[stanza-studio, 8 aprile 2022]
Caro Iosif Brodskij,
io che non ho nemmeno la possibilità di riunire chissà quante persone in chissà quale sala per poter parlare della sorte dello scrittore in esilio, mi limito al fatto di essere a conoscenza, tremendamente a conoscenza, dell’orrore che è in atto in queste settimane in tutta l’Ucraina, mentre centinaia di bambini con le loro famiglie, con le loro madri, fortunatamente sono già stati portati in salvo nelle nostre città italiane, e in quelle del resto d’Europa. Per non parlare delle guerre già accadute o ancora in atto in ogni angolo nascosto del mondo. Non c’è quindi più bisogno di accennare ai Gastarbeiter, o ai boat people del Vietnam; o persino ai pakistani, che ormai da anni fanno la spola quotidiana tra la mia città e quella di Arona, per tentare di vendere rose, in uno spazio-tempo sempre più veloce e sempre più indifferente e barbarico, tra tavolini di straripanti bar e ristoranti vista lago. Ma il discorso sullo scrittore in esilio ‒ ieri come oggi, seppur non a cuor leggero ‒ va comunque affrontato.
Non posso darti torto quando affermi che la letteratura, da sempre, occupandosi dell’uomo in ogni minimo particolare ed in tutte le svariate sfaccettature possibili ed immaginabili, lo salvi, o possa rendere migliori le nostre società con i rispettivi politici e capi di governo. Però, quando tu scrivi «Che a lui piaccia o no, è evidente che i Gastarbeiter e i profughi di qualsiasi specie e colore fanno impallidire il fiore all’occhiello di uno scrittore in esilio», io inizio a dissentire. Poiché mi basta aprire la porta della mia stanza-studio per andare in cucina a prendermi un bicchiere d’acqua, e vedere la mia anziana madre, con la schiena sfasciata che, nonostante tutto, arranca strascinando i piedi, portando bicchieri e stoviglie nel lavello del bagno, essendo completamente fuori uso il tubo di scarico del lavandino della cucina da ormai svariati giorni.
Così come i profughi di tutto il mondo, letteralmente attraversano a piedi paesi e Stati, foreste e montagne a duemila metri d’altezza, morendo assiderati in mezzo alla neve, o nascondendosi nella toilette dei treni per tentar di riuscire a passare la frontiera francese; così mia madre tenta quotidianamente l’impossibile, sfidando il limite della sua malattia.
Il punto è che, mentre tu dici che uno scrittore in esilio fugge dal peggio verso il meglio, io affermo ineluttabilmente il contrario. Sentendomi ed essendo per varie ragioni io stesso in esilio, non scappo. Anzi, rimango sul posto. Per affrontare la realtà e tutte le sue problematiche. Come fecero Pasternak e altri grandi poeti russi. Perciò, in questo senso forse mi sento più russo di te. Ma non travalichiamo.
Non andare né fuggire da nessuna parte, è l’inizio del mio esilio: non ho ideali perché vivo in una società industriale avanzata; ne ho, piuttosto, in quanto leggo e scrivo per sovvertire me stesso dal torpore di un mondo che non mi appartiene affatto, pur attraversandolo quale vagabondo che sono. Non si tratta qui dei due mondi a cui fece riferimento Cristina Campo. Non si tratta di appartenere all’uno o all’altro. Probabilmente io arrivo da chissà quale passato, per avvisare ‒ testimoniando su carta ‒ il lettore o il poeta del futuro, che qualcosa di buono può tuttora accadere nel frangente di qualsiasi deflagrazione. Ho una strana concezione dello spazio-tempo, io. Chissà chi sono veramente…
Però: ebbene sì!, sono tragicomico anch’io. Ma la democrazia, che non ho mai abbandonato, non mi fa da spartiacque per aprire gli occhi su vantaggi sociali e morali che sono tutt’altro che un diritto, nelle strade per le quali sono invogliato o meno a percorrere dal destino che mi si è presentato un giorno lontano della mia fanciullezza, chiedendomi di scegliere e aderire o meno.
Per anni ho dovuto sopportare anch’io, come poeta e come uomo, la mancanza di significato in patria. Dove per patria, innanzitutto, intendo quella comunità che ti dovrebbe accompagnare, qualsiasi cosa accada nella vita, ad una maturazione e a un riconoscimento di te stesso che porta, di conseguenza, a una realizzazione personale. Essa ha fallito. Per anni, ho pubblicato libri, senza la ben che minima possibilità di poterli presentare almeno una volta. Per anni questi miei libri sono rimasti chiusi negli scatoloni a prendere quella polvere che soltanto il silenzio e la vera sopportazione cristiana possono comprendere e, dopo tutto, farci resistere nell’omertà altrui, in quanto si è stati e si è orgogliosamente tuttora, voce fuori dal coro. E tu stesso, caro Brodskij, non sei stato forse tu pure voce fuori dal coro?
Sembrerebbe una banalità, una sciocchezza la mia, se non poca roba. Ma procediamo.
Aver scritto certe cose in letteratura e in poesia, convinto fino all’ultimo a non cambiarle in quanto vere, mi ha portato all’isolamento da parte di quella comunità che tanto diceva e tanto prometteva in termini di umano sentire. Dunque, non sono stato accettato né riconosciuto. La mia inquietudine è rimasta tale. Ed io, a differenza tua, continuo a lavorare per poter vivere, e continuo a scrivere per potermi sempre più riscattare, lottare e realizzare. Il mio lavoro manuale non è superiore al mio scrivere. Ma la vita è consustanziale alla poesia, di cui l’essenza batte nel tamburo del cuore.
