I riminesi sono paradossali. O forse, sono semplicemente scaltri. Continuano a far soldi vendendo la cosa più brutta che hanno – il mare – e negando l’unica cosa bella che posseggono – l’arte: dalla Rimini romana a quella ‘giottesca’, dal ‘Giambellino’ al Museo Civico al Cagnacci e al Vasari. D’altronde, il riminese doc si scalda se bisogna lottare per fare della ‘piada’ un patrimonio dell’umanità ma se ne fotte del Tempio Malatestiano, la perla architettonica che ha inaugurato il Rinascimento; ignora che la ‘Gambalunghiana’ è la Biblioteca civica più antica d’Italia – compie 400 anni nel 2019 – ma conosce i migliori locali dove si mangia tanto pagando poco. Il riminese è così: mente vuota & panza piena. Per questo, c’è poco da sorprendersi se Rimini – terra dell’effimero su cui non attecchisce la memoria, altro che amarcord qui è tutto un cin-cin – si esalta per il ‘capodanno più lungo dell’anno’ e per il primo divetto che passa, ma non sa costruire la propria identità sul mostro sacro del cinema mondiale, Federico Fellini. Stinta polemica, diranno i riminologi. Va detto, infatti, che il Sindaco supergiovane, Andrea Gnassi, un reperto renziano, ormai un quasi pensionato della politica a 48 anni (già baby consigliere regionale nel millennio passato, è stato Assessore al Turismo della Provincia di Rimini ed è Sindaco della città malatestiana dal 2011, in tutta scioltezza, non ha girato La dolce vita ma si fa vanto di aver inventato la Notte Rosa, il ‘capodanno dell’estate’, insomma, dove c’è da brindare Gnassi c’è), ha detto fin da subito, dal primo mandato sindacale, di voler ricucire lo strappo affettivo tra i riminesi e Fellini, due entità australi, che non sono mai andate d’accordo. Detto fatto: il Fulgor restaurato – già dato in affido a terzi come sala cinematografica – risorgerà, finalmente, il 20 gennaio prossimo (“il 2016 sarà contrassegnato dall’apertura, nel ristrutturato palazzo Valloni, della Casa del Cinema”, strimpellava, un po’ troppo avidamente, un ancestrale Documento Unico di Programmazione), per il compleanno felliniano (l’ingombrante maestro compirebbe 98 anni), ed è stato varato il bando (dal valore di 367.883 euro) per “progetto definitivo, progetto esecutivo, direzione dei lavori, misura, contabilità ed assistenza al collaudo per la realizzazione del comparto museale denominato ‘Museo Fellini’”. Il cosiddetto ‘Museo Fellini’ – desiderio onirico che attraversa la città fellinesca da lustri e lustri – sarà mostruosamente tricipite: una parte ospitata al Fulgor, l’altra a Castel Sismondo, la rocca del Malatesta, “pensato per accogliere la dimensione più performativa del Museo Fellini” (che diavolo significhi più performativa lo sanno solo loro, scrivete come cervello comanda, please), la terza si chiama CircAmarcord è una “grande area urbana pedonalizzata”, cosa vi faranno non chiedetelo, non lo sanno neppure loro. Il Comune di Rimini, come spesso accade, con una mano tocca le tette al sacro titano, con l’altra non sa che fare, si mette il pollicione in bocca. Espropriare d’identità il castello malatestiano – buono per mega-mostre – per metterci qualche pupazzo felliniano in 3D, infatti, rischia di essere una ca***a pazzesca, sarebbe come fare di Palazzo Reale a Milano una esposizione permanente di abiti di Armani o come svuotare Palazzo dei Diamanti a Ferrara per farci la sede dei memorabilia di Antonioni, che c’entra? Tra l’altro, il progetto ‘alla riminese’ di pigiare per il bavero Fellini sembra un elefante senza testa, una specie di Frankenstein travestito da Pinocchio. Che fine ha fatto l’idea (cito ancora il Dup 2016-2020) di costituire “un vero e proprio centro di studi felliniani”? Dov’è uno straccio di organigramma? Chi sono gli esperti internazionali (la presidenza di un centro studi siffatto andrebbe per lo meno a Martin Scorsese) e nazionali coinvolti? Nulla. Niente. Il vuoto rintronante. Il progetto – corretto sulla carta – di riappropriazione di Fellini è un corpo informe senza testa, tanta carne al fuoco senza uno che la sappia cucinare. Gli effetti di questa riappropriazione rustica, fatta in casa, ‘alla buona’, si vedono anche dalla recente acquisizione operata dal Comune. Dopo aver fatto l’unica cosa che non andava fatta – la chiusura dell’Associazione ‘Fondazione Fellini’, voluta dalla sorella del regista, Maddalena, nata