Per fortuna, il nichilismo non è sempre identico a sé stesso. Certo, la maggior parte delle volte è una maschera così tragica da prendere all’anima, per non dire alle palle… A meno che non stiate leggendo Andrea Campucci, questo giovane scrittore fiorentino, autore di due romanzi: Plastic Shop (Leone, 2016) e Porn Food (Leone, 2018). Andrea è una vera linguaccia, graffiante e coltissima. Ha una conoscenza filosofica di tutto rispetto e uno sguardo sul mondo disincantato, ma – grazie al cielo – sarcastico al di là di ogni più rosea aspettativa. Siamo andati a sentirlo, a un mese dall’uscita della sua ultima fatica, con il preciso intento di tirargli fuori qualche terribile malignità e sbellicarci dalle risate come lavoratori finalmente liberi di sbronzarsi al venerdì sera. Signore e Signori, eccovi il peggio delle nostre conversazioni con un autore che non potrete assolutamente perdervi.
Brutto figlio di buona donna! Ma dove ti eri nascosto? Ok, adesso che sei diventato uno dei miei miti letterari, te lo posso confessare: in principio non avrei scommesso un euro su di te. Già i titoli, Plastic Shop e Porn Food, mi lasciavano in dubbio. Insomma, pensavo fossero una cretinata. Ma, al momento, sono proprio contento che tu abbia avuto la faccia da culo di mandarmi i tuoi testi. Senti, andiamo con ordine… Visto che sono fermamente convinto che i barbari che ci stanno leggendo ignorino la tua esistenza come autore, cosa vorresti far sapere di te? Ipotizziamo che ci sia Pippo Baudo a presentarti – non so perché ma ce lo vedo bene con uno come te, sarebbe una situazione molto postmoderna. Che parole vorresti sentirgli dire per introdurti al pubblico? Voglio qualcosa di nazionalpopolare…
Veniamo al punto, io SONO nazionalpopolare, e il vuoto pneumatico della televisione, della rete, dei social, mi cattura da sempre come una ipertecnologica cupio dissolvi. Penso che, quindi, da questo punto di vista potrei avere anche qualche affinità con il nostro Baudo. Tornando alla questione, il trait d’union fra me e il nazionalpopolarismo è proprio il nulla che soggiace a ogni spensierata considerazione sulla vita, che quotidianamente amiamo sovraccaricare di rami secchi come fede religiosa, amore coniugale, passione per i fornelli e cazzate del genere. Se ci fosse una categoria in grado di inquadrarmi, penso che sarebbe quella dell’inutilità. Inutilità dell’essere come inservibilità, inapplicabilità a un fine determinato. Ogni attività umana, ogni lavoro, svela questa irriducibilità dell’essere al fine. Ma torniamo al dunque ché altrimenti passo da rompicoglioni… Anche la letteratura è del tutto inutile, non serve a un cazzo – vallo a spiegare a quegli imbecilli che leggono libri sul socialismo e poi passano alle ricette di Cracco. Perciò sono contrario alla cultura intesa come pedagogia e mi auguro anzi un feroce imbarbarimento, una regressione, un sano anti progressismo. In barba a tutti i crismi del “socialmente utile”, dell’homo animal rationale rivendico la legittimità del superfluo, del tempo perso e del disimpegno. Quindi, tornando al nostro amico Pippo, gli metterei in bocca delle parole che sanno profondamente di Kierkegaard: “Ecco a voi una persona che anche se gli venisse regalata una bacchetta magica la userebbe per pulirsi la pipa”. “Corretto” risponderei, “l’unico problema è che io fumo il drum.”
Bene, sono convinto che, arrivati a questo punto, avremo già perso ogni possibile lettore. Meglio! Potremo parlare sentendoci più leggeri, sapendo di non avere nessuno che ci ascolti. Questo mondo artistico è così pieno di gente che fa finta di essere contro, senza che si comprenda mai bene contro cosa, visto che più che altro scrivono su “La Repubblica” e “L’Espresso”, e strombazzano per il mondo i soliti buoni sentimenti che gli italiani vogliono sempre sentire sulla bocca di tutti, salvo poi essere persone miserabili e abiette. Niente è più nauseante di questi piccoli novelli Sartre che fingono di impegnarsi per non essere invisi alle masse. Invece tu, Andrea, tu mi piaci, perché non senti il bisogno di essere un esempio. Leggendoti ho avuto la stessa sensazione liberatoria che danno i libri di Houellebecq, Bukowski, Céline. Tu non hai paura della mostruosità e dell’abominio. Non so se ho capito bene, quindi correggimi se sbaglio, ma nei tuoi libri c’è un senso di disgusto e prostrazione, volto in chiave sarcastica e grottesca, che non risparmia niente: te stesso, gli altri, il mondo, il nostro tempo. Come sei arrivato a maturare questa sacra forma di repulsione? Sono state delle letture? Ti è bastato osservare il mondo?
