Il frate che arrivò in Tibet. Storia di un ritratto perduto e ritrovato
Cultura generale
Giampaolo Proni
Nel sito della Casa Editrice Astrolabio, che ha in catalogo diversi suoi romanzi, dai titoli diversamente suggestivi – Il medico venuto da Lhasa, Il saggio del Tibet, L’eremita, La veste color zafferano, La caverna degli antichi – Tuesday Lobsang Rampa (1910-1981) è presentato come “un monaco tibetano e autore di numerosi libri che tramandano la sapienza esoterica degli antichi Lama”. Non è del tutto vero – ma, direbbe il fatidico T. Lobsang Rampa, che cos’è mai la verità? In questa storia fitta di sirene, il dato certo è un miracolo editoriale.
Nel 1956 Secker & Warburg – che tra le altre cose ha pubblicato Omaggio alla Catalogna di George Orwell e ha in catalogo i libri di Colette, Moravia e Simone de Beauvoir – sceglie di pubblicare The Third Eye. Il manoscritto, rifiutato da diversi editori, giunto tramite un misterioso “Doctor Carl Kuon Suo”, è l’autobiografia di un “lama tibetano” pronto a svelare al pubblico occidentale i misteri del buddhismo sciamanico e la vita nei recessi di Lhasa, la mitica città inaccessibile. La data non è secondaria: nel 1951, tramite il cosiddetto “Accordo dei 17 punti”, il Tibet, di fatto, si consegna alla Repubblica Popolare Cinese; “Ora il mio diletto Paese è invaso da orde comuniste”, scrive l’autore, il fatidico lama, introducendo il suo libro, “Essendomi tanto adoprato contro il comunismo, so bene che i miei amici nei Paesi comunisti andrebbero incontro a gravi conseguenze qualora la mia identità potesse essere accertata. Poiché sono caduto sia nelle mani dei comunisti, sia nelle mani dei giapponesi, l’esperienza personale mi insegna a qual punto possono giungere le torture; tuttavia, questo libro non si occupa di torture, ma di un Paese pacifico, per molto tempo frainteso e descritto in modo inesatto”.
La struttura del libro è del tutto ‘occidentale’, nello sguardo narrativo – dickensiano – e nella disposizione filosofica: The Third Eye è pubblicato come The Autobiography of a Tibetan Lama, la copertina mostra il disegno di un monaco, alle spalle scollina Lhasa. Fu un successo clamoroso. Mondadori compra i diritti, pubblica il libro nel 1958, nell’“unica traduzione autorizzata dall’inglese di Bruno Oddera”. Nel testo introduttivo, Oddera spiega le ragioni della pubblicazione: “Pochi libri raggiungono nell’evocare un mondo raccolto e concentrato, la coerenza e la forza persuasiva del volume di Lobsang Rampa; né finora si è levata una voce a rilevare discordanze fra opera letteraria e realtà documentabile, fra il mondo visto con gli occhi del poeta e il mondo visto con le lenti dello studioso. Il cieco Omero poté descrivere Troia, e il veggente Schliemann scoprirla, affidandosi alla sua guida, esattamente com’egli l’aveva cantata. Fatte le debite proporzioni, è il caso di Lobsang Rampa”.
Cos’era successo, a che pro questo pippone? Beh, che T. Lobsang Rampa era risultato essere Cyril Henry Hoskin, idraulico di Plympton, in Devon, che in Tibet mai aveva messo piede, ignorava il tibetano, tanto meno era stato edotto ai misteri dei Lama. Insospettito dal libro, Heinrich Harrer, l’alpinista austriaco che nel 1946 aveva varcato la soglia di Lhasa – dalle sue memorie, Sette anni in Tibet, è tratto il film di Jean-Jacques Annaud con Brad Pitt – aveva pagato un investigatore perché snidasse l’autentica identità del fatidico Lobsang Rampa. Anche Scotland Yard si era messa alla caccia del presunto Lama, nel frattempo ritiratosi a Howth, in Irlanda. Negli anni Sessanta, irritato dalle accuse di essere un ciarlatano, venditore di un Oriente contraffatto, Lobsang Rampa preferirà trasferirsi in Canada. Nelle fotografie, Lobsang Rampa ha lo sguardo accigliato, forse magnetico, indossa la stola del monaco; di solito maneggia un rosario, il profilo è mistico. A onore del vero, Lobsang Rampa, autentico prestigiatore dell’editoria, non si è mai sottratto alle accuse, sibilline. Di norma, la sua difesa – che a volte presenta sugose varianti: d’altronde, il mondo storico, questo, non è che una pia illusione, è pura farsa – è questa: Lobsang Rampa è davvero Cyril Hoskin, anonimo idraulico del Devon, almeno fino al 1948, quando “si fece radere a zero, si lasciò crescere una folta e profetica barba”, pigliando il nome di Carl Kuon Suo, poi rettificato in Lobsang Rampa. Nel Surrey, mentre tentava di fotografare un gufo, pare che Cyril sia caduto, rovinosamente, da un abete; la commozione cerebrale che ne è seguita si rivelò un’illuminazione: tale Lobsang Rampa, monaco di Lhasa, camminando in una selva di luci, in UK, ha preso ad abitare, da allora, nel corpo di Cyril, ormai spiantato.
