04 Novembre 2022

“Nel pianto è svanito come un fiume”. Il cimitero è la prova di una civiltà

È bello vedere i cimiteri affollati: le città dei morti che si riempiono di vivi.

Certo, il cimitero è luogo di contemplazione, di mistero, dove rovesciare i nostri sentimenti profondi, indicibili: non siamo che vasi, infine, cosa che si travasa, si riempie, si deve svuotare.

Anche gli alberi sembrano pieni di pietà, si divaricano, al cimitero.

È vero: i vivi sembrano disturbare la quiete dei morti. Ma è poi vero che ‘di là’ si è in pace: non esiste forse un interregno, una analoga lotta, e l’invidia e l’orgoglio… chissà se provano ira, i morti, e l’odio, e il desiderio?

“Tutto questo affanno per poi finire laggiù”, fa, una signora. Per affanno intende la sua casa, adiacente alla villa del figlio, e la fatica e la rissa di relazioni per avere, fare, ostruire; nel parcheggio privato spicca una bella macchina, guidata dal nipote. Abita di fronte al cimitero, la vecchia, che indica come laggiù.

L’invasione dei vivi può urtare. Tuttavia, di solito, quando si entra al cimitero si cambia tono, si parla sottovoce, si è più sereni, aggraziati.

Ad ogni modo, la decenza di una civiltà si misura dal rapporto che instaura con i morti.

Qui, ad esempio, è un viavai di vivi. C’è il sole: dopo aver fatto il bagno, si va al cimitero. L’acqua è pur sempre un viatico.

Anni fa ho scritto un libro in cui raccontavo un pellegrinaggio, a piedi, compiuto con mio figlio verso la tomba del nonno, mio padre. Non credo sia altro la vita: consegnare un figlio al proprio passato, ignoto. Il libro lo tengo nel cassetto: da anni non visito la tomba di mio padre, arroccata sulla soglia di un bosco, in Val Grande. Un giorno scoprirò che mio padre è sparito, dismesso da una burocrazia di canaglie.

Anche dai miei nonni, che pure sono sepolti qua dietro, non andavo da tempo. La tomba era sporca, armata di ragnatele: l’ho pulita con una spugna. Nella fotografia, sono ritratti entrambi, appena sposati, appena finita la guerra.

Mia nonna è nata a Palermo, mio nonno a Reims, dove incoronavano i re di Francia. Si sono conosciuti a Milano. Sono sepolti a Riccione. Non so se il luogo della sepoltura condizioni la vita nell’al di là; non so se sia giusto ‘ricongiungere’ i parenti nella stessa tomba. Forse la morte è uno sposalizio, forse una scissione, sollievo che non solleva.

Certo, è devoto il gesto di un passante che depone fiori sulla tomba di uno sconosciuto: ci si potrebbe innamorare di quel volto nell’ovale, di cui si intravede il destino, si immagina una vita. Nelle cifre che definiscono quella ignota esistenza terrena, ci si sente, in modo misterioso, riassunti; ci si sente annodati.

Ma alla fine, bisogna pur andare sulla tomba dei propri parenti – cari o meno cari – e lasciarsi sfidare o sfiduciare dal morto. I morti hanno un’ipoteca sulla nostra vita, ci tengono sotto scacco, per quanto vogliamo ignorarli; con i morti bisogna stringere un patto – un patto che va sciolto.

I morti sono legati per i capelli al nostro letto: a volte se ne vanno via, altre volte dobbiamo usare le forbici.

Questa vita è un tirocinio di travasi – siamo l’abbeveratoio dei morti.

Mentre pulisco la tomba dei nonni, sommariamente, e prego, con mio figlio – un’azione sempre modesta, sul filo del silenzio, come a non voler interrompere il riposo o una conversazione. Di fianco a me, un signore su una carrozzella; poi una donna, che usa la scala come sedile. Ai loro piedi, le vestigia di un pranzo, consumato al cospetto del morto. I due parlano animatamente: a volte stemperano aneddoti sul morto, altre volte parlano con il morto, gli raccontano come sta tizio e caio, gli fanno domande. Non ho questa grazia: mando un bacio ai nonni, vado.

In Dante sono i morti a ossessionare di domande il viandante; altrimenti, vanno, nello sciame di un nobile sussiego. In realtà, è il pellegrino che tormenta di domande il morto: come stai?, puoi vedermi?, cosa ti ho fatto?, puoi aiutarmi?

Finché una civiltà si inchina davanti ai propri morti, parla con i morti, beh, quella civiltà è ancora sana, è salva. Derelitta, forse, tumefatta, terminale, ma ancora sana. Il legame non è spezzato, il fuoco passa di mano in mano.

Spesso le statue che adornano le tombe, in provincia, sono patetiche, eclatanti, spurie. Su una tomba hanno piantato un roseto, su un’altra un ulivo: le olive sono pallide, stilettate di verde, una primizia. Da qualche parte, un angelo ha sguainato la spada; da un’altra parte, un angelo è reclino sulla tomba, che ricopre con le ali, è triste.   