Perché è la vita stessa a essere intrisa di invivibilità, di forze e pulsioni che tradiscono una certa nostalgia della morte. Qui non c’è bisogno di citare il Freud di Al di là del principio di piacere, lettura che quelli che scrivono su “La Repubblica” o “L’Espresso” non credo si siano mai presi la briga di fare o, se l’hanno fatto, se ne sono occupati come di un compito in classe. Gli autori che hai citato, invece, hanno ben compreso il messaggio. Messaggio che si esemplifica in opere come Viaggio al termine della notte o Le particelle elementari. Il mostruoso e l’abominio, per citare una tua definizione, sono metafore che stanno a indicare, per essere un po’ scolastici, lo squarcio nel velo di Maya, il superamento di sé stessi, la messa al bando del cogito cartesiano – che tuttora regge e motiva qualsivoglia predicatore del gruppo editoriale succitato – e il tentativo di segnalare, attraverso la deformazione e l’eccesso, quei coni d’ombra su cui la ratio socratica non è ancora riuscita – e secondo me non riuscirà mai – a gettar luce.
Parliamo del tuo primo romanzo, Plastic Shop. È un testo che, personalmente, ho trovato originalissimo. Un gruppo di amici che compie una specie di esperienza joyciana all’interno di un gigantesco centro commerciale. Credo non si sia mai vista una storia simile nella letteratura italiana. Tu hai portato lo spleen tra le vetrine dello shopping. Come ti è venuta una simile idea?
Mi è venuta perché ci sono stato, ed è lì che ho potuto toccare con mano ciò che Nietzsche intendeva per “Volontà di potenza”. Lo spettacolo di un centro commerciale, affollato di polli da batteria nel periodo dei saldi, vale più di dieci saggi di sociologia o di psicologia comportamentale. È stato come farsi di una qualche sostanza psicotropa, discendere nei molteplici strati di ciò che comunemente chiamiamo “coscienza”. Quello che ho potuto osservare è stato uno sfarfallio di volontà attirate ora da una parte ora dall’altra, a seconda della fluorescenza, più o meno lisergica, dei neon sulle vetrine made in Calvin Klein o Gutteridge. Quindi disgregazione, polverizzazione di quell’unità identitaria tanto cara a una certa tradizione filosofica. Non ho mai visto andare così bellamente in vacca l’idea hegeliana di autocoscienza come di fronte a una insegna Benetton. Senza contare che, come amava dire René Girard, “più la vacanza è insulsa e fiacca più affiorano in essa il mostruoso e lo spaventoso”. Anche qui immagino che qualcuno non avrà afferrato il senso. Cazzi suoi.
Questo tuo primo romanzo, a fronte del tono scanzonato e a tratti delirante, ha una dimensione profondamente politica. Tu sei stato molto bravo perché non hai reso il portato critico in modo didascalico, ma l’hai fatto venire a galla attraverso le descrizioni e gli stati d’animo dell’io narrante. Per farla breve, cosa rappresenta il centro commerciale che descrivi, questo Moloch che si innalza fuori dai confini della città e che è una città a parte? Io, in questa sua distanza dal mondo ci vedo un qualcosa di utopico che, però, si rovescia nel suo contrario, divenendo la più terribile delle distopie.
Anche qui, ognuno è libero di riconoscere ciò che crede in quello che scrivo. Mi sono addirittura sentito dire che si tratta di un libro marxista, o del ritratto di una generazione senza speranza dominata dai miti del consumismo – Porca troia! Come ho già detto altre volte non c’è nulla che mi faccia più schifo delle ideologie, degli “ismi” di ogni tipo. In parole povere me ne fotto del futuro, dell’uomo, dei giovani, del pensiero, del prossimo. Sono tutte categorie vuote che non stanno a significare un cazzo. Quello che tu definisci un Moloch distopico è semplicemente un espediente narrativo per mettere in risalto ancora una volta il disgusto, quella che tanti anni fa andava di moda con il nome di “nausea” nei confronti di una certa umanità che però è sempre pre-politica, pre-sociale, pre-umana, forse più vicina all’ordine degli invertebrati, e che, devo ammetterlo, mi affascina ben più di ogni imbalsamato Discorso sul metodo.
