A lei fu dedicato un circo – e forse il ‘tendone’ è l’autentico luogo della poesia.
Gioco di equilibrismi, di folli e di apolidi, di bestie selvagge rese edeniche per un istante appena – e poi il fuoco, attributo interiore della poesia, il sortilegio. Il tendone come replica usurata, crepitante di comico, dell’arca, della tenda sacra a Dio.
“Avevano un modo di vivere arcaico, pieno di arcani: mi diedero l’idea di sapere molto di più di tutti i maestri che ho incontrato”, dirà – dopo, però, nei crocevia della memoria, così pieni di crochi.
Figlia dell’organista e compositore Jean Dattas e di un’attrice di teatro, Lydie studia a Londra, ritorna in Francia, ad Avignone, scrive. Nel 1970, per Mercure de France, pubblica un breve testo, Noone, di cui subito si dimentica. Ha vent’anni, Lydie, quando incontra Alexandre Romanès, trapezista e domatore di leoni, erede dei Bouglione, celebre famiglia gitana, tra i reali del circo. Per lei Alexandre fonda il “Cirque Lydia Bouglione”; tra i due, a mo’ di ospite, il terzo che esalta la coppia e la sua oscurità ferina, si mette Jean Genet. Anche lui, in fondo – Genet – figura circense, poeta clown: anzi, scrittore leonino.
L’incontro con Jean Genet ispira l’opera più bella di Lydie Dattas, La Nuit spirituelle, specie di notte oscura della poesia, di eremo degli sconsacrati. Si tiene per sé quei quaderni, Lydie, regina dei tendoni, promotrice di vagabondaggi: la sua vita è di per sé una poetica; la poesia, celebrata sull’altare di pubblicazioni spesso acclamate, comincia nei tardi anni Novanta. “Vescovi e re si inchineranno di fronte a te”, scrive, per lei, Genet, stordito da quel talento, un affronto serafino e violento.
Anche Ernst Jünger rimane stupefatto da quella creatura indocile: le scrive, certo di aver scoperto in Lydie un redivivo Novalis: “Ho fatto buoni sogni dopo averti letto… non ho detto sogni gradevoli, piuttosto, di quelli che gettano la sonda a grande profondità… patrimonio delle donne è suggere alla concreta fonti della tristezza”.
Pur sempre ai margini della vita ‘pubblica’, Lydie – donna di sfuggente bellezza – comincia il suo addestramento lirico leggendo i poeti arabi. È affascinata dall’opera di Jean Grosjean, che più tardi sarà il suo mento, e di lei scriverà:
“Se pensiamo a quel tipo di sinistra grazia che deliziava i preraffaelliti, tale grazia è incorporata nella stasi estatica dei suoi testi… Questa è arte che diffida dell’artificio, che usa poche parole e poche immagini, e fa vibrare il più possibile una sorta di volontaria povertà… Insiste sulla fragilità… All’orecchio, ricorda i versi classici più puri, senza rispettarne le regole metriche, senza temere di aumentare un poco gli accelerati”.
