Imperversava Hemingway, fautore di quella scrittura cruda, netta, essenziale, ‘in levare’. Lei imponeva l’insegnamento opposto, riassunto, grosso modo, in questo claim: all adjectives and no verbs. Fertilizzare un testo di aggettivi – abolire la bramosia del verbo. Era il 1959, Hemingway si sarebbe sparato in bocca due anni dopo, Elizabeth Smart lavorava per la Crawford’s Advertising Agency, la più importante agenzia pubblicitaria d’Europa: con il grande scrittore condivideva la passione per gli alcolici a precipizio.
Gli amici la ricordano “spettinata, bella, trionfalmente romantica, dagli occhi lucidi e la bocca obliqua” – da tempo aveva messo al giogo il genio poetico per la scrittura commerciale. Spesso arrivava in ufficio ubriaca. Aveva 45 anni, il padre era uno degli avvocati più noti del Canada, la famiglia godeva di ottimi rapporti con il primo ministro William Lyon Mackenzie King. A Londra, Elizabeth Smart, valchiria dall’esagerata vita, era una celebrità: soltanto un poeta dal talento metafisico, degno allievo di John Donne e di Walter Pater, avrebbe potuto scrivere che un abito da sera era “preciso come un croco”; che un tailleur era “efficace come un diplomatico”; che un cappotto si prestava “complice di una vita frenetica”; che un accappatoio permetteva “imperturbabili estasi, senza fronzoli: è adatto ad ogni abuso”.
In sostanza, smobilitò le convenzioni pubblicitarie degli anni Cinquanta, imponendo una creatività selvaggia e nonsense che preparava la “Swinging London” dei Beatles, dei Rolling Stones, degli Who. Finì per essere la creativa pubblicitaria più pagata di Londra: con i soldi, offriva da bere ai suoi amici, Dylan Thomas, Francis Bacon, David Gascoyne. Lucian Freud, il pittore, cominciò ad abbozzare il suo ritratto – lei si ritrasse: la dea nascondeva draghi, la sua tenerezza conosceva il ruggito e l’arte del rimorso. Il suo libro più celebre – per lei una perpetua ferita aperta –, immane sciacallaggio del Cantico dei Cantici, era inaugurato dai versi più dolenti del salterio: “Presso i fiumi di Babilonia, sedevamo, piangevamo, al ricordo di Sion”. Aveva quattro figli a cui badare. Era sola. La sua Sion s’incarnava in un uomo di nome George Barker, tra i più tormentati e talentuosi poeti inglesi del secolo. Abitava in campagna, i figli glieli accudiva una coppia di pittori omosessuali; per tutti – o quasi – aver piegato il talento alla pubblicità era un disonore, una piaga. Quanto a lei, amava dissiparsi.
Elizabeth Smart, nata a Ottawa, Ontario, il 27 dicembre del 1913, è nota, in sostanza, per un unico, memorabile libro: Sulle fiumane della Grand Central Station mi sono seduta e ho pianto. Pubblicato in origine nel 1945, senza destare urla, diventò un libro ‘di culto’, come si dice, negli anni Sessanta: in un articolo, Angela Carter lo definì “una Madame Bovary elettrizzante, devastata dai tuoni”. Morrissey ne fece il suo libro prediletto, fonte di continua ispirazione: alcuni album degli Smiths – Meat Is Murder, ad esempio – sono intrisi delle parole della Smart. In Italia, il libro uscì nel 1971, per il Saggiatore, nella rutilante traduzione di J. Rodolfo Wilcock; Cesare Garboli ne scrisse come di un “piccolo e struggente capolavoro, percorso da una vena d’ironia tagliente nel cogliere il guizzo di una passione privata, quando l’amore sembra fiammeggiare mai così vivido e in realtà sta morendo”. Il libro, in effetti, è straordinario: sbalordisce per enfiagione retorica, è allo stesso tempo canarino e idra, assonante e assassino, ha l’effigie dell’eros e dell’apocalisse:
“I testi sono privi di senso, sono l’inganno del nemico. Il mio piede ha ballato per sbaglio sull’inerme, e non sanguinò conforto per il mio macello. La mia sofferenza non fu grande abbastanza da mitigare la mia colpa. Dimmi che devo fare per espiare, colombo sull’eucalipto, tu che parli tuonando della vendetta del futuro. Dimmi che questo fiotto è l’araldo della mia meraviglia. Il mio cuore è il distruttore di se stesso. Batte il ritmo velenoso della verità”.