Veniamo al secondo romanzo, Porn Food. Senza troppi spoileraggi, è la storia di un omicida, di un uomo che ama il male, la dissoluzione, che ricorre all’assassinio perché animato da un senso dell’assurdità dell’esistenza simile a quello del famoso protagonista di Lo straniero di Camus. La cosa divertente è che tu prendi gli assunti di base dell’esistenzialismo e li mandi – in modo gradevolissimo – in vacca. Come mai una parodia di quel filone filosofico che pure, se non ho percepito male, rientra nella tua visione del mondo? Ma, soprattutto, com’è che la tua mente – palesemente malata – concepisce simili storie?
La mia mente riflette il mondo, e ti assicuro, bello mio, che la realtà va ben oltre la mia misera inventiva. Penso che, metaforicamente, l’idea di uccidere sia il primo pensiero a piantarsi nella testa di una persona normodotata quando al mattino esegue il suo primo accesso a Facebook – ci sono anche degli strani personaggi che lo consultano addirittura di notte, ma qui dovremmo interpellare un bravo psichiatra per venire a capo di qualcosa. Insomma, siamo nel trionfo dell’assurdo e qui non c’è dubbio. Ma c’è anche da dire che non siamo più nel ’42, un’epoca ancora fortemente ideologizzata e pesantemente ottocentesca – basti pensare che quel buffone di Hitler era ancora a piede libero e sparava stronzate sulla razza, i campi di sterminio e quelle scemenze lì. Oggi non c’è quella gravità, quell’urgenza. C’è piuttosto una nuova ermeneutica del selfie e dell’apericena on the beach – e poi il malato di mente dovrei essere io! Quindi è caduta anche quell’ultima speranza di potersi prendere sul serio, ed ecco che il miglior modo di dire qualcosa di intelligente è farlo, comunque, con quell’ironia tanto cara a Schlegel. Ironia intesa come distanza, inadeguatezza, senso del limite, e che si traduce in dissacrazione, iperbole e gratuità.
Andrea, mi racconteresti delle tue influenze letterarie? Chi sono? Di che autori si tratta e cosa, in particolare, ti ha ispirato di ognuno di loro?
Non ho un mentore ben preciso, se consideri che ci sono dei passaggi da farti rizzare i capelli nel Pentateuco, nella Metafisica di Aristotele e in Il giornalino di Giamburrasca. Francamente, appenderei a testa in giù tutti quelli che straparlano di gialli, romanzi storici o legal thriller, procedendo per compartimenti stagni un po’ come se si fosse su una tabella excel. A credere nei generi, e a impartirli al pubblico ludibrio da lettura sul comodino prima di rimboccarsi le coperte, sono i recensori della domenica che danno consigli in base a classifiche e strani algoritmi ricavati dalle vendite negli autogrill. Il che è buffo, perché se parli con loro ti sentirai dire che sono costretti a far così dal mercato eccetera eccetera, che devono pagarsi l’affitto in centro eccetera eccetera. Ebbene, io sono ricco per conto mio e non ho di queste necessità, quindi che se ne vadano al diavolo! Tutto questo per dire che è da teste di cazzo ragionare per generi, e lo stesso vale per quanti si vantano di leggere venti o trenta libri all’anno perché “un buon libro è sempre un buon libro”. Non esiste frase più imbecille di questa, vista la mole di pubblicazioni marce e prossime al livello homo habilis cui assistiamo tutti i giorni. Per cui penso che, se questi deficienti andassero a ubriacarsi in una stamberga, passerebbero meglio il loro tempo, anziché perdersi in consigli non richiesti sulle avventure dell’ultimo commissario appassionato di cucina e belle donne. Se la risposta non fosse chiara, consiglio al lettore un attento ripasso della medesima.
C’è un autore, tra quelli attuali, in Italia, che apprezzi particolarmente? Se sì, perché?
Mi chiedi un autore, e me lo chiedi attuale, due cose in apparente contrasto, visto che il presente ci restituisce perlopiù letteratura d’evasione, da ombrellone o da gita in campagna. Ma non farmi essere maleducato con i miei colleghi. Non parlo male di quelli ancora in vita. Un giorno potrei ritrovarmi a dovergli pagare da bere per rimediare al danno.
Ora ci vuole una chiusura che faccia scandalizzare gli intellettuali più seriosi e inumidire le femmine con la peggiore secchezza vaginale. Ergo ti pongo questo quesito capitale: credi che la tua produzione artistica abbia segnato uno spartiacque nella narrativa italiana?
Assolutamente sì. E, questo, non tanto per le mie ormai altissime vendite, quanto per aver riagganciato la narrativa alla realtà, deodorandola di quel tanfo da rubrica di “spettacoli e cultura” del fine settimana. E me ne sono accorto non molto tempo fa, quando, dopo una presentazione, una ragazzina mi si avvicinò confessandomi di aver imparato a masturbarsi da un mio libro.
Matteo Fais