i vigneti, circondata da un silenzio quasi mistico, un silenzio che scosse Valéry quando visitò la sua dimora:

“Un minuscolo castello terribilmente solitario in mezzo a una vasta regione di montagne alquanto triste; camere antiche e pensose, dai mobili scuri, le finestre strette. A quella vista mi si stringeva il cuore. La mia immaginazione non poteva fare a meno di ascoltare il monologo infinito di una coscienza radicalmente isolata che nulla distrae da se stessa e dal sentimento della propria unicità. Io non riuscivo a concepire un’esistenza così separata, gli interminabili inverni trascorsi in un tale abuso d’intimità con il silenzio, tutta la libertà concessa ai Suoi pensieri in forma di sogno, agli spiriti essenziali e troppo concentrati che si trovano nei libri, ai volubili genii della scrittura, alle potenze del ricordo. Caro Rilke, che credetti imprigionato nel tempo puro, io temevo per Lei la trasparenza di una vita troppo uguale a se stessa che, nel trascorrere di giorni sempre identici, lascia intravedere nitidamente la morte. Quanto ero ingenuo a compiangerLa, mentre invece da quel vuoto il Suo pensiero creava prodigi, e rendeva materna la durata. Invidiabile più di ogni altra è la Sua dimora, la torre bassa, la torre incantata di Muzot. Quella tremenda pace, quell’immensità di quiete mi appaiono, oggi, ciò che furono per Lei: condizioni incantevoli” [15].

Marilena Garis


[1] Lettera dell’11 febbraio 1922 in Rainer Maria Rilke, Lou Andreas Salomé, In corrispondenza. Epistolario 1897-1926, traduzione di Paola Maria Filippi e Claudio Groff, IPOC, Milano, 2014, pp. 361-362

[2] Ibidem, p. 362

[3] I versi delle Elegie sono citati da Rainer Maria Rilke, Elegie Duinesi, traduzione di Enrico e Igea De Portu, introduzione di Alberto Destro, Einaudi, Torino, 1978, con il numero di riferimento.

[4] Rainer Maria Rilke, Noi siamo le api dell’invisibile. Lettere da Muzot, a cura di Franco Rella, De Piante, Milano, 2022, p. 81 (traduzione)

[5] Lettera del 6 marzo 1922 in Rainer Maria Rilke, Lou Andreas Salomé, In corrispondenza, Epistolario 1897-1926, cit., p. 368

[6] Compito dolorosamente interrotto dalle brutalità della Prima guerra mondiale, che lo ammutolirono per diversi anni ed incisero inevitabilmente sullo sviluppo del suo pensiero e sulla coscienza di un’intera epoca. La morte e la sofferenza prive di senso che aveva così profondamente vissuto a Parigi, avevano ormai invaso tutta l’Europa, erano divenute la costante, sanguinosa realtà della guerra. Rilke è trafitto dalla devastazione del conflitto, pensa alla perdita di tanti amici morti in guerra, ai cuori feriti, alle cose, alle case distrutte, al castello di Duino gravemente danneggiato. Venduti all’asta i suoi mobili, libri, carte e manoscritti che aveva lasciato a Parigi (alcuni salvati in extremis grazie all’intervento di André Gide), Rilke trascorre gli anni della guerra come annichilito, senza voce, in una profonda “aridità dell’anima”.

[7] In argomento, Alberto Destro nella sua introduzione all’edizione Einaudi delle Elegie (cfr. nota 3); Romano Guardini, Rainer Maria Rilke: le Elegie Duinesi come interpretazione dell’esistenza, Morcelliana, Brescia, 1974; Peter Szondi, Le “Elegie Duinesi” di Rilke, a cura di Elena Agazzi, Se, Milano, 1997. Celebre è la lettura esistenzialista di Martin Heidegger, Perchè i poeti?, in Sentieri interrotti, a cura di Pietro Chiodi, La Nuova Italia, Firenze, 1996

[8] Magda Kerényi, curatrice dell’epistolario, la colloca tra le due lettere, rispettivamente di Rilke ed Anita Forrer del 26 dicembre 1921 e del 23 gennaio 1922

[9] Traduzione cartolina ad Anita Forrer in Rainer Maria Rilke, Anita Forrer, Briefwechsel, Insel Verlag, Frankfurt am Main, 1982, pp. 95-96

[10] Si tratta di Francis Jammes (1868-1938). Rilke lo confida apertamente ad Anita Forrer nella sua lettera del 19 aprile 1921. Ibidem, pp. 71-72

[11] Rainer Maria Rilke, I Quaderni di Malte Laurids Brigge, Adelphi, Milano, 2020, pp. 33-37

[12] Quando lo scopre, nel giugno del 1921, Rilke lo “riconosce”: sente subito che Muzot è il rifugio giusto per recuperare il silenzio e la solitudine necessari per riprendere a lavorare. Il paese più vicino è Miège, il primo albergo che si incontra è il Bellevue di Sierre a circa mezz’ora di cammino. Lo vede per la prima volta in foto, durante una gita con Baladine Klossowska nella cittadina di Sierre. La foto campeggia nella vetrina di un parrucchiere e reca un’inserzione: la torre – che porta il nome di “Château de Muzot” – è proposta in vendita oppure in affitto. Il giorno dopo, accompagnato da Baladine e da un agente immobiliare, va a visitarla e scopre la sua storia, risalente al XIII secolo. Pare che la torre ospiti addirittura uno spettro: quello di Isabelle de Chevron, che vi abitò all’inizio del XVI secolo e perse la ragione dopo che due pretendenti si uccisero in duello per contendersi il suo amore. Rilke è incuriosito, si documenta ancora su quella leggenda, ne parla con Nanny Wunderly Volkart, la sua più cara amica negli anni svizzeri, e si riesce a fare in modo che il suo mecenate, Werner Reinhart (cugino di Nanny), parli con l’eccentrica proprietaria di Muzot. Reinhart prima affitta, poi acquista la torre per lasciarla a disposizione di Rilke. Fanno parte della proprietà anche un piccolo giardino con un pozzo, molti cespugli di rose, che Rilke curerà personalmente, e una piccola chiesa, la cappella di Sant’Anna, che Rilke restaura a proprie spese. Muzot è privo di elettricità e necessita di alcuni lavori di ripristino che saranno seguiti da Baladine; Nanny collabora con lei all’arredamento delle stanze. Tutto si svolge velocemente e Rilke vi si installa il 26 luglio del 1921. Cfr. Wolfgang Leppmann, Rilke. La vita e l’opera, traduzione di Donatella Frediani, Longanesi, Milano, 1989, pp. 354-356

[13] Rainer Maria Rilke, I Quaderni di Malte Laurids Brigge, cit., p. 21

[14] Ibidem, parafrasi

[15] Paul Valéry, Prefazione (Aprile 1926) a Rainer Maria Rilke, Le rose, traduzione di Sabrina Mori Carmignani,Passigli, Bagno a Ripoli (Fi), 2010, pp. 5 e 6

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