20 Giugno 2022

“I poeti sono persone terrificanti”. Vita estrema di George Barker

“I poeti sono persone terrificanti con cui vivere”, gli scrisse una delle figlie, quindicenne. Ne aveva avuti quindici, tra l’altro, di figli. Sedici, in verità, se contiamo il figlio della vergogna. Il primo, il primogenito. Avuto da una ragazza neanche maggiorenne, Jessica, poi dato in adozione: per riparare al danno e alla colpa, allo stigma sociale, il poeta la sposa, giovanissimo.

“Credo che la responsabilità – e l’onore – di un poeta sia quella di affermare l’umano principio della perversione… in fondo, la natura del poeta è anarchica”

aveva detto, semidimenticato, imbarbarito dall’alcol, come sempre sfuggente, prepotente, eccessivo: sapeva la regalità dell’ira, i toni dell’amore, aveva vissuto da poeta, disadatto a tutto. Alternava toni mistici a Benzedrina, amava il verso involuto, fino al balbettio, i giochi di parole, la mania scaltra del verbo. Non voleva essere compreso, semmai adorato. Fu un assoluto fenomeno, George Barker, l’estrema promessa della poesia in lingua inglese – fece di tutto per annientarsi, procreando; riuscì nel suo intento. Eppure, William B. Yeats lo canonizza nell’Oxford Book of Modern Verse (l’ultimo poeta, il primo del nuovo mondo lirico); Thomas S. Eliot lo adorava, fece di tutto per supportarne il talento, sovrastante, carnivoro, e nel 1935 pubblica per la Faber i suoi Poems. Barker aveva appena compiuto 22 anni, la precocità esplodeva in versi spesso miracolosi: pubblicò moltissimo per il massimo editore di poesia in UK, libri dalla bellezza inconfutabile e rapace, Calamiterror (1937), Lament and Triumph (1940), Eros in Dogma (1944), A vision of beasts and gods (1954) e giù, giù, fino a The alphabetical zoo (1972) e Villa Stellar (1983).

Tendenzialmente di sinistra, si trovò a insegnare letteratura inglese all’università di Sendai, in Giappone; aveva mollato la scuola a quindici anni, percorrendo un disastroso curriculum accademico. Nato nell’Essex il 26 febbraio del 1913, figlio della classe popolare, malsopportava i poeti alla moda, abbienti, sagaci, come Auden, “dietro la sua poesia vedo sempre un dito interrogativo, l’indice inquisitore, che scava per scoprire i miei antecedenti, la mia dichiarazione dei redditi”, diceva. La parentesi nipponica – percorsa, più che altro, per estro esotico, e per scappare dalla moglie – durò poco: attraverso Lawrence Durrell, Barker scoprì di avere una ammiratrice bella, ricca, complicata. Si chiamava Elizabeth Smart; si conobbero a Tokyo, si frequentarono negli Stati Uniti, si amarono con atrocità reciproca. Elizabeth donò al poeta quattro figli; il poeta fornì a Elizabeth ottimo materiale umano per un libro, Sulle fiumane della Grand Central Station mi sono seduta e ho pianto, pubblicato nel 1945 e divenuto immediatamente ‘di culto’: in Italia lo ha tradotto J. Rodolfo Wilcock; Morrissey ha confessato che è la fonte di diverse canzoni degli Smiths.

Amava bere e menare le mani, Barker: un’amante gli fracassò i denti tirandogli un posacenere in faccia; un’altra gli strappò il labbro a morsi. Un giorno, il poeta fece un falò delle sue opere: un critico aveva osato disprezzarle, e Barker, scosceso in una bulimia d’abisso, divenne folle. Voleva fare scempio di sé. Il malaugurato amico che tentò di sedare le fiamme, fu preso a badilate. “Non ha mai fatto nulla per promuovere se stesso: non frequentava le feste dei letterati, scriveva in modo troppo arguto e complesso per appartenere a una ‘scuola letteraria’”, ha dichiarato la seconda moglie, Elspeth Langlands, scrittrice, morta quest’anno, un paio di mesi fa. Era più giovane di Barker di quasi trent’anni, gli diede cinque figli. Quanto a lui, preferiva scrivere insieme ad Anaïs Nin e a Henry Miller, accoglieva con gioia le accuse di oscenità, nel 1983, al “Sunday Times”, disse che “le donne devono essere belle, un’autentica società civile abbatte le femmine brutte e stupide”. Sortirono polemiche, il poeta si diceva cattolico, e ci tenne a ricordare agli indignati, indigenti d’intelletto, che con il suo parroco era stato chiaro: “ho infranto tutti i comandamenti tranne il sesto, ‘non uccidere’”.

