02 Marzo 2024

L’importanza del cadavere nella storia della letteratura sovietica. Ovvero: lo Stato sconfitto dai suoi morti

Di solito, mentivano sulla data. Tician Tabidze, pioniere della poesia moderna georgiana, fu arrestato poco dopo l’espulsione dall’Unione degli scrittori, nell’autunno del 1937. Fu fucilato in dicembre; per anni la moglie, Nina, e l’intimo amico, Boris Pasternak, sperarono nella sua liberazione. Ancora negli anni Quaranta, si scrivevano come se il poeta fosse vivo; la “terribile verità” fu svelata soltanto nell’ottobre del 1955.

Possedere la data di morte di un uomo, per il governo sovietico, significava possederne l’anima – e dunque, l’anima dei vivi legati a quel cadavere. Lo Stato, in questo senso, aveva il potere messianico di tenere in vita i morti – di farli risorgere, contraffatti, nella memoria dei cari. Negare ogni notizia intorno ai parenti prigionieri, consentiva di tenere in scacco, sotto ricatto, intere dune di popolo, una catena di sofferenti.

In questa storia – una variante delle Anime morte di Gogol’ – il cadavere di un uomo, intarsiato di sevizie, è tesoro ben più importante di un adamo in carne e ossa: fruttifica rimpianti, maliziosi fraintesi; fermenta una colossale fila di morti-in-vita. Eccoli: gli oranti e le penitenti che impetrano notizie del catturato, spesso innocente. Isaak Babel’, il grande scrittore nato a Odessa da famiglia ebraica, autore de L’armata a cavallo, fu arrestato a metà maggio del 1939. Era accusato – come da consuetudine – di essere un trotzkista, un cospiratore, una spia a libro paga del governo francese. Le dichiarazioni di innocenza di Babel’ furono vane; nel gennaio del 1940 Berija chiese a Stalin il permesso di giustiziare 346 “nemici del popolo”: nella lista, infame, compare anche il nome di Babel’. Lo scrittore fu ucciso a fine mese, quell’anno; nel 1954 il governo scrisse alla vedova che il marito era stato scagionato da ogni accusa – fu scoperto innocente. Del corpo, ormai, non c’era più traccia da tempo: era svanito, prodigio di carne.  

Un governo esercita la propria potestà sugli altri mondi, a governare la vita sono in fondo capaci tutti. Uno Stato che governa sui morti è davvero onnipotente.

Per scoprire la data di morte del marito – per sottrarre tale sortilegio agli artigli di Stato – Nadežda Mandel’štam scrisse un libro lapidario, Speranza contro speranza (recentemente stampato da Settecolori, 2022). Dopo diversi arresti e ostacoli – impedimenti a veder pubblicati i propri libri, ad esempio, a guadagnarsi da vivere con la scrittura – Osip Mandel’štam, tra i grandi poeti del secolo, muore in un campo di transito, nei pressi di Vladivostock due giorni dopo il Natale del 1938. Dicembre è un mese ferino: la festività arma la gola degli assassini, ingolosisce il caso.

“Nessuno sa niente e nessuno al di qua come al di là del filo spinato saprà mai niente. Nel miscuglio, nello squallore del lager, dove i cadaveri con la tacca al piede giacciono accanto ai vivi, nessuno troverà mai niente. Nessuno lo ha visto morto. Nessuno ha lavato il suo corpo. Nessuno lo ha messo nella bara. Il delirio dei martiri del lager non conosce tempo, non distingue la realtà dal sogno… Io so una cosa sola: un uomo, un martire, è morto da qualche parte”.

Forse, perché un poeta esista ci vuole un altro – un uomo, una donna – che lo esiga. Che lo tiri fuori dal tumulo in cui l’hanno conficcato.

A proposito delle date di morte dei ‘martiri’ del lager, sempre inesatte, Nadežda Mandel’štam offre un ulteriore dettaglio:

“La data che figurava sul certificato di morte rilasciato dall’ufficio di stato civile non dimostra nulla. Le date vi venivano apposte con criteri assolutamente arbitrari e spesso milioni di decessi venivano concentrati di proposito in un unico periodo, per esempio in quello bellico. Ai fini statistici era comodo che le morti avvenute nei lager si confondessero con quelle provocate dalla guerra. Era un modo per mascherare la portata reale della repressione: la verità, tanto, non stava a cuore a nessuno. Nel periodo delle riabilitazioni, erano indicati quasi meccanicamente, come date di morte, gli anni 1942 e 1943…”.