Le polemiche fecero levitare le vendite: ancora oggi The Third Eye, “la storia di un vagabondaggio spirituale sulla via della propria consapevolezza”, conquista lettori e complici. Due anni fa il “Guardian” ha dedicato un articolo a The Tibetan lama who was really a plumber from Devon; in effetti, Il terzo occhio viene ciclicamente ristampato da Mondadori: che l’autore sia un ‘invasato’ conferma la veridicità di quanto scrive. In una versione degli anni Ottanta e Novanta, il libro era venduto con un sottotitolo esotico, “L’iniziazione ai misteri del mondo dei lama tibetani”. Eppure, siamo il paese di uno dei più grandi tibetanologi di ogni tempo, Giuseppe Tucci, autore di libri di sgargiante potenza. Poco importa: l’editoria, di per sé, è una duna di menzogne, le parole velano il vero, l’autore è uno spettacolare spettro, un gorgo di evanescenze. Lobsang Rampa, per paradosso, è più autentico di diversi oracolari studiosi ed ‘esperti’; “ha avuto il merito di avvicinare molti lettori al Tibet”, dicono.
Spesso, nelle immagini di repertorio, Lobsang Rampa è raffigurato con un gatto: si chiama Mrs. Fifi Greywhiskers, pare gli abbia dettato alcuni dei suoi libri. Lo dice lui, confortato dai miraggi.
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Nella luce crepuscolare, satura d’incenso, del tempio, le lampade baluginanti, alimentate con burro di yak, facevano sì che ombre vive danzassero dietro le statue dorate. Il concentrarsi dei monaci aventi facoltà telepatiche rendeva sempre più tesa l’atmosfera, mentre essi si sforzavano di rimanere in contatto con coloro che si erano allontanati dal mondo e, ciononostante, rimanevano ancora legati ad esso.
Monaci dalle vesti rossicce, seduti in file rivolte l’una verso l’altra, intonavano la Litania dei Morti, e tamburi nascosti battevano il ritmo del cuore umano. Da altre parti del tempio, come nel corpo vivente, venivano i brontolii degli organi interni, lo scorrere dei liquidi organici, e il soffio dell’aria nei polmoni. Mentre la funzione continuava, con suggerimenti ai trapassati, il ritmo dei rumori del corpo mutava, diventava più lento, finché, in ultimo, si udivano i suoni dell’anima che abbandonava il corpo, il rauco, tremulo, ultimo sospiro, poi… il silenzio. Il silenzio che si accompagna alla morte. E in quel silenzio si diffondeva la consapevolezza, percettibile anche ai meno dotati di facoltà extrasensorie, del fatto che altri esseri si trovavano intorno a noi, in attesa, in ascolto. A poco a poco, di mano in mano che i suggerimenti continuavano ad esserci dati telepaticamente, la tensione diminuiva mentre gli spiriti senza pace si spostavano verso la fase successiva del loro viaggio.
Noi siamo fermamente convinti di rinascere più volte. Ma non soltanto su questa terra. Esistono milioni di mondi e noi sappiamo che, nella grande maggioranza, sono abitati. Gli esseri di quei mondi possono avere forme molto diverse da quelle a noi note, possono essere superiori agli umani. Noi, nel Tibet, non abbiamo mai accettato la tesi secondo la quale l’uomo sarebbe la suprema e più nobile forma dell’evoluzione. Riteniamo che altrove esistano forme di vita di gran lunga superiori, che non lanciano bombe atomiche. Nel Tibet ho letto notizie di strani veicoli nei cieli: “I carri degli Dei”. Il lama Mingyar Dondup mi disse che un gruppo di lama si era posto in comunicazione telepatica con questi “Dei”, i quali affermarono che stavano sorvegliando la terra, proprio come gli uomini sorvegliano nei giardini zoologici belve pericolose.
T. Lobsang Rampa