05 Febbraio 2018

“Bisogna rimanere, almeno per qualche secondo, con niente, appesi”: dialogo con Francesca Serragnoli, una Emily Dickinson sul comodino

Poi, con lo scoccare dei denti, leggi questo. “Non è ridere incidere col coltello/ una bocca morta./ Dentro questo vietnam girato a spalla/ lascio all’abatjour indicare/ un fioco pallore di luna/ attendere bambina piegata sul prato/ i grilli uscire dal buco del cuore”. Ecco. C’è tutto. Tensione sintetica, epigrafica, schianto tra gli assoluti (“Non è ridere incidere col coltello/ una bocca morta”); immagini canoniche, prone alla tradizione (la luna, la bambina, il prato: elementi scabri, primi); associazioni spietate, che pretendono l’adesione dell’intuito, non i gradini della ragione (“Dentro questo vietnam girato a spalla” è uno degli endecasillabi più belli che abbia letto, il fiorire di una salutare fucilata); immagini deliziosamente surreali (i grilli che escono “dal buco del cuore”). C’è tutto. Non c’è bisogno di altro. Siamo di fronte a un grande poeta, anzi, a un poeta, ogni superlativo è esubero e rococò. Basta l’opera, mica il diktat della didascalia bio. Francesca Serragnoli. Capisco. Per chi ha bisogno della mappa lirico-geografica. Bolognese, classe 1972, tra i rari poeti italiani di oggi, quanto di più vicino ci sia – sempre per orientarvi, con un po’ di sgarbo – a Emily Dickinson in Italia. Una Emily Dickinson sul comodino di casa, ecco, l’ho detta. Riconosciuta da subito come un talento in quarzo (nel 2000 Davide Rondoni la installa nell’antologia militante I cercatori d’oro, nel 2004 il duo Cucchi-Riccardi la sceglie per Mondadori in rappresentanza della Nuovissima poesia italiana), Francesca fugge dagli onori, se ne frega degli allori, sa che il poeta vive – vigorosamente – tra gli stenti, tra le estati della visione. La sua opera è raccolta in due libri e mezzo: Il fianco dove appoggiare un figlio (Raffaelli, 2003), Il rubino del martedì (Raffaelli, 2010), Aprile di là (LietoColle, 2016: quest’ultimo libro è anche un repertorio antologico dei primi due). Questa è una donna che infiamma, Francesca, che andrebbe cercata nei bassifondi della vita dove si fionda, a scuoterle la testa per chiederle qual è il segreto dell’esistenza e lo sciabordio della morte. Ci si sente nudi, di fronte a Francesca, nel convento del suo smaliziato pudore. E vorresti che fosse lei, per sbaglio, a gettare i dadi che siglano il tuo destino.

Allora. Perché la poesia? quando è nata in te, perché?

