“Trasfigurare l’addio”. Rilke & Merline: un nome scritto nella neve di Muzot
Letterature
Marilena Garis
A Nina Tabidze, la moglie di Tician, l’estroso poeta arrestato dai molossi di Stalin, Boris Pasternak annunciò il lieto evento, “Proprio alla vigilia del nuovo anno 1938 mi è nato un bambino. Zina l’ha dato alla luce a mezzanotte in punto, fra il tintinnio dei bicchieri”. Il primo figlio, Evgenij, era nato nel 1923, dall’unione di Pasternak con la prima moglie, Evgenija Lur’e. “Avrei voluto chiamarlo Pavel”, scrive Pasternak, “ma Zina s’è perfino messa a piangere, tanto era spaventata da quell’accostamento a un’immagine di dolore, di amarezza e di fine misteriosa”. Infine, al secondo figlio di Pasternak fu affidato il nome Leonid, come quello del nonno, l’artista, il papà di Boris.
Con Pavel, Pasternak indica Paolo (Pavel) Jašvili, il grande poeta georgiano, amico di Tician Tabidze, carismatica guida dei simbolisti radunati attorno alla sigla “Corno blu”. Pasternak aveva conosciuto Paolo Jašvili nel 1930, a Mosca: “brillante uomo di mondo, conversatore colto ed interessante, un europeo, una maschia bellezza”. L’anno dopo, assieme a Zina, aveva visitato la Georgia, che il poeta russo considerò, sempre, una specie di Eden della poesia, il luogo dell’assoluto, dell’assoluta innocenza. Nella sua araldica privata – come scrive proprio a Jašvili il 30 luglio del 1932 – la Georgia “sarà per me quello che sono stati Chopin, Skrjabin, Marburg, Venezia e Rilke” (in: Boris Pasternak, Lettere agli amici georgiani, Einaudi, 1967). Per il resto della sua vita, Pasternak elaborerà una antologia della poesia georgiana; un’antologia di ombre. Fine misteriosa è la didascalia appropriata al poeta, figura tragica, figurante in un’era non sua: mistero che moltiplica la fine all’infinito.
La storia di Paolo Jašvili, in effetti, riproduce in germoglio l’epica capovolto di un’epoca terribile. Tra le grandi personalità della poesia del primo Novecento, Paolo Jašvili è stato schiacciato dal torchio stalinista. Per un po’, vagheggiò una vita da bohemienne, da poeta selvaggio: studi a Parigi, vagabondaggi georgiani, Pasternak lo racconta “in una sperduta stazioncina della Norvegia”, insieme a “una coppia di giovani agricoltori norvegesi”. Paolo Jašvili, poeta dalla fantasia esuberante, un estremista capace di contenere nel lampo verbale la cenere e l’immortale, l’angelo e il lupo, era uno che perdeva i treni. Che scambiava destini e destinazioni.
In Georgia, il simbolismo fu bandito, odorava di reazione, sostituito con i diktat del realismo socialista. Paolo Jašvili smise i panni del letterato, fu invitato a lavorare come agente per una centrale idroelettrica. Lavrentij Berija, nato in Georgia, il braccio omicida di Stalin, capo della polizia segreta sovietica, intuì in Paolo Jašvili i tratti dell’anima braccata, pronta al patto per un refolo di luce. Per avere un ruolo nei comitati letterari, il poeta fu costretto a ritrattare l’antico credo lirico, a dichiarare che André Gide, suo compagno parigino, era un “cane trotskista”. Quando lo intimarono di denunciare Tician Tabidze, l’amico di una vita, per attività antisovietiche, sotto minaccia di torture da parte della NKVD, Paolo Jašvili reagì a modo suo. Si sentiva un reprobo e un recluso: il 22 luglio del 1937, nella sede georgiana dell’Unione degli scrittori, a Tbilisi, si uccise. I burocrati testimoniarono che il suo era stato “un gesto provocatorio, che suscita disgusto e indignazione”.
“Paolo Jašvili è uno dei grandi poeti dell’epoca post-simbolista”, ricorderà, Pasternak, nella sua Autobiografia.
“Era nato per raccontare avventure. Gli capitavano sempre imprevisti, come nei romanzi. I casi singolari pareva lo prediligessero, egli ne aveva il dono, l’attitudine. Traspariva genialità: il fuoco dell’anima gli accendeva gli occhi, il fuoco delle passioni gli ardeva le labbra; il suo viso era bruciato, annerito dalla fiamma dei sentimenti, sì da farlo apparire più vecchio della sua età, un uomo consumato dalla vita”.
