22 Novembre 2022

Dick è vivo e voi siete morti! (Ergo: togliete PKD dalle grinfie del tronfio Carrère)

L’estate appena scorsa abbiamo dato notizia delle nuove traduzioni, in fase di uscita per Mondadori negli Oscar e nei Meridiani, di alcuni dei principali titoli di Philip Dick, ripromettendoci di seguirle passo dopo passo. L’ultimo titolo è L’uomo nell’alto castello, una delle opere maggiori e più amate del genio californiano e nota ai più nella vecchia edizione Fanucci come La svastica sul sole. Lo hanno preceduto Ubik e Le tre stigmate di Palmer Eldritch. Giunti a questo punto è necessario stilare un bilancio e inoltre l’Alto castello necessita di alcune doverose considerazioni, pertanto il lettore dovrà portare pazienza perché l’articolo sarà piuttosto lungo.

Circa la traduzione dell’Uomo nell’alto castello c’è poco da dire: è davvero splendida ed efficace, come le due precedenti. Marinella Magrì riesce là dove molti prima di lei hanno fallito e restituisce dignità letteraria a uno dei maggiori scrittori del XX secolo, che approda nel XXI intatto ed eloquente.

Tuttavia mi domando perché la casa di Segrate abbia preferito lasciare in tedesco e in yiddish numerose parole e frasi, e perché non segnalare che le incongruenze narrative, frequenti nell’opera dickiana, non sono dovute alla distrazione della traduttrice, ma allo stesso scrittore, il quale non ha praticamente mai goduto di un editor e men che meno di un editor serio. Qualche nota a piè di pagina avrebbe dimostrato buona volontà e soprattutto rispetto per il lettore. Ma non ci si inquieti: questi capolavori non potranno mai essere guastati da simili dabbenaggini. Philip Dick è sopravvissuto a ben di peggio!

*

Una visione politica di PKD

Diamo un’occhiata da vicino all’Uomo nell’alto castello, il quale mi pare abbia due chiavi di lettura: l’I Ching e la politica. Sulla prima preferisco tacere, tante e tali sono la complessità e la delicatezza di questo millenario testo sapienziale, impossibili da sunteggiare qui con pertinenza. Rimando il lettore alla bibliografia sull’argomento.

Mi soffermerò solo sulla seconda chiave, augurandomi di schiarire un po’ le idee a molti.

Nell’Alto castello l’Asse ha vinto la seconda guerra mondiale e si è spartita il mondo. Non è la prima volta di un romanzo ucronico in cui si immagina tale scenario. Ma Dick lo fa in maniera vertiginosa e acutissima, non cedendo alla facile e banale proposta di un mondo necessariamente distopico, e soprattutto offrendo una visione della storia e dell’attualità politico-sociale originale.

Consideriamo tre aspetti narrativi (e politici).

Anzitutto i tedeschi sono senz’altro brutte persone, ma decisamente non tutti. Vi sono bensì richiami al razzismo, ma mai ossessivi e neppure centrali. Secondo: i giapponesi, per decenni tenuti ai primi posti nella classifica dei cattivi per antonomasia, rivestono un ruolo estremamente felice e persino nobile. Non vessano per nulla i vinti e tra di loro spiccano persino due personaggi davvero luminosi, uno dei quali è anche dotato di una profonda saggezza derivatagli dalla filosofia orientale.

Il terzo punto è uno spoiler. Me ne scuso, ma vi posso assicurare che la lettura non ne risentirà minimamente.

Il romanzo si chiude con la scoperta che, al contrario di quanto si è creduto sino a quel momento, ad aver vinto la seconda guerra mondiale sono stati invece gli Alleati. Ciò significa che il disagio vissuto da vasta parte della popolazione del pianeta è quello del mondo reale e attuale, in cui hanno vinto gli Stati Uniti e la Gran Bretagna.

Ritroviamo in ciò un’eco del Deutsches Requiem di Borges, contenuto nell’Aleph, anche se non mi è dato sapere se Dick conoscesse questa pagina dell’argentino. Sicuramente però entrambi condividevano un idem sentire.

Questi pochi ma eloquenti elementi ci parlano di una riflessione politica non convenzionale, intelligente e altresì coraggiosa.

A sostegno e riprova di essa valgano le parole dello stesso Philip Dick, consegnate a un saggio del 1964, dedicato proprio a Il nazismo e «The Man in the High Castle». Il lavoro si trova in Mutazioni. Scritti inediti, filosofici, autobiografici e letterari, a cura di Lawrence Sutin, uscito nel 1997 per Feltrinelli, e purtroppo mai più ristampato, nonostante sia una generosa fonte per comprendere la vita e l’opera di Philip Dick. Ne tolgo alcuni passaggi.

