29 Aprile 2023

Su un romanzo con la cazzimma (“Ferrovie del Messico”) e sul solito recensore cazzaro

Pensavo che fosse una creatura da bestiario fantastico. Però ho controllato pure in Plinio il Vecchio – dove ho ritrovato il caro, vecchio, catoblepa – e ho compulsato per bene anche Borges. Niente. Il passaparola-tra-lettori non è figura mitologica, a quanto pare esiste sul serio. Naturalmente si tratta di animale in via di estinzione – e ovviamente di lui il WWF se ne frega. Però esiste. E ogni tanto tira fuori la testa, come Nessie in quel di Loch Ness. È stato così che sono arrivato a Ferrovie del Messico, di Gian Marco Griffi, Laurana Editore. Anticipiamo la conclusione: si tratta un libro bellissimo, 800 pagine da leggere per il piacere di continuare a leggere. E questo è difficile non considerarlo un successo.

Ma non saltiamo subito alla conclusione, non voglio parlare solo del libro. Vorrei anche spiegare come una cattiva recensione possa costituire una potente forza motrice – almeno per me. Se uno è animato da un qualche spirito di contraddizione – e se non si parla delle poesie di Arminio, ovviamente –, non può che essere attratto da un libro massacrato da una stroncatura così sospetta. La recensione l’ho trovata su Nazione Indiana, a firma di Fabrizio Maria Spinelli, e costituisce un riuscitissimo esemplare di eterogenesi dei fini. Buscando il levante del massacro letterario, ha raggiunto il ponente della curiosità del lettore – e lì si è fermato, come nella migliore tradizione. Qui, la sua caravella dell’Intellettualismo si è proprio arenata.

Va detto che perfino questo recensore si è divertito a leggere, perché evidentemente il libro ha una forza che trascina a voler attaccare pure la pagina dopo – solo lui che proprio non è riuscito ad accettarlo. E allora ha tentato di arrampicarsi su vetri scivolosissimi: “Tuttavia il pomeriggio dopo tornavo a leggerlo, era diventato un gesto tranquillizzante, mettersi sotto il piumone in orario ancora lavorativo e aprire Ferrovie del Messico, meglio che studiare o leggere poesia o rischiare di iniziare un romanzo che mi piacesse davvero, movimentando così l’entropia dei giorni con un entusiasmo dovuto. I momenti in cui un libro accende i nostri sensi possiamo permetterceli con parsimonia noi rifiuti umani”. Mammamia, la necessità di movimentare l’entropia!… Esagerato. L’entropia, poi, di suo, è già abbastanza incasinata – per definizione, anche senza bisogno di ulteriori spintarelle. Se ti andava di leggere, non c’è tutto questo bisogno di giustificarti. Va be’, si sa, capita su Nazione Indiana di incrociare ogni tanto qualcuno che si prende un po’ troppo sul serio – e non sempre avendo i numeri per poterselo permettere.

E infatti:

Qual è la prima caratteristica che Ferrovie del Messico condivide con i romanzi a cui è stato (il più delle volte ingiustamente) paragonato e che formano questa classe testuale? La lunghezza. L’arcobaleno della gravitàI detective selvaggiInfinite Jest, Europe Central, sono libri lunghissimi, stratificati, iperistruiti, difficili da leggere. Anche Ferrovie del Messico è un libro lungo. Lungo, ma non enormemente lungo. 800 pagine ma i caratteri sono generosi, il formato del volume è 19×12. (…) Quindi, lunghezza, o meglio, in questo caso, la mole. Il libro è grande, pesa, è scomodo da portare nello zaino. Questa quantità si trasforma in un correlativo oggettivo della sua qualità, secondo uno slittamento consueto del mercato editoriale. Il lettore è convinto, acquistando il romanzo, di accaparrarsi una grande quantitativo di Cultura, e che questa dose massiccia lo renderà una persona migliore. Il libro come merce. Come feticcio identitario. Il piacere della voluminosità. Il grande successo in termini di vendite dei libri grossi, in una cultura fondata sulla sacralità delle opere gigantesche (l’Iliade, l’Odissea, la Bibbia, la Divina Commedia, il Paradiso perdutoFaust, il manuale di anatomia, l’Ulisse, Proust, Infinite Jest, il codice di giustizia civile)”.

Il… cosa?!? Codice di giustizia civile? Ma non esiste. Esiste un codice civile, un codice di procedura civile, esistono i corrispondenti penali… Non sono poi così lunghi, qualunque persona minimamente avvertita dovrebbe sapere che il problema è il numero sterminato di leggi che gli girano attorno, concepite spesso per depotenziarli o distorcerli, non certo i codici in sé stessi. Quindi il recensore parla di cose che non conosce. Ahia. E poi, tenuto conto del costante successo editoriale del Piccolo principe o di qualunque libro di Calvino – e della notissima difficoltà per un esordiente, magari pure bravissimo, di farsi pubblicare un libro lungo più di 150 pagine – il discorso proprio non tiene.

