“Siamo intraducibili”. Inseguire Guido Morselli in Georgia
Letterature
Linda Terziroli
C’è una letteratura, tanto nobile quanto sconosciuta alle nostre latitudini, che da qualche anno si sta affacciando con gagliardia nel panorama editoriale dell’Occidente. Un’avanzata che va di pari passo ai desideri socioculturali del Paese da cui origina e di cui è espressione: come sempre, gli scrittori che si fanno portavoce delle aspirazioni del popolo.
Georgia, nazione montuosa del Caucaso, una delle quindici ex repubbliche socialiste sovietiche, ritornata indipendente nel 1991 nell’ambito del processo di dissoluzione dell’Unione Sovietica: un disfacimento che ha lasciato cumuli di macerie e cicatrici psicologiche tuttora non rimarginate in quello che per la proterva narrazione occidentale era il Secondo mondo – in contrapposizione e di carattere di fatto subordinato al Primo, quello del “dominante” Ovest.
Proprio la parabola sovietica, il suo avvento e la sua frantumazione, Genesi e Apocalisse, è il fuoco dei romanzi di una delle voci più profonde della narrativa contemporanea georgiana e dell’intera regione del Caucaso. Parliamo di Nino Haratischwili, appena ritornata nelle librerie italiane con La gatta e il generale, edito per i tipi di Marsilio con la traduzione di Fabio Cremonesi e Francesca Bonomi.
Nata a Tbilisi nel 1983, Nino Haratischwili è scrittrice e drammaturga, fra le più significative rappresentanti della letteratura della Georgia d’oggi con le sue opere intense ed elefantiache, che vanno dalle 1200 pagine di L’ottava vita (per Brilka) – uscito nell’estate del 2020, la storia che la ha introdotta ai lettori italiani – alle 656 del succitato ultimo lavoro, passando per le 700 di La luce che manca. Romanzi – in Italia tutti pubblicati da Marsilio – in cui l’autrice georgiana scandaglia i recessi della società del suo Paese, le contraddizioni di un tempo passato ma ancora così tanto presenti sia in Georgia che in altre giovani e fragili democrazie fino a qualche decennio fa al di là della Cortina di ferro.
Cronaca delle nostre settimane sono i tumulti scoppiati in Georgia a seguito delle contestatissime elezioni parlamentari del 26 ottobre, con l’opposizione che non ha accettato l’esito finale che ha visto imporsi il Sogno Georgiano – partito filorusso già al governo dal 2012 – denunciando brogli alle urne. Sostenuti in prima persona dal presidente della repubblica Salomé Nino Zourabichvili – atlantista e patrocinata proprio da Sogno Georgiano alle vittoriose presidenziali del 2018 –, i partiti e i movimenti dell’opposizione europeista si ritengono defraudati e temono che il risultato delle votazioni possa riaccendere l’antica passione con la Madre/Matrigna Russia, arrestando quindi in maniera pressoché definitiva l’iter d’occidentalizzazione della Georgia, Paese in cui da anni garriscono le bandiere di una Unione Europea che oggi più che un sogno appare una chimera.
Inabissarsi nelle rovine dell’Unione Sovietica, infilarsi nelle gravi crisi politiche e economiche che hanno colpito le ex repubbliche socialiste del Caucaso dopo l’indipendenza, è l’indirizzo seguito da molti altri narratori contemporanei della Georgia, le cui pagine hanno permesso di spalancare, anche in Italia, una finestra sulla poco conosciuta nazione in bilico fra Europa e Asia – e la storia, come pure la vita, ci insegna che tenere insieme due mondi è impresa assai complicata.
Eppure nei secoli che furono i legami fra Italia e Georgia risultavano più stretti e il Paese caucasico destava molto interesse nei nostri avi. Lo testimoniano le spedizioni nel Seicento dei chierici teatini Arcangelo Lamberti e Cristoforo Castelli – coi loro preziosissimi resoconti – e quelle, sempre del medesimo secolo, della Sacra Congregazione de Propaganda Fide. Volte alla diffusione del cattolicesimo, le missioni diedero vita al Dittionario Giorgiano e Italiano, il primo libro in lingua georgiana realizzato con l’uso dei caratteri mobili, pubblicato a Roma nel 1629 dal missionario Stefano Paolini e da Niceforo Irbachi Giorgiano, ambasciatore in Occidente del sovrano Teimuraz I di Cachezia. Il volume, assieme a una pregiata grammatica georgiana in latino del monaco Francesco Maria Maggio (datata 1670), è conservato al Museo del libro di Tbilisi.
