Ciascuno combatte come può, secondo i reami del proprio spirito, la frequenza angolare del respiro. Boris Pasternak pareva sempre in apnea al tempo, un sonnambulo: ritroso, retrattile, più serpe che colomba, aveva capito che il potere non si combatte con le insinuazioni, ma insinuandosi. L’Autobiografia scritta nel 1957 per ‘giustificare’ l’ultima raccolta poetica, Quando rasserena – in Italia è edita da Passigli, 2020 – di cui fu impedita la pubblicazione, si conclude con il capitolo Tre ombre. Pasternak rievoca la morte di tre amici, diversamente schiacciati dal regime sovietico: il primo cammeo, straziante, è dedicato a Marina Cvetaeva. La morte della Cvetaeva, insieme a quella dei poeti georgiani Paolo Jašvili e Tician Tabidze è “il maggior dolore della mia vita”, scrive Pasternak. Evocare quelle tre ombre significa riconoscere che lo stalinismo ha ucciso la sua giovinezza, con le sue aspirazioni: con quelle tre ombre è Pasternak a morire, per soffocamento.
In particolare – così ne scrive a Nina Tabidze, due giorni dopo il Natale del 1940 – è Tician Tabidze “il personaggio fondamentale della mia esistenza, il dio della mia vita, nel senso greco e mitologico”. Certo, bisogna sempre diffidare delle enfasi di Pasternak, un cosmo che ruota intorno a una sola stella, se stesso. Eppure quella lettera – raccolta tra le Lettere agli amici georgiani da Einaudi nel 1967 – è esemplare: a quella data Pasternak credeva che l’amico fosse ancora vivo – “Tician è vivo e si trova in qualche luogo molto vicino e l’attesa sta diventando sempre più breve” –, tanto da scrivere una lettera a Berija – l’ennesima, tragica corrispondenza esagerata nel sangue, tra i poeti e il capo della polizia segreta sovietica – per impetrarne la scarcerazione; in realtà era morto, nelle più terribili circostanze, da tre anni.
Nato, come Pasternak, nel 1890, figlio di un prete ortodosso, studi compiuti all’università di Mosca, Tician Tabidze è stato il più talentuoso e inafferrabile poeta georgiano del secolo. Fondatore del clan lirico “Corna Blu” (Tsisperqantselebi), si opponeva al realismo socialista e al cinico civismo propalati come formula poetica unica nella Georgia sotto tiro sovietico. Geniale, esasperato, istrione, Tabidze fondeva Dada alla tradizione georgiana, il futurismo alle eroiche odi di Besiki. Pare – anche fisicamente – una specie di Dylan Thomas asiatico: una fotografia lo ritrae rubicondo, come sempre disordinato, un fiore all’occhiello della giacca, la cravatta impossibile – troppo larga, troppo lunga – il viso tondo, sorride. “Quando ride, tutto il corpo ne è scosso”, scrive Pasternak. Ogni poeta ha il proprio luogo dell’anima, un piccolo Eden: per Puškin era il Caucaso, per Rilke la Russia, per Mandel’štam l’Armenia; Pasternak aveva trovato la propria patria del cuore in Georgia. Tra l’altro, era il traduttore di Tabidze:
“Essenziale della sua poesia è il senso, presente in ogni verso, di un’inesauribile potenzialità lirica, la preponderanza dell’inespresso o di ciò che al poeta resta da dire, su ciò che già è stato detto. Questa presenza di riserve spirituali intatte crea lo sfondo e il secondo piano dei suoi versi e conferisce loro quell’umore particolare di cui sono penetrati e che ne costituisce il principale e amaro fascino. V’è nei suoi versi tant’anima quanta ve n’era in lui, un’anima complessa, segreta, intimamente volta al bene, capace di chiaroveggenza e abnegazione”.