Boris Pasternak
Quando scelse la morte, Paolo Jašvili aveva 43 anni; Tician Tabidze sarebbe stato fucilato poco dopo l’arresto. Naturalmente, il governo velava i cadaveri sotto una coltre di menzogne. Anche per Pasternak, quelli, furono anni di macerie e di mezze misure: si ritirò traducendo Shakespeare, Keats, Byron, segno della “mia nostalgia per l’Europa”.
All’artista Lado Gudiašvili, il 3 febbraio del 1959, Pasternak invia una poesia che reca un distico profetico:
“L’epoca è uscita dalla sua tutela.
È ora di dar via libera al futuro”.
Sapeva che la vita avrebbe avuto ragione della morte. A causa del suo talento, Gudiašvili era stato espulso dal Partito Comunista e interdetto dall’insegnamento nelle scuole d’arte; Pasternak, tra sibili e silenzi, sarebbe morto pochi mesi dopo. Ma la morte non avrebbe avuto l’ultima parola. Le poesie di Paolo Jašvili trasmettono una terribile vitalità: di chi non ha pazienza e dai muti tribuni di pietra trae fiumi, braccia come canoe per divincolarsi dall’era onnipresente.
***
Paolo Jašvili
Scrivania, mio Parnaso
Mentre scrivo una lettera
il mio lavoro si erge in sogno.
Scampanio di lamenti: è il cielo
a mezzogiorno – la poesia tiene sotto
servaggio. Le mie dita sondano
le sillabe per addestrare la tristezza.
La punta della penna trilla
come il canto di un usignolo.
Unghiate di giallo perforano il vetro.
La musa sversa, ha le doglie.
Il poeta sviene. La scrivania
maneggia l’egida e costruisce sogni.
I vicini vengono da lontano.
La penna incide il velluto.
I taccuini vanno dettati:
canta, penna, canta la melodia
dell’usignolo. Sulle steppe planano
gli avvoltoi; le quaglie preferiscono
i tratturi. Fitti, i boschi inseguono
il falco: dalle tegole dei monti esplode
il firmamento. L’orzo è nero e annuisce
minacciandoci. Vi corro in mezzo.
La penna del poeta ha smesso di cantare
anche se era il suo usignolo.
(1932)
*
Dalle altezze
Questo è il nostro campo.
Onoriamo il fato che forgia le finiture
del destino: non abbiamo desiderato
più di quello che a tutti è stato concesso.
Confinato dai picchi della Georgia
i colori inseguono il canto.
Le montagne attendono come lupi
preparano banchetti per l’ospite d’onore.
Noi siamo i prescelti.
Raramente mostriamo la paura.
Siamo giovani e il sole
è l’araldo della poesia.
Non possiamo resistere al bagliore
del fuoco. Ecco, il brivido
della giovinezza: quando piove
il cielo brilla per noi. Sorrido come fa
il commerciante di bare mentre avvolge
nel lenzuolo lo sfortunato. Non c’è limite
al tempo – nulla può spezzarci.
Nel lavoro, in guerra, nella tempesta
predichiamo la generosità.
Verdi foglie, canti di uccelli,
la melodia lieve dell’acqua
le ciglia di una donna un tempo
tanto amata – ceneri della memoria.
Ma quando le baciamo
sono i guardiani della nostra eternità.
(1934)
*
Poesia
Quando le parole smettono di fluire, divento pazzo.
Quando non potrò più lodare il sole
mi caverò gli occhi.
Poesia, se non puoi accendere il fuoco
allora sei un pezzo di carne strappato dal mio cuore
morto prima che tu nascessi.
La guerra è ovunque
i resistenti hanno preso il bosco.
Ma c’è qualcosa di peggio:
il poeta non ha più ispirazione.
Il mio corpo vuoto vaga per la città.
Sono uguale a tutti gli altri,
anche se, come dicono, scrivo poesie.
Nessuno conosce il fuoco che arde
nel cervello traditore.
Quanti occhi ci vogliono per vedere ogni cosa?
Di quanti cuori ho bisogno per disperarmi?
Quante persone devo rovinare perché le mie poesie
siano limpide, pure come ali di farfalla?
Le parole mi tormentano come la morte.
Il mio sangue, i miei pensieri, la mia anima
sono loro schiavi. La notte è finita.
L’alba assale il giorno: né uomo
né scheletro, tu sei memoria.
Ogni poesia che scrivo è un anno
strappato al libro della vita.
Se questa poesia è l’ultima
che i corvi ne apprezzino la delicatezza.
(1926)