Tutto è trasfigurato, bituminoso di rito, liturgia del corpo nudo:
“Sono posseduta dall’amore e non ho scelte.
Quando la Ford arriva sferragliando davanti alla porta, con cinque minuti (cinque anni) di ritardo, e lui attraversa il praticello sotto gli alberi del pepe, io rimango dietro le tende di velo, incapace di uscire a riceverlo, incapace di parlare, liquefacendomi per invadere ogni suo orifizio quando aprirà la porta. Più tesa verso un unico scopo che l’uccello neonato, tutto bocca con la sua singola brama, chiudo gli occhi e tremo, pregustando il paradiso del contatto reale”.
Si era innamorata di George Barker, il poeta, leggendo i suoi libri, mentre lavorava per la Associated Country Women of the World, aveva vent’anni. Barker, all’epoca, era il pupillo di T.S. Eliot, che per la Faber aveva pubblicato una selezione dei Poems (1935), Clamiterror (1937), Lament and Triumph (1940). Troppo precoce, troppo avventato, con un’insana avversione verso le comodità e il rigore morale, Barker mirava a distruggersi e a replicarsi: morì nel 1991, con quindici figli sparsi tra mogli e amanti.
Quando Elizabeth conobbe George Barker, abitava a Big Sur. Lo inseguiva da anni. Il tramite del loro incontro fu Lawrence Durrell. All’epoca, il poeta insegnava letteratura inglese a Tokyo. Elizabeth pagò il viaggio americano a lui e alla moglie. L’incontro fu letale. Nel 1941 Elizabeth resta incinta del loro primo figlio: gliene darà altri tre. La madre di lei lavora per impedire che il libro della figlia, confessione di un amore obliquo, osceno, sia pubblicato in terra canadese. A Londra, Elizabeth Smart e George Barker vivono tra gli slums degli artisti, bevono fino al massacro di sé, urlano, si prendono a morsi.
Dalla fine degli anni Sessanta, Barker si legò a Elspeth Langlands, giornalista scozzese più giovane di lui di quasi trent’anni, che gli darà cinque figli. La Smart, nel frattempo, lavorava come redattrice principe per la rivista femminile “Queen”, esagerandone il linguaggio. Spesso non firmava gli articoli, per eccesso d’audacia. In un servizio sugli abiti da indossare in vacanza urla: “Sfaticate svegliatevi! È tempo del peana della follia, delle disinibite manie da grandeur, prima che il lavoro ricominci ad annichilirvi”.
Il suo piccolo, ardito capolavoro, fuori dal tempo, rotolo biblico recapitato negli struggenti Sessanta, recava, va da sé, lo stigma della tortura, il miracolo del martirio:
“Tutte le mie stelle polari sono diventate stelle filanti. La mia mente galleggia come un relitto trascinato dall’inondazione generale. Nessun morboso adolescente cercò mai più disperatamente di aggrapparsi a una conclusione melodrammatica. Il mondo sale ruggente”.
Con i ricavi delle vendite, Elizabeth si comprò un cottage nel Suffolk, soprannominato “The Dell”. Ritornò alla scrittura, dopo decenni di assenza, con The Assumption of the Rogues and Rascals (1978) e una breve raccolta di versi, A Bonus (1977). A suo modo – anche per le sue rinunce – diventò un mito, una sorta di deità marziale: dal 1982 esercitò il ruolo di scrittrice residente presso la University of Alberta. In fondo, le mancava il Canada. Uno dei suoi allievi, Dale Hrabi – scrittore, editor del “Wall Street Journal” – ne traccia un ispirato ricordo su “The Walrus”:
“Ero sufficientemente riservato quando entrai per la prima volta nel suo ufficio, immaginando che fosse la tipica scrittrice con un pedigree di razza. Era seduta dietro la scrivania. Fui colpito dai capelli: un caschetto leonino, selvaggio, nulla a che vedere con la solita permanente delle intellettuali di quella età. Il sorriso era abbagliante, disarmava – inghiottiva. Sulla bacheca, alle sue spalle, era affisso un foglio: Fai lavorare il Verbo. Quella esortazione, mi spiegò, imponeva la ricerca di verbi forti, che non abbiamo bisogno dell’amministrativo supporto del complemento. Pontificare, diceva, più che ostentare pomposamente. Nonostante la riverenza per il verbo esatto, preferiva gli aggettivi. Purché fossero turbolenti”.