francesca serragnoli il fianco5171“Mi verrebbe da rispondere come si fa quando si organizza la scaletta per il tema in classe, con un grande enorme esercizio di analisi e sintesi, esorcizzato dal prete benedicente della nostra epoca, il politically correct. Parto dalle esperienze più semplici, iniziali. L’unica ventata reale, fredda che sento, a ripensare agli inizi, è quella che dà il rumore del taglierino quando divide lo scarto da ciò che rimane. Ecco, avrei potuto buttare via tutto, rinunciare. Tutte le poesie che ho scritto potevano non essere scritte, potevano partecipare, in un certo senso, alla mia esistenza, senza tuttavia mai venire alla luce, alla abatjour di qualcuno. Eppure, se mi guardo indietro, ho iniziato da un contraccolpo banale di cielo al tramonto. Un banale retorico blu elettrico che guardavo dietro la stanza di casa mia. La quasi notte vorrei chiamare così il mio prossimo libro, anche in segno di gratitudine verso quel blu che ancora oggi mi attrae come un paradiso velato. Bisogna fare una grande esperienza di solitudine, dolorosa. Rimanere, almeno per qualche secondo, con niente, appesi. Le prime emozioni sono mostruose e dentro ti sembra di avere una cloaca o un abisso, affascinante e pericoloso. Si rimane colpiti dal sé, come un altro, in buona o cattiva compagnia. È la prima volta che mi viene di citare questa espressione di Rimbaud, con timore e tremore, non per il plagio. I maestri ci guidano, bisogna anche vedere dove. Tornando agli inizi, devo ringraziare la scuola che mi aveva dato un’idea dei poeti come marziani, mostri sacri, intoccabili, inavvicinabili. Devozione e distanza, rispetto e nessun desiderio di emulazione. Mi ero iscritta alla facoltà di lettere solo perché avevo intravisto nella letteratura forse un grande e sfocato panorama, qualcosa che poteva permettere anche a me di percorrere possibili direzioni. Intravedevo ospitalità, anche nella povertà di conoscenze da cui provenivo. Ero attratta dalle cose, non dalla letteratura come espressione e con la quale confrontarsi. Solo con l’università ho iniziato a scribacchiare roba stranissima, come un elefante sui cristalli. Conservo qualche centinaio di testi a cui sono affezionata come si è attaccati alle bambole consumate e che grazie a Dio non ho mai pubblicato. Il primo libro dopo 13 anni e tanti ripensamenti e indecisioni. Chiesi proprio a Luzi se fosse stato il caso di fare un libro di poesie e che cosa differenziava un libro da un elenco di testi in ordine più o meno arbitrario. Gli chiesi proprio se era il caso che continuassi a scrivere o smettessi. Sentivo radicale la separazione. Non mi interessava partecipare al mondo della poesia con un diploma ‘grazie di aver partecipato’. Non conosco il motivo, ma quel primo libretto lo sentivo sospeso in un pericoloso equilibrio fra la vita e la morte. Mi rispose così: ‘tu puoi sentire la realtà diversamente da come la senti?’. No… risposi come mi avesse chiesto il mio nome. Fine della conversazione. Perché la poesia? Oh… vorrei poter rispondere mettendo di fianco la poesia a quel blu elettrico e non vorrei rispondere, solo guardare. Scrivo pochissimo, tre libri in quasi 30 anni. Ma per quel poco che ho potuto vedere voltandomi o alzando gli occhi, a volte, ancora oggi, senza scriverlo da nessuna parte, mi dico: vale la pena vivere. Lo stupore, il dolore, la solitudine, la radicalità etc. chiaramente non bastano. Non bisogna usare contraccettivi per la poesia, non so esattamente quali siano. Può non nascere niente, non basta la volontà, la tecnica, la lettura, i bei paesaggi”.

Poi. Chi sono i tuoi maestri, chi hai letto che ti ha formato, chi ti ha cambiato la vita, perché?

“La prima poesia che ho letto è stata la Dickinson. Mi affascinava quel vuoto che sentivo ad ogni gradino. Qualche surrogato dell’immensità. Quando tiri un sasso davanti e non lo senti cadere. Quando tiri un sasso dentro e non lo senti cadere. Poi mi sono innamorata di Anna Achmatova e Marina Cvetaeva. Non potevo separarmi dal libro dell’Achmatova. Devo essere sincera, non posso dire di avere avuto dei maestri veri e propri. Di ogni autore letto ho amato l’indimenticabile. Ungaretti è ancora la sponda oltre la quale, se mi dovessi sporgere, credo non rimarrei in piedi. Ogni poesia che amo è un maestro, una corda tesa dove (mi sembra) di camminare sul vuoto senza cadere. Cosa che piacerebbe anche a me, quando leggo i miei testi. Poi sono passata a desiderare i maestri del pensiero. Non per diventare una brava allieva di elucubrazioni mentali. Non credo nella trasposizione del pensiero in poesia. Mi sono avvicinata a San Tommaso, grazie a Jaques Maritain perché mi affascinava la grande struttura di pensiero. La poesia in realtà non c’entra con questo. Non correggo le poesie quando mi mancano i versi compilando il frammento giusto. La poesia non è comandata dal pensiero, ma da un’intuizione. Ha una sua anarchia compositiva. È la poesia che ha generato in me il bisogno del pensiero. Da questo punto di vista la poesia è primitiva, non compilativa. Nonostante abbia studiato teologia, posso con certezza affermare che la mia poesia non è per teologi. Sono convinta che i maestri migliori non siano quelli della tecnica, ma coloro che, prima di essere autori, sono persone, che ti aspettano senza fretta. Non sto parlando di maestri di vita o di guru de’ noantri. Il maestro non è quello che ti corregge un verso, ma colui che muove dentro di te i fili, muove o riordina. È un discorso complicato in cui il passaggio dalla banalità ad un soccorso interiore, rimane sempre segreto. Poi, per non concludere, io sono ancora in cerca di maestri. In ogni cosa che leggo cerco in realtà il maestro. Ma proprio un maestro. Cioè cerco anche l’affetto e la compagnia seria nella solitudine. Come capire se uno è un maestro? Quando ti senti chiamato per nome. Quante volte vorrei dialogare con chi non c’è più. Posso testimoniare che al fondo di ogni vero atto letterario c’è una forma di carità. La gratitudine e non forse la stima, è la prima cartina al tornasole di ogni fruttuosa lettura”.