Penso al burocrate che sceglie la data di morte di un carcerato: magari usa, per scaramanzia, la propria data di nascita, o quella in cui è nata la nonna – forse scrive il giorno e il mese in cui si è sposato, forse il giorno natale della figlia. Orrore fiorito, là dove passa l’uomo.

Enormità dell’inerme: il corpo morto del poeta, l’inutile. Inermità energumena, in grado di far crollare imperi.

Intorno al corpo morto divampa la speranza dei vivi; il corpo morto rende di miele la parola sacrificio: ogni ribellione è possibile, e la morte chiama altra morte.

Finché è in possesso dello Stato, il cadavere splende, è un tesoro colmo di zaffiri. Quando il cadavere è esposto in pubblico, eletto al rito funebre, può essere un problema. Nel caso di Marina Cvetaeva, il problema si sciolse da sé: il marito – spia e contro-spia – Sergej Efron era stato arrestato nel 1939 e ucciso nel settembre del ’41; la figlia, Ariadna, era stata arrestata insieme al padre, con l’accusa di spionaggio e attività controrivoluzionaria: fu riabilitata nel 1955. Marina, malauguratamente rientrata in Russia dopo un esilio quasi ventennale, con le stimmate dell’alienata, della paria, si uccise l’ultimo giorno di agosto del 1941, nella latrina di Elabuga, non la volevano neanche come lavapiatti. Il figlio superstite, “Mur”, sedicenne, ha dovuto lottare contro le forze di polizia locali per ottenere la restituzione dei documenti della madre e il permesso di seppellirla. Così racconta nel suo diario (raccolto nel libro: M. Cvetaeva-G. Efron, Grida dai tetti il suo amore per me, Magog, 2022, traduzione di Fabrizia Sabbatini):

“In serata sono venuti un miliziano e un medico, hanno preso le lettere e portato via il corpo. Il giorno dopo, verso sera, sono andato alla polizia e non senza difficoltà ho ritrovato le lettere, tranne quella che era stata indirizzata agli sfollati, di cui mi hanno dato una copia. La polizia non voleva restituirmele, ma darmi solo delle copie. «Le cause del suicidio devono rimanere con noi». Ma io ho insistito. Lo stesso giorno, sono andato al centro medico, ho ritirato il certificato di morte e il permesso di sepoltura (all’anagrafe). M. I. era in perfetta salute al momento del suicidio. È stata seppellita il giorno dopo. Abbiamo aspettato a lungo i cavalli, la bara. È stata sepolta nel cimitero a spese del consiglio comunale”.

Nell’anno in cui muore Marina, il governo sovietico bombarda di microspie l’appartamento di Anna Achmatova: leggerla significava schierarsi contro lo Stato. A quell’epoca, le poesie si passavano a memoria, di bocca in bocca, si nascondevano e un lenzuolo equivaleva a un incendio. La polizia segreta raccolse un dossier di novecento pagine di intercettazioni e interrogatori relativi alla Achmatova. Il marito, Nikolaj Gumilëv, antibolscevico, era stato fucilato vent’anni prima; il figlio, Lev, era in carcere. Accusata di scrivere opere “borghesi”, alla Achmatova fu pressoché impedito di pubblicare: la cacciarono dall’Unione degli scrittori – per lei, ogni punto di dolore era un grammo d’onore. Isaiah Berlin, che la amava, scrisse che “La leggenda della sua vita, l’inflessibile resistenza passiva a ciò che considerava indegno nel suo paese la trasformarono in una figura decisiva non soltanto per la letteratura russa, ma per l’intera storia russa del Ventesimo secolo”.

Compianto sul corpo di Anna Achmatova

Morì il 5 marzo del 1966; i funerali, a Leningrado, accolsero folle. In una fotografia, si vede Iosif Brodskij in lacrime. Non furono permessi discorsi pubblici. Gli intimi amici si accalcarono intorno ad Anna mentre il corpo giaceva nell’obitorio dell’Istituto Sklifasovskij, a Mosca: fu Arsenij Tarkovskij a tenere un frugale discorso.

Il funerale di Boris Pasternak, invece, creò maniaca ansia nel corpo delle autorità governative. Dopo il Nobel – e il successivo rifiuto – il poeta veniva trattato come un nemico della patria.

“Sono spacciato, come una bestia in gabbia.
Da qualche parte ci sono persone, libertà, luce,
ma dietro di me il clamore dell’inseguimento
e ogni uscita mi è preclusa…

Che cosa ho fatto di male
sono un assassino, sono un bandito?
Ho fatto piangere il mondo intero
per la bellezza della mia terra”.