Dal 2001 Lydie comincia a pubblicare con Gallimard testi che, tra gli osanna dei mestatori di didascalie – in lei vedono ora un Lautréamont, ora un Rimbaud –, vivono una solitudine accorata, ancorata a inedite angelologie; non hanno paura di porsi, a tratti, come nevischio, purità fatta per spezzarsi, da conficcare in bocca; altre volte bolide di spine. Nel 2020 Gallimard pubblica un libro complessivo – Le Livre des anges – in cui convergono i testi più importanti di Lydie Dattas.Il libro è introdotto da una lunga prefazione di Christian Bobin, a cui Lydie si lega, dopo il divorzio, nel 2000, da Alexandre Romanès. Secondo Bobin, la sequela poetica di Lydie Dattas riguarda “tre tentativi femminili di accedere al Sole del Verbo, al costo di pagare il prezzo della solitudine”: quelli di Emily Dickinson, Simone Weil e Catherine Pozzi. Scrive, tra l’altro, Bobin:
“Ciò che non appare mai è l’apparizione stessa. Di lei conosciamo soltanto i libri – e alcune rare immagini, concesse controcuore – perché ha cercato sempre di vedere più che di essere vista. La fotografia che la ritrae con le spalle all’oceano, sprofonda nell’oceano dei cuori. Il suo viso sembra chiuso perché spalancato è l’abisso interiore. Lydie Dattas è stata colta alla nascita da una tempesta di sabbia: i mille atomi del dolore materno, minuscoli cristalli neri e taglienti, sono penetrati negli occhi della neonata. A questa tempesta ha risposto con diversi giorni di digiuno. Il digiuno, in tutte le tradizioni mistiche, è un passaggio al deserto, primo fremito di un assoluto appetito di vita. La bimba aveva un problema da risolvere. Mi unisco alla lotta confusa di tutti contro tutti, o ritorno nella notte da cui provengo? Una missione non si sceglie. Ha preso la decisione di vivere nel suo piccolo teschio di alabastro, con una tabella di marcia: comprendere la fibra del femminino che avrebbe dovuto incarnare. Per questo, ci mostra la sua architettura visibile e invisibile: il palazzo con i fossati, la sala del cerimoniale con i sotterranei… Scrivere una poesia: il solo strumento scientifico ad alta precisione che non tortura la realtà”.
La cantilena avvia alla mania, la dolce nenia dei nottambuli, la ripetizione del reclamato purissimo. L’innocenza va setacciata con impeto colpevole, resta sempre sui margini del pozzo, nell’oltresole. La poesia va sorseggiata fino al reprobo, bisogna levarne la buccia e bruciarla – così, della notte troveremo il latte.
In calce, breve antologia di testi di Lydie Dattas, finora inediti in Italia.
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Il mio sangue è una vetrata
La mia infanzia è stata coronata dagli angeli: nessuna disgrazia è stata troppo buona per me quando i miei pensieri davano fuoco alle rose rosse. Il mio sangue è una vetrata colorata di azzurro gigli bianchi si affollano intorno ai miei pensieri e la mia anima è imbevuta del sangue dell’azzurro. Più tenero della notte nel cuore del bianco lillà, il mio cuore è martirizzato dalla sua dolcezza. L’azzurro assorbiva i progetti del male questo azzurro pressoché bianco di cui si fa dono il cuore, il mio cuore polverizzato dalla felicità delle rose. L’amore ha l’ambizione sovrana dei morti e un cuore magnifico, insensibile alle passioni. Il tempo si è serrato intorno al mio pensare: non potrò mai fare a meno della morte. Difenderò la morte fino all’aldilà e il mio nome musicale quanto il dolore.
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Mi tira a sé, il cielo
Immacolata neve ricopre il mio cuore la sventura volta il mio sguardo verso l’azzurro; il mio cuore non può che amare l’azzurro mi tira a sé, il cielo, con il suo terribile amore, il cielo ha rimpiazzato il tuo amore nel mio cuore. Ho sentito lo sguardo degli angeli sul mio cuore, gli angeli hanno mischiato la mia anima con l’azzurro e la rosa del cielo al mio celeste amore. Gli angeli arrossiscono divinando il mio cuore: gli angeli mi amano aldilà di ogni amore. Come dubitare della bellezza degli angeli? Come rinunciare al puro amore degli angeli?
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All’alba
Ti amo dell’amore che ama l’alba la bellezza dell’alba fa impallidire l’amore. L’alba è così pura che ho rinnegato l’amore quando l’alba ha preso d’assalto il mio cuore. Cosa m’importa dell’amore quando mi ama l’alba, la bellezza dell’alba supera la bellezza. L’alba è così bella che amai la morte. Un bel giorno, mi hai strappato dalle braccia del mio amore.
