Sartre aveva ragione: Jean Genet era un santo, un commediante, un martire, che restò, come Gide, fino alla fine, il pastore della religione riformata progressista. Ma Antonin Artaud – di cui Sartre non parla mai – è l’attore del teatro della crudeltà, un martire dal lignaggio assolutamente diverso, un santo a cui non possiamo attribuire alcuna Chiesa perché se la prende con Dio stesso e con tutte le religioni, professate o occulte, con l’intenzione fisica di farle saltare in aria.
Un poeta? Certo, ma molto grande, che con le parole crea una coltre sopra piccoli commerci. Un pensatore? Certo, e fondamentale, che nessun filosofo può spiegarci (ancor meno i discorsi accademici). Un teologo negativo? Questo è un eufemismo perché in lui nulla è ideale o astratto. Uno specialista in miti e rituali sciamanici? La sua esperienza personale – soprattutto in Messico – lo dimostra. Un drogato? Non ha mai smesso di usare oppio per alleviare le sue sofferenze. Un pazzo? Se questo vi può rassicurare… Un profeta? Ha vissuto al cuore della barbarie del XX secolo, catturando la propria energia oscura dal sottosuolo dei manicomi (40mila morti, obliati, in Francia, durante l’occupazione, di fame o in seguito a elettroshock). Soprattutto: è stato ritmo, shock, pulsazione, voce, abisso affermativo grafico che non ti abbandona mai una volta che l’hai vissuto davvero.
1792 pagine di taccuini anneriti, ritratti e autoritratti memorabili, improvvisi, e poi lettere, guerra, tortura, protesta, testimonianza bruciante, coraggio perpetuo. Alcuni contemporanei lo capirono (ma mai del tutto, piuttosto: da lontano). Gide, una sera, al Vieux-Colombier, monta sul palco per baciarlo, mentre soffoca. Paulhan è generoso, pieno di cure. Breton è quello che riceve le lettere più belle (ma perché trasformare il surrealismo in una perenne esibizione d’arte?). Paule Thévenin, infine, la fedele tra i fedeli, con cui ho avuto l’onore di lavorare, in clandestinità (in alcuni suoi testi, che si trovano soltanto in Messico, si fa chiamare Marie Dézon).
Tutto Artaud, finalmente, sulla vostra scrivania, insieme ai complici del suo tragico destino, i suoi arcani compagni: Gérard de Nerval, Edgar Allan Poe, Baudelaire, Lautréamont, Rimbaud, Nietzsche. Tutti, come Van Gogh, “mica morti di rabbia, malattia, disperazione o miseria – sono morti perché qualcuno voleva ucciderli. E la sacrosanta massa di idioti che li consacrò come pazzi si è coalizzata contro di loro”. Così continua Artaud:
“Perché non si muore da soli, ma sempre davanti a una sorta di spaventoso concilio, un consorzio di bassezze, di recriminazioni e di acrimonia. E lo vediamo bene”.
Conosciamo davvero Antonin Artaud? Siamo seri: a malapena. C’è troppo da leggere, è ripetitivo, ci sovraccarica di stanchezze e di pulsioni contrarie, non si adatta ai nostri programmi culturali, già eccessivi, in fondo, non fa parte delle novità letterarie, non più di Pascal, tra l’altro, che riteneva l’umana attività qualcosa di misteriosamente innaturale, affetto da sonnambulismo. Eppure, dal 1924 (aveva 28 anni) al 1948 (l’anno della sua morte, strana, a Ivry, dove si era rifugiato, seduto ai piedi del letto, vittima probabilmente, di un’overdose di cloralio iodato), si passa da un capolavoro all’altro. Dalla corrispondenza con Jacques Rivière a Le Pèse-Nerfs, da Héliogabale a Il teatro e il suo doppio, da Artaud le Mômo a Van Gogh, il suicidato dalla società. E poi tanto, altro, di tutto. Scrittura che va oltre la scrittura e trafigge la carta con il suo vertiginoso volto.
Nel 1944 Artaud scrive in una lettera:
“Il pensiero con cui gli scrittori agiscono non agisce soltanto nella parola scritta ma in modo occulto prima e dopo lo scritto, perché questo pensiero è una forza che è nell’aria e nello spazio in ogni istante”.
Rispetto alla nostra epoca, al valore che uno scrittore si assegna nell’oggi, capiamo che per Artaud scrivere, essere scrittori, è qualcosa di particolare, di raro.
Infine, tutto questo si riferisce a una condizione preliminare: capire che “Dio” e la “Società” sono stessa impostura ordita dalla magia nera. Artaud è provato dalla cronaca quotidiana? Ovviamente. Di qui la sua ostinazione a ribadire che non è nato come afferma il registro delle nascite, che non morirà di morte “naturale”, che il suo corpo cristico e anticristico è perseguitato senza sosta da demoni e sortilegi, che è stato aggredito a Marsiglia come in Irlanda. Non ci crediamo, non gli diamo retta? D’altronde, chi ascolta Dio? Nessuno. Ma “io sono Dio”, “io sono Infinito”. Non l’idea che te ne fai, no, quella è niente, vuoto, spreco, merda, “caduta”. D’altra parte, “io sono Antonin Artaud, mio figlio, mio padre, mia madre e me”.
In altre parole: non accetto di fondermi in una “totalità”, qualsiasi essa sia. L’umanità vive in una pulsione incessante di morte, che grava soprattutto su colui che la rivela. In modo dissimulato, ipocrita, menzognero, magari inconsapevole, tutti sono religiosi, mentre Artaud è “irreligioso incredulo per anima e natura”. E dunque:
“L’elettroshock mi porta alla disperazione, mi toglie la memoria, si ingolla i pensieri e il cuore, mi rende assente, un’assenza che si sa assente e per settimane si vede alla ricerca del suo essere, come un morto accanto a un vivo che non è più se stesso, esige la sua venuta e la casa in cui non può più entrare”.
Artaud, o l’estremo dolore sormontato, senza il quale nulla è vero. Proviamo a sentirlo.
Philippe Sollers