“Ogni Angelo è tremendo”. Piccolo discorso su angelologia e destino al volo
Politica culturale
“Vecchio”: Non tutti i vecchi sono uguali – c’è il vegliardo, per cui la vecchiaia s’intride di meraviglia – e c’è il vetusto, ciò che è consunto per eccesso di vecchiezza, si può buttare. Da tempo, abbiamo messo la museruola al vecchio chiamandolo anziano. Ma anziano è semplicemente ciò che viene ante, prima: non c’è traccia di altezza né di vertigine, nel gergo. Ammantata da una bonaria idea del rispetto, rispettosamente, anziano è una formula per mettere fuori gioco il vecchio. Vecchio è un sostantivo che sa di albero, di monito, di legge non scritta, piantata nella carne.
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Il virus è un’ecatombe di vecchi, i ricoveri sono focolai dell’orrore. L’intelligenza del virus è spietata: colpisce deboli e anziani. Leggo la griglia più recente (17 aprile) dell’Istituto Superiore di Sanità. Il virus ha una letalità micidiale nella fascia 80-89 anni (30,5%), seguono gli over 90 (25,1%) e il decennio tra i 70 e 79 anni (24,9%). La violenza decresce di molto nella fascia 60.69 anni (9,6%), polverizzandosi dalle fasce 50-59 (2,6%), 40-49 (0,9%) in giù. Negli ultimi anni il problema era che non sappiamo morire, quasi che la fibra umana coincidesse completamente con il millennio, come se fossimo diventati estranei al morire. Ora, ci si stupisce, mesi dopo l’alba del virus, che a morire siano i vecchi. Ovviamente, la morte conta come funzione della vita.
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Per dieci anni mi sono preso cura dei nonni. Li ho trasferiti da Milano a Riccione, sono morti, entrambi, poco prima dei 90, sconvolti dalla demenza senile. Non li ho accuditi per una singolare forma di affetto, per un istinto alla maternità inversa. Sono i genitori di mio padre, l’ultimo lacerto di mio padre: era giusto così, la giustizia ha preceduto l’amore. “Alzati davanti a chi ha i capelli bianchi, onora il vecchio e temi il tuo Dio”, dice il Levitico, 19, 32, e tanto mi basta. In una delle lettere a Lucilio, Seneca stende un manto d’oro sulla vecchiaia perché “ciò che ogni piacere ha in sé di più dolce, lo riserva al momento della sua fine”. Inoltre, soltanto il vecchio sa che “un giorno è un giardino della vita”, ogni giorno, proprio perché può essere l’ultimo, è il prediletto.
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Ma Seneca gorgheggia sull’Eden dell’intelletto. Io, spesso, nelle gimkane con i miei nonni, ho trovato pena e impotenza nei ricoveri dove i vecchi vengono accatastati in attesa della fine. Vite senza lampo, guaine gonfie di sussurri, fischi, labbra impastoiate e occhi che già sdebitano il giudizio. Alcuni, in questo gregge, visitatori, assistenti, chiamavano uno di questi vecchi con le moine che si riservano ai cani. Quei vecchi, semplicemente, li avrei abbracciati, perché la carne sia l’ultimo salmo.
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Nel 1893 Paolo Mantegazza stila un Elogio della vecchiaia, scrivendo che uno dei talenti della civiltà occidentale è il trono offerto ai vecchi. “Nella società moderna il vecchio ispira pietà e rispetto; pietà per la sua debolezza, rispetto per l’esperienza accumulata ed anche per un’inconscia ammirazione per tutto ciò che ha saputo resistere al tiranno dei tiranni: il tempo. La parola di veterano è poco diversa da quella di vincitore, e il vecchio ha saputo vincere il potente dei potenti, colui che tutto abbatte, schianta e distrugge”. Il vecchio è tale perché è sopravvissuto – oggi è semplicemente un vivente, un rospo. Per mio nonno la Liberazione coincise con la prigionia: soldato di stanza in Grecia, il comandante del suo reparto preferì arrendersi alle truppe tedesche; fu tradotto ad Amburgo, in un campo di lavoro. Da lì, fuggendo, sul finire della Seconda guerra, giunse a Parigi, a piedi, era italofrancese. Parlava poco volentieri di quei giorni, la prigionia lo intorpidiva con visioni di morte e orrore, impresse indelebilmente nella sua vita – una vita, per il resto, priva di sconvolgimenti, a parte la fine del figlio. Morì dicendomi grazie – anche se non avevo fatto nulla per meritare quel grazie –, con una grazia straordinaria, che è sapienza.