Il singolare e capriccioso alfabeto georgiano, uno dei cinque alfabeti eurasiatici, è riflesso dell’anima georgiana, uno spirito fortemente identitario quanto travagliato, schiacciato dalle vicissitudini storiche di una regione altamente turbolenta – i destini della Georgia, infatti, non possono non intrecciarsi a quelli altrettanto tormentati di altre entità del Caucaso del Sud: l’Azerbaigian, l’Armenia, il Nagorno Karabakh e i due di fatto ex territori georgiani, dal 2008 sotto influenza russa, dell’Abcasia e dell’Ossezia del Sud. Questa è la attuale Georgia: un popolo frammentato, spaesato, paralizzato nella sua insanabile immaturità, in bilico fra un passato ingombrante e un avvenire tutto da immaginare ancor prima che da definire.
Da Ilia Chavchavadze a Titsian Tabidze, da Nodar Dumbadze a Dato Magradze: sono tanti i degni eredi di una tradizione letteraria antica che ha il suo sommo cantore in Shota Rustaveli.
Poeta vissuto fra il XII e il XIII secolo, Rustaveli è autore de Il cavaliere dalla pelle di leopardo – tradotto pure L’uomo dalla pelle di leopardo oppure ancora Il cavaliere dalla pelle di pantera –, il poema epico nazionale della Georgia, romanzo lirico in versi scritto fra il 1184 e il 1207 – età dell’oro della Georgia, epoca in cui, sotto la leggendaria regina Tamara, il regno georgiano raggiunse l’apice della sua potenza politico-militare – e pubblicato per la prima volta in volume nel 1712, in cui vengono narrate le vicende di un coraggioso cavaliere, Tariel, che peregrina in un affascinante paesaggio orientale alla ricerca della donna amata.
“La rosa più bella appassisce senza sole e perde il suo splendido colore. Così per noi: il distacco dall’amato riapre l’antica piaga e rinnova le sofferenze.”
Il cavaliere dalla pelle di leopardo, Shota Rustaveli
Tradotto anche in italiano, il libro rappresenta per il popolo georgiano quello che per noi italiani rappresenta la Divina Commedia di Dante.
Accanto a Shota Rustaveli, a cui è intitolato il viale principale di Tbilisi, nonché il teatro nazionale e l’aeroporto della capitale, si pone un altro dei padri della letteratura georgiana. Si tratta di Ilia Chavchavadze, poeta e scrittore dell’Ottocento, fondatore di riviste letterarie e figura apicale del movimento di liberazione nazionale, assassinato nel 1907 a Mtskheta, antica capitale del Regno di Georgia, e oggi canonizzato dalla Chiesa ortodossa georgiana. Di fatto sconosciuto fra i lettori del Bel Paese, di Chavchavadze nelle librerie italiane possiamo trovare Lettere di un viaggiatore, uscito nel 2021 per le edizioni Il Saggio con la traduzione di Manana Topadze Gäumann.
Procedendo in questa sorta di reportage storico-letterario che non nutre dissennate pretese di risultare esaustivo, raggiungiamo il Novecento e il capitolo della letteratura incentrata sulle vicende tragiche della rivoluzione bolscevica e dello stalinismo.
Nome essenziale di questo periodo è Titsian Tabidze, poeta cardine del movimento simbolista nazionale, fra i fondatori, nel 1915 a Kutaisi, del gruppo di giovani scrittori Tsisperqantselebi (le Corna Blu) che rivoluzionò le arti in Georgia, amico stimatissimo di Boris Pasternak – fra l’altro traduttore dei suoi versi in russo – e vittima delle Grandi Purghe indette dal connazionale Iosip Stalin, in gioventù anche aspirante poeta, apprezzato nientemeno che dal summenzionato Chavchavadze. Curioso, molto curioso, ma questa è un’altra storia.
Delle Corna Blu faceva parte un altro importante autore: Giorgi Leonidze, scampato alla tirannia stalinista e morto nel ’66, ben più tardi del Piccolo Padre. Leonidze è sepolto a Mtatsminda, il Pantheon degli scrittori e dei personaggi illustri georgiani, luogo sacro in cui si incontrano pure i sepolcri di Ilia Chavchavadze e di sua moglie Olga, di Kaikhosro Cholokashvili, eroe nazionale, di Akaki Tsereteli, poeta da cui prende il nome una delle arterie principali di Tbilisi, e di Keke Geladze, madre di Stalin, che per il figlio alla carriera del perfetto dittatore avrebbe tanto preferito quella ecclesiastica. E pure questa è un’altra storia.