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Sarei caduta
Ho rinnegato la bellezza perché ho rivisto l’alba, ho abbandonato la bellezza per uno sguardo degli angeli. Tutto il cielo mi accerchia nel blu dei giacinti, tutto ciò che l’anima deve al dolce del cielo. Gli angeli mi hanno trafitto il cuore con un giglio: la mia anima si piega sotto il puro giogo dei gigli. I gigli indovinano la mia divina tristezza, la mia anima si acquatta nel puro profumo dei gigli e sarei caduta senza il sostegno dei gigli.
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Il sapore del paradiso
Mi meraviglio senza sapere perché: per me la tristezza ha il sapore del paradiso. O tristezza annunciata dalla beltà della sera, gli angeli non sono dolci come credi e ho sempre avuto accanto gli angeli. La sventura ha voluto conoscere il mio viso il cielo ha finto di dimenticarmi non ho scordato la sventura un istante.
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Da La notte spirituale
Se ti parlo, non è da una coscienza luminosa, ma da quella regione dell’anima intessuta di notte e di spavento, dove il pensiero non è più il marchio di una ricchezza interiore o di una superiorità morale, ma traccia umiliata di una miseria spirituale così grande che sempre fu occultata, miseria ancora più grande perché non conosce il suo nome, ed è fatta precisamente dell’ignoranza della sua maledizione.
Scrivo da un luogo deserto dove il pensiero non ha mai soffiato e dove mai soffierà: fatto per la Notte, non scoprirai alcuna stella, alcun mondo sconosciuto, né conquisterai alcuna vetta, non creerai una lingua nuova, perché tutto ciò che mi appartiene è morto, e il mio regno, deserto come il piacere, non è che nulla… Scacciata dal paradiso spirituale, esiliata dalla bellezza – che non può essere che morale –, sverso nell’oscurità, nel nudo dell’anima, condannata alle untuose tenebre, soltanto il più miserabile degli uomini – il privo di conoscenza – può ancora nutrirmi di chimere e di sogni, mi persuade a proseguire, senza alcuna speranza di interrompermi, in questa eterna erranza dallo spirituale.
Destinata a vivere la Bellezza come mancanza, a sapere la mia anima per profanazione, come quelle prostitute così povere da essere condannate a mendicare eternamente gli uomini sotto forma di obolo simbolico; come quelle prostitute così perdute che possono aspirare soltanto a vendersi, devo restare sulla soglia della Bellezza come sui gradini di una mirabile cattedrale le cui vetrate abbaglianti, ai miei occhi, tuttavia, restano opache…
La Bellezza è il mio calvario. Ogni bellezza mi immerge nel cuore della disperazione, mi ricorda che sono bandita e rinnova la mia notte interiore, mi cala nel nuovo canto, nella nuova partitura di luce rinnovando in forma sempre più eclatante e irrevocabile l’anatema che mi impedisce di approssimarmi… La mia povertà spirituale, che risalta presso la loro incomparabile ricchezza, è fatta dei più bei cantici, delle melodie più caste, e la mia anima, eternamente segnata dall’immacolato sogno della Bellezza, deve vivere attraverso di loro la sua notte spirituale… Esisto perché la spiritualità fuori di me sia più pura, più alta l’intelligenza, più luminosa la bontà, devo vivere di questa miseria senza alcun modo di sfuggirle.
Poiché la tua luce è foggiata sulla mia notte, la tua gloria è l’esito della mia umiliazione, la tua magnificenza ha bisogno della mia povertà, questo canto è il rovescio del pensiero, il contrario del linguaggio… Se nulla all’apparenza lo distingue dal tuo, neppure lo splendore del verbo, l’avida altezza del pensiero, potranno far sì che tutto ciò non designi altro che la mia povertà spirituale… Se in queste frasi miserabili e millesimate nel lutto si riconosce lo stile del tuo più luminoso canto, dei tuoi più puri pensieri, è perché queste frasi, maledette, oscurate da una cima all’altra dalla mia anima, sono tue, sanate e miracolosamente ritornate a se stesse.