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La nonna, al contrario, morì per almeno tre anni. Parlava continuamente, aveva una energia violenta, riconosceva soltanto me. Durante i ricoveri, si strappava le flebo – mi telefonavano di notte – lei urlava, sei un puttaniere, mi rubi tutti i soldi! Forse aveva ragione – ma quel legame, vitale – mi vuoi bene?, mi vuoi bene?, mi ripeteva, con cristallina ossessione – mi ha fatto capire fino al più intimo punto del dolore cosa significhi essere qualcosa per qualcuno. Qualcosa di cui si ha necessità e fame. Bisogna infilarsi in quel versetto di Giovanni, quando il Nazareno, risorto, dice a Pietro, “quando eri giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; da vecchio, tenderai le mani, un altro ti vestirà, ti porterà dove tu non vuoi” (21, 18).
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Ieri ho avuto una rivelazione. Che cretino! Il libro più possente sulla pestilenza lo ha scritto Gian Ruggero Manzoni e si intitola Il morbo. Edito da Diabasis nel 2002, in ebook per Quondam, a me è sempre parso, per quella scrittura corrusca e amazzonica, come si attraversa il Sacro Monte di Varallo e l’opera smangiata di Tanzio e di Gaudenzio Ferrari, il più bel romanzo di GRM. In una Rio de Janeiro di metà Ottocento, sconvolta dalla pestilenza, Fra Martin de Campinas accoglie la storia di un moribondo, Luigi Compagnoni, mazziniano rivoluzionario, avventuriero, in cui intravedo il ritratto ustorio dell’autore – “Altro particolare che non passò inosservato al giovane frate era come le sue mandibole si incassassero nel cranio non con morbidezza, come avviene di solito in natura, bensì ad angolo retto, come ostentano le bestie carnivore, di modo che la testa pareva affiorare da un blocco di pietra, appena appena abbozzata dallo scalpello di uno scultore indigeno. E le mani. Due mani molto grandi davvero”. Il libro è una catabasi nel senso dello scrivere – “La parola e la scrittura sono divenute… la mia celebrazione, la mia Messa. Al termine di ogni vergatura non mi rendo mai conto di quanta intensità io abbia riversato nella liturgia, e quale rito sia andato a compiere” –, sul crinale della confessione, nel mondo snaturato dal virus (“il puzzo di strame e decomposizione gravava basso”).
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Il valore va sarchiato nei rifugi, nelle soffitte. Il morbo è dedicato “Ai tanti patrioti che sono morti per l’Italia”, è scritto “in tempi tristi come questi, ancora preda della peste” e dando ricordo “ad Albert Caraco, filosofo e letterato”. Sfoglio Breviario del caos: “Siamo già troppo numerosi per vivere, per vivere non da insetti ma da uomini; noi moltiplichiamo i deserti a forza di esaurire il suolo, i nostri fiumi sono ridotti a sentine e l’oceano entra a sua volta in agonia, ma la fede, la morale, l’ordine e l’interesse materiale si uniscono per condannarci alla tribù… Non abbiamo mai avuto nessun Padre in Cielo, siamo orfani… nessuno ci redimerà se non ci salveremo da soli”.
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Il sussurro del vecchio è custodito nella mente e nelle mani di chi lo ascolta: quello è il nome che verrà affilato per il nascituro, affinché non si spezzi la catena delle generazioni. Per giorni, ho scritto un vocabolario delle parole usate da mia nonna: scombinava i verbi, la frase era composta da cubi rozzamente inseriti dentro sfere. Diceva “sistema la tapparella” per dire “apri il frigorifero”. Spesso mi chiamava come suo figlio – più sovente le facevo da padre. (d.b.)