In Italia, George Barker è del tutto intradotto: l’oscurità della sua poesia e una certa congenita pigrizia italica lo rendono inviso alle dinamiche editoriali di qui. Eppure, per dire, Barker in Italia ha scritto (“Le fattorie sbocciano come fiori/ il credo dell’ulivo/ sancisce la civiltà/ di uomo e panorama”) e vissuto (dal ’59, con Dede Farrelly, la moglie di un amico). Salvatore Rosati, in una nota enciclopedica, ha scritto che George Barker “differisce molto da Dylan Thomas: inebriato anche lui dalla parola come suono, ne è, assai più spesso del Thomas, sopraffatto”. Cecità tipica di chi non evade dalla rima “sole/cuore/amore” e da una poesia socialmente utile, trita, da tribuna antologica.

Diventò, come è ovvio, un ‘personaggio’: violento, violato, interpretava la poesia come l’atto di un istrione, di un vampiro, di un conquistatore che fa razzia della capitale illustre per marmi e la fugge, in un ardore di boschi. Robert Fraser gli ha dedicato, nel 2001, una biografia, The Chamaleon Poet: A Life of George Barker. Nel 2008 Peter Wilby gli ha dedicato un brillante ritratto, Truly, madly, deeply, pubblicato dal “Guardian”, in cui scardina l’oblio che tiene in ostaggio Barker.

“A Loughton, nell’Essex, una targa blu, appesa a una modesta casa bifamiliare, annuncia che lì è nato George Granville Barker, poeta, 1913-1991. Non è un luogo di pellegrinaggio. Barker è un poeta che ricordiamo a malapena: quasi nessuno lo legge, gran parte delle sue opere è fuori catalogo, nei reperti di storia della letteratura è appena menzionato. Eppure, non è un poeta minore. Il suo lavoro è mirabile, intellettualmente stimolante, molto originale. Echi di Blake, di Verlaine e del suo contemporaneo Dylan Thomas attraversano l’opera di Barker. A 22 anni era un fenomeno letterario. T.S. Eliot lo credeva un genio: accettò i suoi primi testi sul Criterion, gli commissionò un libro per la Faber, che dirigeva, convinse diversi amici facoltosi a sostenerlo. Yeats lo considerava il poeta più autorevole della sua generazione, più grande di Auden (che Eliot, al principio, rifiutò), paragonabile, per ‘invenzioni ritmiche’, a Gerard Manley Hopkins. La maggior parte dei critici dell’epoca pensava che il giovane Barker fosse assai più talentuoso del giovane Dylan Thomas il quale, follemente invidioso, classificò le poesie del rivale come ‘monologhi masturbatori’… Se preferite i poeti che vivono in modo selvaggio, irresponsabile, pericoloso, beh, Barker è il poeta adatto a voi”.  

Un poeta come lui – oscuro, molteplice, aggressivo, corsaro – non ha il pedigree adatto ai tempi odierni, educati, informi, bene informati, vili. “Non ha mai voluto far parte del canone – era fiero di essere estraneo a tutto”, ha detto Anthony Astbury, che ha curato i Poems di Barker per Greville Press (2008). Morì scrivendo, Barker: l’ultimo libro, Street ballads, esce nel 1992 come sempre per la Faber & Faber, editore di cui è stato una colonna. I tempi cambiano, si sa: dopo l’edizione dei Collected Poems (1995) Faber ha preferito tenere ai margini un poeta ingombrante, aggressivo, magnetico.

George Barker muore il 27 ottobre del 1991, è sepolto nel Norfolk, a Itteringham. Vi abitano un centinaio di persone, la chiesa è isolata, meravigliosa, in mezzo agli alberi. Nel cimitero non è raro intuire il cervo. “In fondo, era un uomo gentile, pieno di amore”, dicono. La lapide riassume la vita estrema del poeta in modo perentorio, c’è scritto: No Compromise.

***

A mia madre

Prossima, dolce, la più amata, la più lontana,
la trovavo, di solito, sotto la finestra,
sdraiata, enorme come l’Asia, dalla risata sismica,
gin e pollo fritto indifesi tra le sue membra d’Irlanda,
irresistibile come Rabelais, assai tenera verso
cani sciancati e uccelli mutilati, intorno a lei –
lei, la processione a cui nessuno può star dietro:
fatti basso sciacallo che scalcia intorno a una banda di paese.

Non gli importa del bombarolo, non ascolta le minacce
per non mollare il gin e svignarsela in cantina,
ma resta lì, immota, al tavolo in mogano, come una montagna
che soltanto la fede può smuovere, così le rivelo
il mio credo intatto e il mio amore per dirle:
passerai dal lutto alla notte,
dal mormorio funebre al pettegolezzo del mattino.