Inoltre, su un’altra cosa ti devo dare ragione, Iosif: «… se c’è qualcosa di buono nell’esilio è che insegna l’umiltà». Io non mi rallegro di essere insignificante, di essere lasciato in disparte, relegato nell’anonimità. Che il mio silenzio (quale sparo) parli, piuttosto, è un fatto eclatante. Sì, «quella dell’esilio è la più alta lezione di umiltà, la lezione definitiva». In sostanza, l’esilio è quel qualcuno che ti viene a cercare di giorno e di notte: inviandoti una lettera, spedendoti un libro, bussando alla tua porta, cercando notizie di te, quando tu sacrifichi tutto nel nascondimento per scrivere su un foglio bianco. La poesia ‒ come sosteneva Anna Achmatova, come continuo a dire pure io, e come scrivi tu da quel che è stato il tuo esilio ‒ non è invidia né ambizione. Perché ciò è insulsa ignoranza. Poesia è stare tra la gente del tuo popolo, vecchio o nuovo che sia: l’infinità umana stupisce quanto una parola scritta sul foglio bianco. E la poesia non può che appartenere a questa gente, qualsiasi condizione stia godendo o scontando. Poiché la poesia è come un sasso piatto lanciato in un lago, che estende i suoi cerchi d’acqua quasi come fossero un abbraccio continuo e necessario. Quella forza e quella testimonianza ‒ velata o meno ‒ per l’Uomo e per Dio (come scriveva Dylan Thomas), che porta a un seppur misero riscatto, eppur vero e potente.
Nel mio esilio non ho fatto mai la vittima, né mi sono mai sentito tale.
Poi, la condizione metafisica dell’esilio di cui tu parli, non posso che estrapolarla in due concetti a me cari. Ovvero, scrivere dall’esilio implica un’aristocrazia della forma che è anche sprezzatura. E scrivere dall’esilio comporta fare i conti con un misticismo o un assoluto che, presto o tardi, ritornerà prepotentemente a sostare nel cuore battente del poeta.
In più, non si può che «lottare e tramare per riaffermare il proprio significato, il proprio ruolo incisivo, la propria autorità.» Poiché, quasi nulla ti verrà mai regalato. Se ci si pensa un attimo, le piccole case editrici dovrebbero far pagare unicamente i primi due, tre libri del poeta esordiente. Se poi lui sceglierà di continuare a scrivere per tutta la vita, e dimostrerà di valere qualcosa, l’editore dovrebbe riconoscerlo e aiutarlo a proseguire. Altrimenti, che si faccia da parte, non lucrando più sulle frustrazioni del poeta.
Ma io, non sono poeta di rimpianti e nostalgie. Ho imparato a non esserlo. La retrospezione non m’interessa. Sono, caso mai, sempre in movimento: vagabondo, appunto. Non mi vedo in una luce postuma. Tutt’al più, sono gli altri a innescare l’argomento; o il libero mercato a osannare i falsi contemporanei. «Statisticamente il pubblico sta dalla parte della normalità e della mediocrità». Insomma, nessuno mi conosce. E oltre a essere esule, son altrettanto misconosciuto. Tuttavia, sono pieno di sogni e la speranza mi è immortale.
*
[stanza-studio, 14 aprile 2022]
Brodskij!,
il futuro è imprevedibile: attraversiamolo nell’attimo! In quanto il mio esilio è un insuccesso, nel quale continuare a persistere. Come se l’ignoto non ci lasciasse mai tranquilli. Eccomi dissentire da te. Non rallento lo scorrere del tempo. Il presente è mio amico. E la realtà che esso contiene ‒ giusta o sbagliata, buona o tremenda ‒ la affronto. Poiché voglio andare a fondo di tutto, di tutte le questioni: di un amore, di un agguato, di ogni inferno come di ogni ignoto. E solo la letteratura può farlo. Solo la poesia me lo consente.
«Si può finire in esilio per ragioni diverse e in diverse circostanze». Ma è la durata, ciò che dell’opera m’interessa. Ambisco a questo, a nient’altro. Tentare di raggiungere i grandi classici della letteratura universale: ho solo l’imbarazzo della scelta.
Il mio esilio, nel micro come nel macro cosmo, non è mai stato comodo, né troppo autonomo. Nessun quotidiano ha voluto mai interessarsi di me e alla mia opera. Ai giornalisti interessa fare il gioco delle tre carte. A me interessa, invece, la fratellanza. Quella vera: quella della strada. Quella di chi si è sobbarcato tutta la vita fatiche di bancherelle al mercato e di traslochi. Quella di chi si suda il salario facendo bene il proprio lavoro, per poi rimettersi la sera a inventarsene un altro con le parole scritte. Quella di chi sa cosa vuol dire pulire il cesso degli altri. Io l’ho provato, e fortunatamente non sono il solo.
Tuttavia, dopotutto hai ragione. Per chi fa il nostro mestiere, il linguaggio (aristocrazia della forma), in esilio diventa destino. Dopo arrivano le ossessioni. Dopo il dovere. In fondo, stiamo dicendo quasi le stesse cose. La letteratura mi appassiona a tutto. Anche all’invisibile. Non sarà unicamente la tecnologia a farci convivere insieme. Forse il coraggio di prendere più seriamente in considerazione una preghiera, farà un giorno la differenza. O forse tu mi hai appena raggiunto dal tuo passato, per salvarmi dal pericolo di cadere in una vecchia trappola, strappandomi da una tautologia.
Una cosa è certa. L’esilio crea esperienza. È l’occasione, se non lo spazio che crea un luogo nel quale dire tutto se stessi in libertà. Eppure, insisto: è nel mio costante fallimento, è nella poesia, la mia essenza.
Giorgio Anelli