Con l’avvento di Stalin, la sorte di Tabidze, poeta dalla gioia creativa estremista, spirito indocile, indomito, clownesco, era segnata. La polizia lo riteneva un agitatore antisovietico: all’irruzione nelle case dei poeti, di solito, seguiva l’obbligo, sotto tortura, di denunciare i nomi di amici, ulteriori fittizi traditori della patria. Contro Tabidze si mobilitò, dal 1936, secondo schemi ormai consolidati, la stampa di parte, screditandone l’opera. In una lettera dell’8 aprile 1936, Pasternak cerca di consolare e di consigliare l’amico:
“Diffidi delle soluzioni, Tician! Abbia fede in questa linea, o piuttosto, per patriottismo rivoluzionario, abbia fede in se stesso, Tician Tabidze, perché, comunque sia, la chimica della sua personalità dissolve qualunque cosa a una temperatura più alta di quanto facciano la Literaturka e la Večorka… Non si rivolga alla pubblica beneficienza, amico mio: confidi soltanto in sé! Trivelli più profondamente, senza paura e senza pietà, ma trivelli in se stesso!… Può star tranquillo. Non sono il solo ad aver fede in lei e a sapere quanto vale”.
Il carattere di Tabidze era meno sinuoso di Pasternak: continuò la propria lotta solitaria, rifiutando di ammettere i propri ‘errori’ poetici, i propri abbagli politici (nell’epoca in cui una scelta estetica consegnava a un’aspirazione politica). Espulso dall’Unione degli scrittori georgiani nell’ottobre del 1937, dunque arrestato dalla polizia sovietica con l’accusa di tradimento, Tabidze fu torturato e fucilato poco dopo. Nessuna notizia, dopo il suo arresto, fu data alla famiglia e alla moglie, Nina. Soltanto nell’ottobre del 1955 la “terribile verità” viene alla luce: “l’ho sempre intuita”, scrive Pasternak, “ed è quella che ha determinato le mie opinioni, il mio atteggiamento verso l’epoca e i suoi principali esponenti, la mia sorte”.
Dalla scomparsa di Tabidze, Pasternak scrive spesso alla moglie, Nina, “Ninočka”; durante la Seconda guerra le invia del denaro. Nel 1957 si congratula per le pubblicazioni delle poesie del marito, “è un suo grande successo, e può esserne fiera”. Nel marzo del 1942 le aveva raccontato del suicidio di Marina Cvetaeva:
“per me resterà sempre un enigma insolubile come essa abbia potuto trovarsi in una situazione senza via d’uscita e senza facilitazioni… Era una poetessa dalle possibilità geniali. La conoscevo così intimamente e mi era così cara l’essenza stessa di lei e del suo destino che, sebbene fossi a Mosca e ciò accadesse qui sulla Kama, e non sapessi nulla e tra questo non vi sia nessun legame, mi sento ugualmente l’unico colpevole di quella amara incuria”.
In un’epoca che macellava i poeti, Pasternak era ossessionato dal futuro. “Non ho motivo di guardare indietro… il mio avvenire è infinitamente più importante”, scrive. La sua pacatezza nasconde la ferocia, le carezze hanno natura di tigre; d’altronde, il poeta è quello che “come sempre”, vuole “dite tutto insieme, in una sola poesia”, scrive a Nina – e si approssima all’assalto, a sparire in un miraggio.
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Il Mar Nero
Splendido Mar Nero: chi ha creato la sinuosa voce che mi ha fatto rabbrividire mentre cantavi di Medea? Credo nell’uragano della fantasia nella mascella infuocata del drago: io cerco il Vello d’Oro. Precipito in ciò che è fatale. Credi ciò che vuoi: la poesia eguaglia l’immortalità. Una slavina mi slava. L’indicibile mi incatena. Le onde di Mitos: una tenaglia mentre emergo con un nuovo canto. Nuova Argo, Orfeo io sono. Voglio dire dei nostri eroi, dolci come questo oscuro mare, ma le intenzioni mi strangolano. Questa città è una colomba nel palmeto. Vola tra le montagne, viene a me. La luna si nasconde tra la marea di nubi i demoni la condannano a morte per annegamento. Come il canto degli Argonauti questa notte di agosto si accartoccia nel cielo: così il cielo ritorna terra e io mi innamoro ancora.