Nella necropoli culturale sul colle che domina Tbilisi riposa anche un altro componente, seppur per un breve lasso, delle Corna Blu: Galaktion Tabidze, detto il Mozart della poesia, cugino di Titsian, perseguitato dal KGB, scivolato nel tunnel della depressione e dell’alcolismo e suicidatosi nel ’59 gettandosi dalla finestra di un ospedale della capitale georgiana.
Al Pantheon di Mtatsminda è sepolto un altro nome della letteratura georgiana del Novecento oltremodo meritevole di menzione. È Nodar Dumbadze, vincitore del Premio Rustaveli, il più importante riconoscimento georgiano nel campo delle arti e delle lettere, fra gli autori più tradotti e conosciuti nel mondo. In Italia di Dumbadze sono apparse per i tipi de La vita felice undici novelle raccolte sotto il titolo de Il sole. La traduzione del volume è di Ruska Jorjoliani, scrittrice georgiana di lingua italiana, autrice di Tre vivi, tre morti e figura centrale nell’opera di diffusione della letteratura del Paese caucasico nella nostra Penisola.
Aprendo questo paragrafo, non si possono non citare altri studiosi e promotori della letteratura georgiana in Italia: Gaga Shurgaia, professore associato di Lingua e letteratura georgiana all’Università degli Studi L’Orientale di Napoli; Nunu Geladze, giornalista, traduttrice e presidente dell’Associazione italo-georgiana Con la Georgia nel cuore; Luigi Magarotto, primo traduttore italiano della poesia georgiana – ha portato in Italia i versi di Galaktion Tabidze, di Važa-Pšavela e del controverso poeta Grigol Robakidze –, già docente di Lingua e letteratura russa e Lingua e letteratura georgiana alla Ca’ Foscari di Venezia.
Spingendosi al termine del Ventesimo secolo fino ad approdare al corrente – seguendo quindi il filo che collega l’intervallo distinto dalle povertà e criminalità dilaganti successivo al drammatico naufragio dell’URSS e le guerre e le rivolte nel Caucaso degli ultimi decenni –, la narrativa contemporanea georgiana si esprime con altri scrittori come Nana Ekvtimishvili, che col suo primo romanzo, Il campo delle pere, è entrata nella lista del Booker Prize 2021, e Levan Berdzenišvili, reduce dai Gulag (trascorse tre anni, dal 1984 al 1987, in un gulag in Mordovia) e autore de La santa tenebra, una narrazione caustica, pregna di humour nero, degli orrori del sistema repressivo e penale perfezionato da Stalin sul modello zarista del katorga.
Nell’odierna scena letteraria della Georgia un posto preminente lo ha Dato Magradze, poeta tradotto anche in Italia e autore delle parole che compongono l’attuale inno nazionale georgiano, nonché, fra il 1992 e il 1995, Ministro della Cultura della Georgia, decorato con l’Ordine d’Onore, prestigioso premio statale del Paese nel cuore del Caucaso.
Infine, per concludere questo excursus introduttivo alla letteratura georgiana, aggiungiamo il nome di un autore emergente e di sicuro avvenire: Iva Pezuashvili, classe ’90, giunto quest’anno nelle librerie nostrane con La discarica, romanzo pubblicato da Voland con la traduzione di Ruska Jorjoliani, specchio in cui si riflette la storia della Georgia postsovietica e la sua impacciata ricerca di una identità, un nuovo senso di sé dopo decenni di educazione comunista, nelle aule fatiscenti dell’UE, ammaliati dalle sirene stonate del Vecchio – e decrepito – Continente.
“Dio mio, Mila ripensa al passato, come cambiava in peggio l’Urss in effetti negli ultimi tempi. In proporzione alla diminuzione del cibo nei negozi statali, aumentavano la rabbia e il rancore, e quelli che fino a quel momento erano considerati popoli fraterni in un batter d’occhio si ritrovarono nemici, e se prima si chiamavano cittadini sovietici, all’improvviso si trasformarono in armeni, azeri, georgiani, abkhazi e osseti, e in modo programmatico, seguendo quasi alla lettera il copione di una pièce russa scritta negli anni ’20, si misero a scannarsi e a trucidarsi tra loro.”
La discarica, Iva Pezuashvili
Le elezioni d’ottobre – mese così emblematico nell’Est, sterminata latitudine della più iconica rivoluzione proletaria della storia – e il susseguente aggrovigliato strascico di polemiche ce lo confermano: la terra di Medea, del Vello d’oro e di Stalin continua a bollire, ma anche a generare grandi autori, cui è affidato il compito di seguitare a raccontare una delle aree più inquiete dell’Eurasia. Una fetta di mondo su cui mantenere accesi i riflettori, anche per tramite della letteratura.
Antonio Pagliuso