«Ci sentiamo in colpa e ricordiamo, perché chi ha formulato quegli orrendi pensieri che hanno ispirato tali orrende gesta [i crimini nazionalsocialisti] non sono “loro”, bensì siamo “noi”; e questo “noi” comprende anche i nazionalisti ebrei fanatici, alcuni dei quali vivono oggi in Israele, assaltano le scuole, interrompono le lezioni delle scuole elementari con i loro gruppi paramilitari di brutti ceffi… perché l’insegnante non è “razzialmente corretta”. Non abbastanza ebreo, invece che non abbastanza tedesco».

E poco di seguito:

«Ci piace pensare che le vittime della tirannia e della crudeltà siano innocenti… Ma spesso anche la vittima ha le mani sporche di sangue, nel senso che ha contribuito fattivamente a creare la situazione che alla fine gli è costata la vita. Molti ebrei oggi non guiderebbero una Volkswagen, e alcuni non ascoltano neppure la musica di Beethoven: non è forse anche questa una mentalità nevrotica e “malata” come le ottocentesche ideologie di “sangue, razza e terra” insegnate sia dai tedeschi sia dagli ebrei tedeschi?».

Dick gira il dito anche nella piaga sionista: «I sionisti hanno cacciato un milione di arabi da Israele, e questi arabi, sostenuti – cioè, salvati dalla morte per fame – dai quaccheri, costituiscono attualmente la più grande massa di profughi del mondo. E non credete a chi dice che quegli arabi (ossia non ebrei e quindi alieni, benché vivessero in quei luoghi da duemila anni) hanno voluto andarsene. Furono costretti alla fuga col terrore, e ora non possono ritornare. Così, le vittime della seconda guerra mondiale sono diventati nazionalisti prepotenti…».

Lo scrittore americano non si perita nemmeno di ricordare, vivvaddio, che «negli insediamenti di profughi ebrei in Estremo Oriente, nel corso della seconda guerra mondiale, molti ebrei fondarono organizzazioni hitleriane ed eseguivano il saluto nazista». E verso la fine del saggio egli avverte che non uscirà «da un locale se ci entrerà un tedesco, così come non ne sarei uscito all’ingresso di un ebreo. Né consentirò ai miei amici ebrei di chiamarmi “gentile”, cioè considerarmi membro di una razza». A un certo momento, seppur di passata, Dick afferma anche di avere un amico nazista.

In buona sostanza Philip Dick, col romanzo e anche col saggio, rifiuta di ridurre la storia tra “buoni” e “cattivi”, giusta la vulgata, e denuncia non solo l’esagerata condanna contro i tedeschi ma altrettanto la criminalità dell’assetto geopolitico uscito vincitore dal secondo conflitto bellico, rigettando l’implicita retorica del «migliore dei mondi possibili» in cui, secondo taluni, vivremmo dal 1945. Così facendo Dick dimostra tra l’altro, posto che ce ne fosse bisogno, di non essere affatto quel visionario svagato e un po’ suonato ritratto da troppi suoi presunti ammiratori, ma uno dei cervelli più onesti e penetranti della letteratura occidentale.

*

Una sciagura di nome Carrère

A proposito dei cosiddetti “ammiratori” e dei disinvolti giudizi con i quali costoro hanno inteso tatuare Philip Dick, dobbiamo ora approfondire l’accenno del mio precedente contributo alle introduzioni di Emmanuel Carrère in accompagnamento ai cinque Oscar, che palesano una sconfinata scorrettezza. Iniziamo con quella all’Uomo nell’alto castello.

Sull’aspetto politico del romanzo Carrère fa l’indiano e gli dedicato soltanto una nota di questo tenore:

«Il nazismo affascinava Dick-il-Ratto. La paranoia affascinava Dick-il-Ratto. Un insieme coerente, poiché la propensione a cercare in ogni cosa un senso e dietro ogni cosa un’intenzione, che caratterizza la paranoia, caratterizza anche la convinzione religiosa, e Dick cominciò ad appassionarsi alla teologia più o meno quanto alla malattia mentale».

(In Io sono vivo, voi siete morti – la sua cosiddetta “biografia” di PKD, in realtà un ibrido biografico-romanzesco traboccante di sfottò e depistaggi –, Carrère invece indugia sulla faccenda, ma con forzature e turlupinature tali da contorcere e falsificare il pensiero di Dick).