Così scrive il poeta in una poesia del 1959, Premio Nobel. Tentarono di screditare l’opera del poeta e la grandezza dell’uomo, in ogni modo. Pasternak morì per un cancro ai polmoni il 30 maggio del 1960; la “Literaturnaja gazeta” diede alla notizia il risalto di un trafiletto:

“La Direzione del Fondo Letterario dell’Urss comunica l’avvenuta dipartita dello scrittore Pasternak Boris Leonidovič, membro della mutua degli scrittori [Litfond], sopraggiunta il 30 maggio c.a. nel settantunesimo anno di vita, dopo una lunga e grave malattia, esprimendo i sensi del suo cordoglio alla famiglia”.

D’altro livello il resto del giornale: si parlava, diffusamente, del discorso “del compagno Chruščëv”, tenuto di fronte a “milioni di persone”: pubblicato sul foglio domenicale, “è andato a ruba”; si diceva di un incontro di calcio contro la Spagna che non aveva avuto luogo (“il dittatore fascista Francisco Franco per compiacere i suoi protettori d’Oltreoceano ha proibito ai giocatori spagnoli di incontrare la squadra dei calciatori sovietici”); di un “terremoto in Cile”.

Alcuni volantini, stampati in clandestinità e diffusi sui treni in partenza da Kiev, avvisavano che il funerale del poeta sarebbe avvenuto il 2 giugno, alle ore 15, presso il cimitero di Peredelkino. Il governo inviò alcuni agenti a vigilare: sarebbero intervenute le forze dell’ordine qualora qualcuno avesse osato pronunciare discorsi sovversivi sul corpo del poeta deceduto. L’Informativa della Sezione Cultura del Comitato Centrale del PC dell’Unione Sovietica sulla sepoltura di B.L. Pasternak, firmata “dal vicedirettore della Sezione cultura del Comitato Centrale del Pcus, A. Petrov”, in data 4 giugno 1960, spietata quanto grottesca, è stata pubblicata qualche anno fa in un libro biografico, La nostra vita, che riproduce testi di Boris, Aleksandr ed Evgenij Pasternak (Excelsior 1881, 2009). Il documento, di superba infamia, parla di “circa 150-200 persone, evidentemente appartenenti alla vecchia intellighenzia e circa un eguale numero di giovani”, al funerale. In pochi parlarono, elogiando il poeta, tra i silenzi e le rimostranze del ‘pubblico’; alcune donne, è scritto, hanno dato in proteste: “Che tipo di scrittore è, se si è messo contro il potere sovietico?”. L’ultimo paragrafo dell’informativa è di tombale eloquenza:

“Bisogna ricordare che il tentativo di sfruttare i funerali di Pasternak per fare clamore e suscitare reazioni malsane, non ha avuto alcun successo. Il fatto che la nostra letteratura non abbia pubblicato un necrologio per Pasternak, limitandosi soltanto alla notizia del Litfond, era stato considerato come una cosa giusta da parte della cerchia dell’intellighenzia artistica. In riferimento a ciò, sarebbe opportuno che l’Unione degli scrittori e il Ministero della cultura si prendessero cura dell’educazione della gioventù artistica e degli studenti, una parte dei quali (numericamente esigua) è stata colpita dal morbo della fronda e vuole presentare Pasternak come un grande artista incompreso dalla sua epoca”.

Il poeta, ormai cadavere, non fu mai così vivo. Diventò un palio, uno stemma, un premio.

Il meccanismo di laido discredito dell’opera del poeta, ordito dal governo sovietico, era già noto ad Angelo Maria Ripellino, che con queste parole conclude l’introduzione alle Poesie di Pasternak tradotte per la Nuova Universale Einaudi:

“Il destino di Boris Pasternak non è che una variante della lotta perenne del poeta di genio col regime e la società del proprio tempo, lotta a cui non si sottrasse nemmeno Majakovskij e di cui le lettere russe ci offrono tragici esempi. Ma egli vive sin d’ora nel futuro, mentre la gloria posticcia di quelli che urlano contro di lui sarà più breve dell’estate nella tundra”.

Così, anche una poesia che parla di campi innevati e di venti, trasforma i lucchetti in passerotti, spalanca ai regni della libertà, mentre chi crede di impugnare un qualche potere, di dimorare sulla vetta della Storia non è che un cadavere vivente.

Gruppo MAGOG