*

Voltati, torna in te – per me, sopporta il giorno
amata, scolpita da uno scettro, murata
nella parete a vetro del sonno. Lentamente
sgombri il boreale nell’occhio, annuvolato,
riveli i segreti del tuo ghiacciaio, i premi di mezzanotte
al mondo dallo sguardo verde e a me. Il peccato
cola nell’aria rarefatta del risveglio,
la mattina annuncia la fine dell’amnistia
il letto è il regno del serpente. Tua madre
fissa con occhi di colomba la notte imperdonabile
sospira e precipita nell’innocenza mentre tu
elevi un monumento scintillante nel suo oceano d’amore.
Guarda in basso, Ondina, il tridente che ha trafitto
i figli sullo scoglio della vanità. Vaga nel mondo
ferito dallo scettro, obnubilato, idiota, amato,
voltati verso il tempo e sopporta il giorno per me.

*

Canzone d’estate

Ho mirato al mio cuore per scrivere
e lì ho trovato un deserto.
Ho fissato con più sapienza –
dietro ogni parola il latrato
della iena disperata.

Grande sole, immenso sole d’estate
torna al tuo fattore:
non sarò io a ricreare
il giorno che si spezza, il cuore derelitto
per un dolore vasto come la Cina.

Mio unico, mio unico, mio solo amore,
nascondi il viso in una foglia,
lascia che la lacrima cada, e arda
lo stupido cuore immemore:
tutto è dolore, dolore ovunque.

Grande sole estivo, regale sole d’estate,
torna al nulla, alla primizia,
al cucù dalle nuvole, felice terra lontana
dove l’amore è vero amore e
il vero amore dura per sempre.

*

Calamiterror

I

Vagabondo nel Lincolnshire, il giorno è un prato,
giorno dopo giorno, forse dopo un mese, sdraiato, di notte,
l’incipit di settembre, amministro un mistero,
la luna esegue un gioco di prestigio imbarazzante,
lo so, avviene l’evento straordinario, calamità-terrore
voltanti e incontra la montagna che cala su di me
come polvere morta dardeggia il terrore
rivela la statura della massa cui appartengo.

II

Un tempo la montagna era fatta della mia stessa ombra
collassa su di me, mi seppellisce
futuro sminato dal presente
fallisce atroce e all’indietro. Scarpate
sgretolano, precipitano, mi afferro
allo scintillio agonizzante degli anni, rovinano
le macerie, tempo che sferraglia in rami
la vita lacerata urla e latra dentro di me.

III

Vagabondaggio sui prati del Lincolnshire
montagna che non vomita volti.
Ozio come Ila sul fiume babilonese
ammira l’arpa sul salice ma non si accorge
della maschera lucente sospesa sull’abisso
così, eterno affogato, svanisci. Lo so.
Vago di notte e ammiro la montagna
la luna ha creato il mio mostro.

*

L’autentica confessione di George Baker

I

Oggi, ricoverato per un’influenza,
inizio, non avendo niente di meglio da fare,
questa autobiografia che termina a
metà della mia vita – ne sono felice, ne ho abbastanza.
Oh Amore, che sanguinario disastro se
mi guardo indietro, elettrizzato e sobrio,
e vedo la vita intemperante che ho fatto
dalla tolda di questo ottobre temperato.

Al millenovecentoquarantasette
tributo il più profondo rispetto,
perché durante quell’anno mi è stata
concessa una rivelazione sull’altro sesso.
Vittima, fino al quaratasei
del letto dita di rosa grasso di troie;
ora, nonostante svolte e pretesti,
non dormo un singolo minuto.

Compare di mare sull’oceano che sbava,
labile vergine nella notte,
marmaglia di cazzuti, generale in lussuria,
fuggite, fuggite il letto come una piaga:
scappa, accolito d’amore,
il cuscino che seppellisce il cuore –
perché se l’affare ti si drizza
evocherai un cimitero.

Si bramano mentre le stelle reggono
i campi uno impilato sull’altro.
Rosa del mondo, proteggi
ogni verme che si lagna al freddo
dell’amara temperatura dell’ego;
per rinfocolare l’orgoglio isotermico
poiché Amore, a volte, ci preme
verso la parte altruista.

L’atto dell’umana procreazione –
lingua in estro, brivido, grugnito,
sudore, odore di feci,
culla appesa alla vescica,
si inerpica per la scala villosa,
e dal talamo martellante del Tempo,
l’immortalità, fanghiglia bianca,
succhiare la mammella della madre –

L’atto dell’umana procreazione –
doloroso scavo tamponato, feto scodellato,
piccolo uomo lotta per lattare,
latrato, tetta cadente, morsi
e la gomma, la ferita, bacio che sbava:
eccola, mater admirabilis,
seminagione del salvatore, mucca e messia,
vergine e porcello, figlio e vacca:

L’atto dell’umana procreazione –
Oh corona e fiore, Oh culmine
del perfetto amore del creato –
chi posso comparare a te?
eterne farfalle del ventre,
tremolio di gelatina celeste
Oh, miracolo della nascita! Davvero:
siamo desecretati come escrementi.

George Barker

Gruppo MAGOG