Perché Carrère chiami PKD «Ratto» non mette qui conto spiegarlo perché non ho gusto di scendere nelle fogne. Mi limito solo a rilevare, carte alla mano, la vergognosa e volenterosa falsificazione operata dallo scrittore francese. Anzitutto Dick si occupò di quel fenomeno storico soltanto una volta, appunto in questo romanzo, e lo fece perché, negli anni Sessanta così come oggi, Hitler & C. sono il modello negativo assoluto, facilmente comprensibile anche dai più tordi, ed era un mezzo efficace per comunicare ciò gli frullava nella mente.

Inoltre cosa dovremmo pensare delle migliaia di storici, scrittori, operatori culturali, case editrici che seguitano a interessarsi di Hitler? Sono tutti “ratti” col cervello irretito dalle adunate di Norimberga? Ma poi che significa essere affascinati? Come la mette giù Carrère sembra che Dick strizzasse l’occhio con simpatia e approvazione ai tedeschi degli anni Trenta. Con lo stesso criterio e soprattutto con lo stesso spirito dovremmo insinuare che Carrère è affascinato dagli assassini e dalle catastrofi naturali perché ha scritto un romanzo su uno che ha sterminato la famiglia (L’Avversario) e un libro sullo tsunami del 2004 (Vite che non sono la mia).

Ancora a proposito di nazionalsocialsmo, mi si consenta un breve inciso su Carlo Pagetti, storico commentatore di Dick per Fanucci, il quale, con mal dissimulato piglio censorio, ammonisce nel saggio che accompagna La svastica sul sole:

«È tuttavia necessaria… una precisazione, affinché qualche lettore ingenuo e sprovveduto non pensi, sulla base delle osservazioni qui raccolte, di arruolare Dick tra i sostenitori di quel “revisionismo” storico che… nega o ridimensiona la portata dell’Olocausto, oppure tende a rendere puramente relativa qualsiasi interpretazione degli eventi storici che hanno portato al grande conflitto bellico di più di mezzo secolo fa».

Che bisogno c’è di questa excusatio non petita? Dick non sminuì o negò mai alcunché e chi lo pensa è un magliaro. Purtroppo gli è che appena si dia di tocco a certi argomenti, i cani di Pavlov iniziano a sbavare. O se si preferisce: basta evocare certi periodi storici ed ecco scatenarsi il complesso di colpa occidentale. Risultato: sabbia negli occhi del lettore.

Per storpiare Cicerone: tantum quisque odit quantum se posse sperat imitari. Insomma, poiché certuni non hanno il coraggio morale né l’intelligenza di essere all’altezza di Philip Dick, lo odiano e quindi lo scontorcono piegandolo alle loro esigenze.

Abbandoniamo la Germania ma restiamo a Carrère.

Ancora a commento dell’Alto castello, scrive:

«Prima della sua esistenza nessun autore di fantascienza, nemmeno Dick, avrebbe concepito nei suoi sogni più sfrenati, qualcosa di lontanamente simile a Internet».

È una frase assai balorda. Tanto per dirne una, gli «omeodiani», giornali istantanei che adunano le notizie richieste dal fruitore, hanno qualche prossimità con la rete. E, se vogliamo, Valis non solo rassomiglia a Internet ma la sua estensione e la sua potenza vanno molto più oltre. A parte ciò, oltreché falso, è davvero meschino sottolineare questo dettaglio: Philip Dick ha immaginato e addirittura visto molto di più sulla nostra società!

Una delle prove più rutilanti della voluta incomprensione di Dick e dell’acrimonia nutrita nei suoi confronti, Carrère la dà affermando che Dick sarebbe un «filosofo mascherato». Cos’è ’sto «filosofo mascherato»? un fumetto? un cartone animato? In realtà Carrère sta insinuando che Dick era un filosofo mancato. La verità però è l’esatto opposto. Sin da molto prima di iniziare a scrivere, infatti, Dick si è dedicato alla filosofia, come egli stesso attesta assai di frequente.

Ascoltiamo un frammento dell’intervista dedicata giustappunto a «Philip K. Dick e la filosofia», uscita nel 1980, quindi quasi a conclusione della sua vita terrena.