Gagra, 1925
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Novembre
I pipistrelli accerchiano i platani, gialli e nudi, che coprono la cupola della chiesa. Il cupo canto delle gru intristisce i prati. Brindisi d’autunno bianco inverno. La tempesta, dunque, non ha pietà neanche per se stessa: il fuoco si mescola alla rabbia del vento. Il tramonto ha un consolato nell’anima – è sabato. La nebbia della sera ricopre la terra il prete termina la sua orazione. Preghiere a brandelli sulla barba bianca: è cieco da un occhio. Il demone del vento spezzetta il mondo e i miei piedi affondano nel fango. Annego tra foglie gialle: per favore, seppelliscimi.
10 gennaio 1916
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Inscritto nella poesia
Io non scrivo poesie: sono le poesie a scrivermi. Il poema scorta la mia vita. La poesia: voragine che mi fa sparire mi seppellisce vivo.
Sono nato nel mese di aprile quando sbocciano i fiori di melo. Il bianco mi piove addosso. Quando le lacrime mi scendono dagli occhi divento tempesta.
Le lacrime confermano che morirò. Pretendo che rimangano le mie parole. Toccassi il cuore di un solo poeta… premio che surclassa ogni forma di fama.
Avranno compassione del povero ragazzo che abitava sulla riva del fiume. Le poesie erano il suo viatico la sua unica guida.
Il cielo e la terra di Georgia lo hanno torturato finché è morto. Gli hanno negato la felicità che si deve al poeta.
Non scrivo poesie sono le poesie a scrivermi. Il poema scorta la mia vita. Questa poesia è una voragine: mi inghiotte mi seppellisce vivo.
1927
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Quando i banditi mi hanno ucciso sulle rive dell’Aragvi
Mentre mi avvicino al Darial, lasciata alle spalle la Circassia, una singola stilla del Terek inonda il mio cuore come un mare.
Cielo razziato piange su di me. Ghiacciai splendono entro il firmamento frantumato. Il selvaggio Terek pazzo d’amore per il Darial mi sciacqua le guance.
Un demone mi rincorre oltre l’abisso. Le montagne si dilatano come i muscoli di un gigante. Sento il peso della catena di ferro che mi legherà al collo.
Conosco il mio destino: fino ad oggi mi ha servito bene. Mia cara, non amo le parole vacue, non mi vanto di un vago suicidio.
La tempesta mi strattona tra burroni infiniti. Sei una donna e sai che le mie amanti bruciano nel rogo della gelosia.
Sarò l’epico vagabondo dei tempi perduti che ha vinto la tigre in quella terribile notte. La mia anima brulica del tuo dolore. Il mio corpo è gonfio delle tue lacrime.
1926
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Gunib
Ho attraversato il Dagestan. Ho visto Gunib. Ero un infedele, sono diventato un shahīd. La mia spada è una freccia: non si flette benché possa uccidermi. Il cielo domina le montagne con la neve: picchi svettano come ghigliottine. Quando dilaga il diluvio quando vaga il dinosauro il vento sputa toni di vendetta. Il fantasma di un nido: rivolta d’aquile. Gli occhi mi ricordano la vergogna. Quelle scogliere hanno la lebbra: chi ha sterminato il cielo? Georgia, la pena di questi monti ti riguarda. Le nostre ossa marciscono accanto alla baionetta: mia carne georgiana, in cancrena, ho pietà di te. Chi ha dato la vita è certo del paradiso. Quanto a te che resti, fratello georgiano, la memoria non prova compassione. Stanotte il vento balbetta. Shamil prega per i suoi uomini. Ci hai ridotti a schiavi, ci rovini in battaglia. La notte non ha lacrime per i vili, coscritti in un cielo straniero. Non ho mai premuto il grilletto fatale. Non ho mai indossato l’armatura: questa battaglia mi dona l’estasi. Non mi piacciono i poeti ebbri di sangue. Che questo giorno sia la mia penitenza che le poesie lavino l’onta del tradimento.