Inoltre. Perché bisognerebbe leggere i poeti, cosa hanno da dirci oggi? Come è messa oggi la poesia in Italia?

aprile“Non lo so. Sicuramente per rendersi conto di cosa viene scritto e pubblicato ogni anno, si dovrebbe andare in pensione e dedicare ogni giorno alla lettura di un libro. Oltre poi al fatto che per comprare tutti i libri che escono ci vorrebbero più soldi che per le sigarette. Non gestendo premi o luoghi per recensioni, mi arrivano davvero pochi libri, quelli degli amici e poco altro. Non potrei certo fare un’antologia. Ognuno ha poi un suo canone certo, come sostiene Steiner. La poesia in Italia appare come una partita di calcio con tanti palloni in campo e tante piccole squadre. Ognuno gioca e tutti cercano di tirare in una porta. Ma non si sa quale sia quella giusta. Gli arbitri fischiano tutti insieme e non si sa per cosa. Boh. Io ho deciso di spegnere la televisione. Quando trovo un libro di poesie lo tengo vicino alla scrivania per uno o due anni. È pesante e non lo archivio facilmente nell’ordine alfabetico della libreria. Per il resto sono idealista. Chi scrive veramente sente il bisogno di leggere, sente la propria poesia insufficiente, sente una mancanza, ha bisogno che qualcuno gli dica che la poesia esiste, che è possibile. Io non credo che ci sia bisogno di una educazione a questo. La sopravvivenza in poesia non lascia scampo. Poco tempo fa avevo l’impressione di dovermi fare spazio in una grande lunga riviera romagnola, di dover prendere posto con il mio ombrellone e la crema protezione 50. Ora non me ne frega più niente. O nella spazzatura o nello spritz si può trovare tutto. Il dilemma sul primo libro, essere o non essere, è ancora lo stesso. Il sentirsi grassi e fuori posto, per fortuna ancora è così. Il messaggio della poesia, cosa ci dice oggi? Per tirare l’acqua al mio mulino, il messaggio è sempre criptato. Codici da decifrare. Non mi dispiacerebbe passare la vita a cercare di decifrare misteriosi messaggi. L’esercito delle dodici scimmie è un buon film sulla poesia vera. Usare la poesia per comunicare qualcosa? Una aberrazione. Almeno per me. Potrei comunicare e dire oggi mille idee, posizioni, religioni, parlare per ore. Ancora mi stupisco di quanto sia lontana la poesia (forse solo la mia) da ciò che potrebbe intendersi per comunicazione efficace. La poesia certo dice qualcosa, ma la sua gestazione non è comandata dal desiderio di comunicare qualcosa. Non è una pubblicità alle proprie idee. Io non so ancora il significato preciso di alcuni miei testi. Spero che sia il segreto di cui parla Ungaretti”.

La marginalità civica del poeta, la sua invisibilità sociale, sono necessità all’opera, trionfo del menefreghismo, una stortura culturale?

“Rigiro la domanda. Il rischio, è vero, è sempre quello di fare i fighi, fregandosene, facendo i superiori. Fuori dai giochi, per non prendersi la responsabilità di correggere le eventuali storture o sporcarsi le mani. Oppure fare i tiepidi. Dio ce ne scampi. Credo che il ‘poeta sociale’ sia una stortura. Se la poesia è poesia credo agisca ad un livello non mediatico, ma tellurico. Non è presunzione, ma si tratta della differenza fra potare una siepe o arare un campo. Il soldato vincente (odio la guerra, è solo per fare un esempio) è quello ben mimetizzato. Nella nicchia si covano le uova. Il poeta oggi è una figura che non esiste a livello pubblico, ma non è importa. La poesia ha ancora quella grazia di rivolgersi quasi personalmente. Cosa ne sappiamo del cuore di qualcuno che legge un testo, di sera e gli si muove qualcosa dentro, gli si rimescolano gli abissi. La poesia ha una forza mostruosa, solo le grandi dittature l’avevano capito. Risvegliare l’uomo nell’uomo è una rivoluzione. La poesia inizia da vicino e la problematica mass mediatica deve avere la stessa inquietudine di quelli che trattano di faccende religiose: ma il messaggio religioso si trasmette con la tv o su internet? Eppure non si può fare la comunione su internet eccetera. Chiaramente in senso analogo. Inoltre la poesia ha sempre mendicato attenzione. I social network sono pieni di richieste di attenzione, nati da questo umano desiderio. Simone Weil scriveva che la frase più crudele che un uomo può dire ad un altro è ‘tu non mi interessi’. Se realmente la nostra civiltà avesse come cardine questa posizione, i poeti sicuramente pagano il prezzo più alto. Non voglio fare sociologia e neppure scavalcare l’ipotesi della troppa scrittura a fronte di ciò che vale davvero la pena di leggere. Come si dice in questi casi sarà sempre il tempo a decidere, ma indubbiamente il dato di trovarci di fronte a una moltitudine di autori può far venire in mente l’idea di un popolo. Se non possiamo salvare tutti i testi, salviamo il desiderio di essere riconosciuti, ascoltati, considerati. Non so se sia un bene o un male, ma si soffre quando un vicino di casa nemmeno dice buongiorno. Non ci si scambiano più torte o uova, ma libri di poesia. Non voglio con questo paragonare i poeti ai testimoni di Geova. Cosa c’è dietro questa enorme domanda di visibilità, scrivendo spesso testi sugli invisibili, i dimenticati, i dettagli?”.