«Cominciai a interessarmi di filosofia al liceo… Ebbi l’intuizione… che la casualità è una percezione nell’osservatore, non un dato proprio della realtà esterna. All’università [in cui si stava specializzando in filosofia!] mi diedero da leggere Platone e cominciai a pensare alla possibile esistenza di una sfera metafisica al di là o al di sopra del mondo sensibile… Infine giunsi a credere che, in un certo senso, il mondo empirico non fosse davvero reale, o – quantomeno – non così reale come la sfera archetipica al di là di esso… Da allora, romanzo dopo romanzo, non ho mai smesso di porre in questione la realtà del mondo deducibile dagli schemi percettivi dei personaggi».

E poco dopo:

«Ho abbandonato l’università molto presto e mi sono messo a scrivere, coltivando privatamente il mio interesse per la filosofia».

(L’intera intervista si trova in Mutazioni)

E nell’Esegesi (1981): «Sono un filosofo che si esprime in romanzi, non un narratore; la mia abilità nello scrivere romanzi e racconti viene da me impiegata come un mezzo per formulare le mie percezioni». È chiaro, adesso?

Ma poi, per Dio! Basta aprire pressoché qualsiasi romanzo o racconto di Dick, per non parlare di certi saggi e dell’Esegesi, per trovarci con ampio agio non solo la perfetta consapevolezza dello scrittore di essere prima di tutto e persino in via esclusiva un filosofo, ma anche vera filosofia. E come dimostra la biografia, il cervello di Dick non si limitava a ragionare sulle cose: vedeva nello spaziotempo e attraverso le trame della cosiddetta “realtà”. Leggiamo Lawrence Sutin, il grande biografo dello scrittore: «I parallelismi tra gli scritti di Dick – narrativi e no – e le contemporanee intuizioni della fisica quantistica non sembrano, sulla base dell’evidenza fornita dall’Esegesi e da altri scritti personali di Dick, aver origine nella lettura, bensì piuttosto in un’intuizione di Dick che si rivelò sincronica rispetto alle scoperte dei fisici quantistici […]. E la fisica quantistica non è neppure l’unico campo in cui le speculazioni di Dick trovino un riscontro rivelatore. Si consideri il concetto di “falso falso”, utilizzato in moltissimi romanzi e racconti di Dick e incessantemente indagato anche nei suoi scritti non narrativi […]. In sostanza, un “falso falso” – nonostante il suo apparente status di mera contraddizione che significa “autentico” – è una categoria ontologica radicalmente nuova che assume senso proprio perché imita in modo imbarazzante (e addirittura minaccia di sopraffare) la nostra realtà “ordinaria” e consensuale. Perciò il “falso falso” non è mero supporto della trama fantascientifica… ma è anche indice nell’inondazione del nostro mondo da parte di simulacri meccanici e generati dal computer» (introduzione a Mutazioni).

Negare tutto ciò denota ignoranza oppure malafede.

Ancora nell’Alto castello Carrère sostiene che «Phil non credeva in Dio». Non me ne frega niente di contrastare il laicismo oggidì dominante e meno ancora di praticare dell’annessionismo religioso. Solo che l’affermazione di Carrère è falsa: PKD si era convertito al cattolicesimo (lo dice lo stesso Carrère nell’introduzione, solo che poi se ne dimentica), aveva rapporti molto stretti con l’eretico reverendo Pike e i suoi più svettanti capolavori, insieme all’Esegesi, dimostrano senza ombra di dubbio la consapevolezza, o la credenza, da parte di Dick di un essere superiore o trascendente, chiamatelo come volete.

Carrère compone il suo contributo edificandolo sull’I Ching, e ciò è molto giusto, se però l’illustre commentatore non trattasse il venerabile libro, fondamento di una delle più antiche culture del mondo, con una disinvoltura che non si riserverebbe nemmeno al più banale gioco da tavolo. Leggere per credere.

E non è mica finita. Passiamo agli altri contributi.

Carrère attacca l’introduzione a Ubik evocando un episodio molto noto tra i «dickheads»: Timothy Leary e John Lennon che telefonano a Dick sconcertati dalla lettura di un suo romanzo. Secondo Carrère sarebbe Ubik, ma invero si tratta delle Tre stigmate di Palmer Eldritch. E dire che lo stesso scrittore francese, nella sua pseudobiografia, riferisce l’episodio in maniera corretta. Lo svarione induce Carrère a scrivere, un paio di pagine dopo, che il tema portante di Ubik è «la droga», con cui però il romanzo non c’entra un fico secco. Si vede che quando ha scritto questa prefazione era Carrère ad essere sotto l’effetto di stupefacenti.

Mi domando anche se in casa editrice non si siano resi conto del duplice drizzone e non lo abbiano segnalato all’interessato. Distrazione anche la loro oppure sudditanza psicologica verso le divinità cartacee?