Morì a Londra nel 1986, dopo un attacco al cuore. Non riusciva a innamorarsi – non riusciva a scrivere. Si immolò. Il cuore incenerì tutto il territorio, fino a rovesciarsi, come da una tazza. Tra fuoco e acqua, ormai, era indistinguibile il fruscio.
***
Gratis
Quel giorno: avevo
terminato un pezzo
per un’oscura rivista
e l’ho imbucato
Una specie di stellata
euforia mi ha pervasa:
per la prima volta
dopo molto tempo qualcuno
si è accorto di me, per strada
Ero sporca, con gli abiti
sdruciti, bombardata di occhiaie:
inadatta a flirtare. Eppure
abitavo la completezza, ero esatta
di un atto appena compiuto:
la consumazione, ecco,
quel senso di libertà e forza
che ti fa splendere
e obbliga all’impermeabile
il crollo
Poteva sembrare amore
o una favolosa vacanza
già colma di rimpianto
ai ragazzi giù in Berwick Street.
Credo sia un mistero:
mentre scrivo mi pare
violenza, abuso del sé,
stortura, disperazione asociale.
Eppure, lo faccio – lo faccio.
Tutto al mondo
si ripete con una
enorme, vacua gratuità.
*
Povera gente
Infierisca un sano infarto
su questo orribile mondo:
diciamo: o povera gente
come potete essere così assurdi
traviati, abusati, abulici nell’inganno?
Con grazie salvifiche che non lasciano traccia
vagabonde sul liquame di bisogni di fango
pari a merda su cui lampeggia amore
anno dopo ciclico anno
l’indefinibile dio che vola mira a sparire.
Le emozioni sono conficcate nelle loro teste
da giudici, distorte fino a diventare formule matematiche:
soltanto un maldestro scienziato dotato di Dio lo sa
mentre la sua bocca in altalena scioglie il cuore del topo.
Chi ci ha fatto credere che qualcuno potesse amarci?
Lontano, nelle nostre infossate ferite, fantomatici ricordi
latrano, visioni lampeggiano nel subliminale
ma l’immanenza incombe, insopportabile: SPEGNI! sibilano.
*
I girasoli di Blake
I
Perché Blake ha detto
“Girasole afflitto dal tempo”?
Ogni volta che li vedo
sembrano dirmi:
è l’ora! Con uno schianto
di cembali!
Veritieri e belli
dichiaratamente deliziosi
nella loro sferica luminosità.
II
Scusami, Blake!
Ora capisco cosa volevi dire.
Il gelo e la tempesta hanno battezzato
la loro delicata luce
e sebbene siano ancora eretti
nulla potremmo dire riguardo
allo sconforto più dei loro
stanchi volti che pendono
disillusi.
*
Cerco di scrivere
Perché sono così terrorizzata
dal confessare a me stessa –
cosa da ammettere in pubblico –
che ho un microbo talento?
Dovrò aspettare sessant’anni
perché la gente cacci fuori il calesse
per portarmi al tempio
con voci trionfanti?
So che non accadrà mai
se non quando sarà troppo tardi
e l’opera compiuta (o incompiuta)
per questo prevarico, insisto,
scavo e districo sentieri
per ogni evenienza:
vai, procedi, continua!
Per avere amore bisogna amare
(questa è l’unica via).
Eppure, malmenata e nuda
ho il diritto di alzarmi e urlare:
Fottiti!, oppure: Diventa il mio schiavo!
Comportarsi in modo poco femminile
restare in uno stato privo di compassione
è la costante disperazione
di chiunque cerchi di scrivere.
Elizabeth Smart