nel 1995, presieduta, tra gli altri, da Ettore Scola, Pupi Avati, Tullio Kezich, che per anni ha partorito il Premio Fellini, andato a tipi come Scorsese, Polanski, Lumet, Sorrentino – per quanto redditizia – la ‘Fondazione Fellini’ si ferma nel 2012, chiude nel 2015 e tutti i materiali felliniani, una mole di disegni, manifesti, oggetti, oggettini, preziosi vari, va in mano al Comune – il Comune si proclama esperto in fellinologia applicata. L’ultima, fa quasi sorridere. Il Comune in una ovvia opera di acquisizione di reperti felliniani acquista per “euro 7.500… una raccolta di 11 disegni originali del Maestro Federico Fellini, realizzati in Libia sul set del film I cavalieri del deserto”. Del film, basato su un testo di Salgari, realizzato nel 1942 per la regia di Gino Talamo, prodotto dall’Alleanza Cinematografica Italiana di Vittorio Mussolini, Fellini fu pure sceneggiatore. La cosa anche più interessante è che, come testimonia Guido Celano, protagonista sul set insieme a Primo Carnera e a Luisa Ferida, “Fellini venne a girare le prime scene, perché Talamo era malato”. Prime esperienze da regista di un futuro genio. Tutto bello. Tranne i “disegni originali”. Bruttini. Andarono all’asta, per Minerva Auctions, qualche anno fa. Ne misero all’asta una “serie di 15 disegni a matita”, ma l’asta andò vuota, forse si percepì l’acre odore della ‘sola’. Ora il Comune non si piglia neppure il lotto completo (dove sono gli altri 4 disegni?) e per una cifra non certo ridicola. Affari riminesi. Piuttosto, non possiamo lasciare Fellini in mano ai riminesi, è troppo importante. Fellini – che ha fondato il passaporto morale dell’Italia tutta – deve diventare un affare di Stato, per lo meno.
Fellini, invece, per fortuna, non è affatto un ‘affare’ soltanto riminese o italocentrico. La Nacion, il massimo quotidiano argentino, dedica a Fellini una pagina speciale, l’ultimo dell’anno, Federico Fellini y el origen de los sueños. La notizia è che “dopo cinque anni di tentativi falliti, riapre nella città di Rimini la mitica sala Fulgor, dove il cineasta italiano vide i primi film”; il succo è che Fellini è un mito, più oltreoceanico che riminese. L’articolo è firmato da María Soledad Pereira, raffinata autrice di un giornalismo ‘narrativo’ (non ignota ai lettori di Pangea, per cui ha firmato un reportage da Ushuaia), che ho seguito, su altra testata, nella sua ‘disavventura’ riminese (qui). Ora, per carità, l’articolo, è – anche – un inno alla Romagna felix di Fellini. Ma è, soprattutto, un viaggio, a vuoto, in ciò che resta della Rimini felliniana. Nulla. O quasi.
La ricerca della giornalista di Buenos Aires parte dal Caffè Commercio eternato da Amarcord, ma “è strano, nel Caffè La Galleria [dove era ubicato il bar che si vede nel film, ndr] non esistono segni o allusioni del tipo ‘questo bar era frequentato da uno dei grandi della settima arte’, come accade, ad esempio, a Parigi, a Les Duex Margots, dove ci sono targhe che confermano che Sartre e Simone de Beauvoir si incontravano qui o a Lisbona, al Martinho de Arcada, che esalta Fernando Pessoa come un cliente molto speciale”. Sintesi amara fatta da occhi oltre atlantici: “in nessuno dei luoghi legati alla storia personale dell’artista italiano, come la casa di via Dardanelli 10… ci sono targhe allusive, didascaliche, ad eccezione del Grand Hotel”. Insomma, pare che, al di là del caravanserraglio della politica, la ferita tra Rimini e Fellini sia ancora aperta, suppurando amarezza e un tot d’ignoranza. Il viaggio della giornalista, dopo aver interpellato Paolo Fabbri, semiologo di platino, ultimo direttore della ‘Fondazione Fellini’ – “a confronto con altre città di cultura, noi diciamo che Rimini è turistica e che per questo la sua memoria è a breve termine, stagionale”, dichiara, cinicamente, il superprof – termina sulla tomba del regista, all’ombra della Grande prua di Arnaldo Pomodoro. Nel 2018 sono 25 anni dalla morte di Fellini. Allora, era il 1993, Sergio Zavoli disse che Fellini, attraverso i suoi film, ci insegnava a “vivere non solo di disincanto, rassegnazione e resa, ma altresì della grazia di sentirsi, attraverso l’arte, un’umanità che vuole farcela anche sognando”. Ora, 25 anni dopo, quella tomba sembra un sigillo perentorio sulla bocca della cultura italiana. Un po’ mortificante.
Davide Brullo