Passiamo all’introduzione a Palmer Eldritch in cui, accennandoa uno dei primi racconti dickiani, La cosa-padre, lo scrittore francese propone un commento che possiamo considerare l’acme del suo malanimo:

«Un certo tipo di individui pensa che il mondo sia un artificio, che ciò che noi crediamo realtà non sia affatto la realtà, bensì una menzogna o una finzione. Questi individui sono definiti paranoici, e, oggi, complottisti. Dick si schierò molto presto dalla parte dei paranoici, senza dubbio perché lo era lui stesso».

Di conseguenza, immaginiamo, per Carrère sarebbero paranoici e complottisti anche i buddhisti, i taoisti, i sufi, Hume, Platone, Kant, Schopenhauer, decine di registi cinematografici e moltissimi scienziati contemporanei quali Fritjof Capra, Jack Sarfatti e il matematico e fisico oxfordiano dichiaratamente platonico Roger Penrose.

Trascuro poi di commentare la spiegazione offerta da Carrère circa la Gnosi, a suo avviso tema portante di Palmer Eldritch: roba che nemmeno uno studente con problemi cognitivi riuscirebbe a dire. A proposito di baggianate e banalizzazioni, sentite questa: «Non so proprio da dove cominciare… e allora provo a organizzare ognuno dei cinque libri [nella nuova edizione Mondadori] intorno a un tema: la teologia e più precisamente la gnosi per Le stigmate di Palmer Eldritch, l’I Ching per L’uomo nell’alto castello, l’intelligenza artificiale per Gli androidi sognano pecore elettriche?, la musica e la malinconia per Scorrete lacrime, disse il poliziotto».

Con lo stesso criterio potremmo dire che I fratelli Karamazov è un romanzo su litigi famigliari e Il castello racconta di un tizio un po’ tardo preso per il fondelli da sadici svitati. Ma forse siamo noi a non capire niente né di Dostoevskij, né di Kafka, né di Philip Dick.

Con la sua pseudobiografia, lo ripeto, Carrère aveva già dimostrato ampiamente di essere malevolo e subdolo, ché fingendo di elogiare Dick, in realtà lo fa passare per un tizio mezzo rimminchionito e mezzo drogato. Invero mascherare con lodi il disprezzo e l’invidia sarebbe persino un’arte, seppur di infimo livello: gli è solo che Carrère è talmente scomposto da farsi sempre beccare in castagna. Da chi è considerato uno dei più grandi scrittori viventi e un maître à penser ci aspetteremmo più dignità e correttezza. Vedremo che cosa combinerà con Gli androidi sognano pecore elettriche? e con Scorrete lacrime, disse il poliziotto, anche se non ci aspettiamo un ravvedimento.

Al di là di questo (parziale) profluvio di inverecondia, mi chiedo perché far tirare la volata a Dick da chicchessia, fosse pure il celebre autore del Regno. È un’operazione di dubbio gusto, che ricorda quella einaudiana di far introdurre la “Trilogia della frontiera” di Cormac McCarthy ad Alessandro Baricco. Certo Carrère a petto di Baricco è un Victor Hugo (o meglio: Baricco a petto di Carrère è Fabio Volo), ma almeno lo scrittore torinese la fa breve e soprattutto ha un’enorme stima e un grande rispetto per l’americano. Carrère tutto il contrario.

Posso però capire l’intenzione. Secondo taluni la fantascienza ancor oggi non gode della giusta considerazione da parte di editori, critica e pubblico, sicché persino un genio come Dick abbisognerebbe di un “testimonial” d’eccezione per vendere (c’è ancora il capitalismo, no?), e ciò posto che si possa relegare Dick a un genere pur nobile qual è la fantascienza o in qualsiasi altro scaffale mentale. Ma Carrère opera in senso diametralmente opposto alla senz’altro buona volontà della Mondadori, che si sta sforzando di incastonare Dick nel novero dei grandi scrittori tout court.

Leggendo Carrère che esuma Philip Dick, mi torna alla mente The Others, la pellicola in cui Nicole Kidman e la figlia sono due anime trapassate che credono però di essere vive ma alla fine scoprono la verità e se ne fanno una ragione. Dubito però che Emmanuel Carrère capirà che il morto è lui, e non Philip Kindred Dick.

Insomma, siamo alle solite: Dick è vivo, siete voi quelli morti. E giù nel cesso a piedi capovolti. Amen.

Gruppo MAGOG