E poi giù con lunghi sbrodolamenti su David Foster Wallace e Infinite Jest, fino a raggiungere picchi insuperabili di mancanza di autoironia: “Il montaggio ejzenštejniano come giustapposizione dell’eterogeneo è qui il più delle volte lineare e omogeneo. Il lettore non rischia mai davvero di perdersi, non c’è un reale caos da controllare e organizzare, Griffi non è uno scrittore da frattali (così importanti per Pynchon, Wallace, Fernadez Mallo ecc.)”. E qui, come corpo morto, caddi – non come Dante, ma proprio come Calboni in Fantozzi, quando stramazza al suolo di fronte alla prospettiva di rivedere la Corazzata Kotiomkin invece di correre a casa per assistere un più prosaico incontro Italia-Inghilterra di calcio. Ci mancava il montaggio analogico del Maestro, per fare filotto.

Sul libro di Griffi cade infine la condanna più grave, quella senza appello e senza CEDU, lo stigma irreparabile, perché Spinelli afferma che “Il suo libro è consolatorio”. Capirai, c’è chi lo dice anche del Promessi sposi, che pure non è poi un libro così dilettantesco – anzi, di un dilettantismo monumentale, per usare un’altra espressione utilizzata dal nostro recensore.

E quindi la tenaglia del mostro passaparola-tra-lettori e della ben più spaventevole recensione-che-si-straparla-addosso, necessariamente ma per fortuna, mi ha portato al libro. E qui, una festa.

In fin di Seconda Guerra Mondiale l’ultimo dei soldatini di Asti, tormentatissimo dal mal di denti, si trova a dover fronteggiare un ordine – si perdoni l’aggettivo – del tutto assurdo: redigere la mappa dettagliata delle ferrovie del Messico. Una richiesta del Duce? Ma nemmeno: più su ancora, una richiesta che parte dal Führer in persona e precipita giù, inaspettatamente, per ogni scala gerarchica. (E qui va detto che le scene e i dialoghi che coinvolgono i nazisti sono pezzi di bravura degni di Tarantino – il romanzo massimalista non c’entra niente). Nel mezzo un continuo di invenzioni meccaniche fuori tempo, visioni, digressioni, anticipazioni, personaggi più che riuscitissimi (ricordiamo almeno una meravigliosa curandera sarda – e se volete sapere chi è e cosa fa una curandera, leggete il libro), locali clandestini, cimiteri sospetti, scrittori spiritualmente disfatti, amori impossibili, giovinezze distrutte, delazioni gratuite, bombardamenti americani, accesissime partite messicane di jai alai (una pelota basca le cui partite sono descritte dall’Autore con i toni delle sfide nostrane di pallapugno, che nei medesimi anni in Piemonte e Liguria scatenavano lo stesso furore di popolo). Solo che tutto questo non distrae dalla trama – anzi, la cementa. Il tutto, raccontato con una lingua che, pur mantenendosi quasi sempre piacevolmente colloquiale, fugge qua e là verso lo spagnolo e il tedesco, verso l’invenzione di sana pianta, lo specialistico, l’erudito e il dialettale (chissà la faccia del recensore quando ha scoperto su Google che il gheddo astigiano è un parente strettissimo della più nota cazzimma).

Vorremmo dire del tono, perché è il tono che segna il libro. Però nulla sembra migliore di quel che dice lo stesso Griffi e che – con scelta azzeccata – viene riportato in quarta di copertina:

“Essere lirici e ironici è la sola cosa che ci protegge dalla disperazione assoluta”.

Giù il cappello – il libro è bello, senza tante storie, e deve essere consigliato. La Nessie dei lettori fa benissimo a tirare su la testa e pronunciarsi.

Certo, se siete inguaribili snob, allora avrete già appreso che il romanzo è entrato tra i dodici finalisti del Premio Strega, e avrete storto il naso. Ma in fondo: chi se ne frega? Difficile pensare che un editore come Laurana sorpassi i giganti – a meno che qualcuno di loro non compri i diritti e si muova per tempo sotto banco per rilanciare ancora il libro. Ma in ogni caso: cosa importa? Perché negare almeno un po’ di successo a qualcosa che – per una volta – se lo merita? Griffi è uno scrittore autentico, e gli scrittori veri sono pochi. Al lettore deve bastare questo.

Cino Vescovi

Gruppo MAGOG