Anche le frasi incise sulle lapidi, pensieri rapidi, grosso modo banali, risplendono di una verità più remota della forma. Una verità ulteriore alla forma – perché se è vero che in questa vita la verità è la forma – il bello è il buono; estetica è etica –, forse nell’altra è ben altro, non lo so.

So che i vivi, al cimitero, si salutano con una strana presenza, a volte chiedono notizie del morto, come se l’altra parte fosse un parco, una palude, una metropoli. Il cimitero equilibra i gesti di tutti: forse è qui, al cimitero, che devono essere prese le decisioni più importanti, quelle che determinano la vita. Sotto la tutela dei morti.

La grande poesia si rivolge spesso ai morti: è come una porta tra questo e gli altri mondi, è come una corda. A volte i poeti indagano la malinconia, a volte indugiano nella compassione, altre volte mantengono una severità epigrafica. Anche il pianto può svolgersi in endecasillabi.

Tra i poeti meno ovvi, vale la pena ricordare Gregorio di Nazianzo, uno dei grandi padri della Cappadocia, un sapiente della Chiesa: animo propenso alla contemplazione, amico di Basilio di Cesarea, vescovo di Costantinopoli nel 380. Proprio a Basilio, Gregorio dedica uno dei suoi Epitaffi, testimonianza di una sorta di “tristezza metafisica”, di “una vena intimista e un sentimento della morte sospeso fra echi classici e speranza cristiana” (Manlio Simonetti). Che parola magnifica, epitaffio: l’iscrizione sulla tomba dovrebbe essere imperitura, ma sulle labbra ha il nitore di un soffio. Pietra e carne, compostezza e corruzione, memorabile e morituro sono, infine, sullo stesso desco.

Cosa così bella: scrivere poesie per i morti, epitaffi privati, da inserire tra le crepe della tomba, errori ornamentali.

Qui, a memoria, alcune poesie-epitaffio di Gregorio Nazianzeno.   

**

Alla madre Nonna

Chiamando Gregorio, fra i campi, ad alta voce
ci correvi incontro, madre: tornavamo
da paesi lontani e aprivi le braccia
agli amati figli – e mi chiamavi, Gregorio, Gregorio. Il sangue
della madre fluisce in tutti i figli, ma è più forte
in colui che hai allattato. Per questo con questi
epigrammi voglio onorare te, madre.

Figlio del mio seno, sacro germoglio, sapessi
la nostalgia che affatica il mio andare verso
la vita celeste. Molte pene hai patito
per curare la vecchiaia dei tuoi genitori:
nulla dimentica il sommo libro di Cristo.
Insegui i genitori, adorato figlio:
ti accoglieremo nel cuore della nostra luce.

La Trinità che tanto hai amato, sola luce,
maestria di splendore, da tempo ti ha rapita:
stavi pregando. Ti è donata la più pura fine.

*

A Naucrazio, fratello di Basilio

Voleva liberare la rete dallo scoglio,
il giovane Naucrazio: cadde nei vortici
del fiume – non liberò la rete perché
fu lui a essere catturato. Narra di Naucrazio,
il puro, arroccato alla regola, che non
riuscì a pescare alcun pesce, ma perì
tra infide acque morte.

Nel gorgo ostile, impigliato in una rete
sommersa, morì Naucrazio: impara
quanto è fragile la consistenza della gioia
su questa terra ammirando il breve tratto
di corsa percorso da quel giovane puledro.

Confuso tra gli stretti nodi della rete
Naucrazio fu sciolto dai lacci della vita.

*

Al fratello Cesario

Hai lasciato tutto ai tuoi fratelli: per te
illustre Cesario, nient’altro che una breve tomba.
Geometria, sapienza nel decrittare le stelle,
medicina: non c’è rimedio alla morte.

Il lutto ha trasformato alcuni in alberi,
altri in pietra; qualcuno, nel pianto, è svanito
come un fiume: ma voi tutti, alberi, pietre e fiumi,
serratevi al cospetto di Cesario. Rispettato
dagli uomini, vanto dei re: che dolore
riconoscere che l’Ade ha inghiottito Cesario!

La mano di Gregorio ha scavato questa scritta.
Rimpiange l’ottimo fratello e predica ai mortali
di disprezzare questa vita. Qualcuno eguaglia
in bellezza Cesario? Qualcuno può vantare
eguale gloria o sapienza? Eppure, è volato
via dalla vita come una rosa scansata
dalle spine, come la rugiada dalle foglie.

*

A Basilio

Il mondo è scosso da dottrine avverse
eppure appartiene alla stessa Trinità.
Le labbra di Basilio restano serrate:
se ti destassi, ogni tempesta sarebbe placata.
Hai illuminato la vita con la dottrina.

Qui gli abitanti di Cesarea hanno posto me, Basilio,
vescovo, figlio di Basilio e amico del caro Gregorio
che ho amato con tutto il cuore: che Dio gli dia la gioia
e una vita feconda pari alla mia. Che senso ha vivere
se ci si strugge nel ricordo di un’amicizia celeste?

Discorsi, lunghe confidenze, l’amata Atene,
la comunione nei meandri della ricerca divina…
Vi basti sapere questo: Basilio è in cielo
come desiderava, Gregorio resta sulla terra
a trascinare la catena della vita.

Gruppo MAGOG