Dove è finita la critica letteraria? Dove si fa poesia, oggi? Dove la trovi, tu, la poesia?

“Anche su questo ho posizioni abbastanza banali. Se il critico non vede l’ora di dirti di leggere un buon libro, la stanchezza e la noia corrompono il clima. Credo che manchi l’entusiasmo. Il troppo do ut des ha generato catene di sant’Antonio infinite e inutili. Non parliamo poi di qualche lettura critica nella quale cogli l’auto-critica positiva. Si antologizza per sdoganarsi come critici, non per far vedere. Io non sono del mestiere, mi limito a segnalare, per il poco che ho letto, talvolta la noia. Non la noia delle scritture, quelle sono perfette ed esercizi di vera capacità o erudizione. Se poi l’entusiasmo manca perché i libri non lo generano, le colpe sono da rivedere. Anche se, basterebbe, rispolverare libri usciti cento anni fa. Quando leggo saggi e interventi di Ungaretti non cerco una sistematica valutazione dei suoi contemporanei, ma una nuova luce su Leopardi, o perché Mallarmé ha segnato così profondamente la sua poesia. Come poi sostenere la bellezza di un testo poetico, in un certo senso giustificarla, forse è complicato. Non credo sia necessario. Si vede, si percepisce la differenza fra una persona innamorata e un vecchio matrimonio con la letteratura, stanco e insoddisfatto. Io la poesia l’ho trovata quasi sempre per caso, mi ci sono imbattuta, saltando sulla sedia. Poi, non scrivendo da nessuna parte, avrò fatto grugniti o salti indicando qualcosa a qualcuno, come una scimmia. In segno di gratitudine. Non faccio distinzione fra contemporanei o autori del passato, italiani o stranieri. Leopardi non potrà mai mettere un like, ma meriterebbe altre recensioni”.

Cosa scrivi? Scrivi?

“In realtà poco e niente. Ad esempio mi sono recentemente imbattuta, più correttamente, incagliata in un testo poetico che non riesco a concludere. È una lotta impari, che genera l’unica vera grande frustrazione. Mi genera le classiche domande: e se non riuscissi a scrivere più? Ogni vera creazione, non certo dal nulla eh, ha dentro l’eguale proposta di non esistere. Da che cosa dipende la poesia? La mia richiesta, al di là dei risultati ovviamente, credo sia alta. Il rischio è togliere, piallare fino ad arrivare al nulla. Se la creazione (o invenzione) poetica non può essere dal nulla come quella di Dio, può almeno vantare di dirigersi verso il nulla. Piatto amaro. Ho però un gruppo di poesie dalle quali mi voglio separare che forse chiamerò La quasi notte. Ogni libro o libretto è sempre e solo un periodo, con un suo nucleo incandescente. Per riuscire a concluderlo, occorre togliermi il dubbio se sia possibile o impossibile. Davanti a questo muro, cerco i versi che sono passati oltre come la testa di un gatto in un buco stretto. O cerco qualcuno che, alla fine di questo verso, apra una porta, come ha scritto Walcott. Ma sento, drammaticamente, che non dipende totalmente da me. E spero, come ha scritto Rimbaud, che la bontà, per riprodursi, non debba fare giri interstellari”.

 

Gruppo MAGOG