Rompere gli specchi. Intorno a una poesia di Victor Segalen
Poesia
Giorgio Anelli
L’ultimo sgarbo glielo fecero poco prima di morire. Morì il 13 marzo di quarant’anni fa. L’anno prima, il 2 gennaio del 1978, aveva sposato, in forma religiosa, Ada: erano all’Ignatianum di Messina, Vanni Scheiwiller tra i suoi testimoni, si legge una sua poesia, Oggi. “Oggi ignorando tutto/ di questo giorno,/ se d’Avvento o Passione,/ ignorando i colori, le pianete,/ m’inginocchio nella tua casa/ sotto la tenda che portiamo ovunque/ per aprirla per chiuderla a tua offesa,/ aprirla ancora, nei boschi/ in fuga, su secche, su frangenti,/ dal capolinea a un punto della corsa”. La figlia Elisabetta era nata nel 1975. Quella poesia, Oggi, appartiene a una delle raccolte più grandi del poeta, L’osso, l’anima. Pubblicata da Mondadori. Come altri libri, personalissimi, feroci come morsi, come ideogrammi slanciati su una stele. L’aria secca del fuoco, La discesa al trono, Marzo e le sue idi. Eppure, Pier Vincenzo Mengaldo non ritiene di installare Bartolo Cattafi tra i Poeti italiani del Novecento. Il poeta si arrabbia, pensa, scrive. Il 18 gennaio 1979 spedisce una lettera ufficiale alla Mondadori, che forse riassume il rapporto anticonformista, polemico – per natura propria, mica per spirito di polemica –, alieno di Cattafi riguardo al piccolo mondo della poesia italiana. “L’antologia del Prof. Mengaldo è a mio avviso il frutto di un’operazione bizzarra, snobistica, estremamente opinabile, rozzamente partigiana”. Non è il solo a pensarla così – di solito Cattafi non le mandava a dire. Morirà, appunto, meno di due mesi dopo. Fu l’ultima lotta. “Nel quadro della poesia italiana del secondo Novecento quello di Bartolo Cattafi rappresenta il caso più clamoroso di sottovalutazione critica”, scrive, da subito, Raoul Bruni, introducendo il volume-monstre che raccoglie Tutte le poesie di Cattafi (Le Lettere, 2019), quasi mille pagine, comprese Notizie dei testi e Bibliografia della critica, per la cura di Diego Bertelli. Ribadendo i fatti oggettivi (poi non li dico più): Cattafi è tra i cinque/sei poeti potenti degli ultimi sessant’anni. Cioè: è uno che impone una lingua nuova, ricca di svariate, contradditorie fonti – Bruni fa un ottimo lavoro sviscerando la biblioteca di Cattafi, che va da Kafka e Michaux a “molteplici riferimenti all’alchimia”, fino all’hard boiled, la spy story (con una certa predilezione per Ian Fleming, citato in una poesia, L’aliscafo), “certa letteratura e cinematografia noir” – un linguaggio lirico che il tempo non ha degradato, anzi. Poi, certo, c’è la leggenda del poeta conradiano, che fa il dandy esistenzialista a Milano, zona ‘Giamaica’, già amico dei poeti, Un poeta alla Hemingway, come sintetizzò Giovanni Giudici – d’altronde, a lui piaceva alimentare la corrusca vitalità: “certi suoi viaggi in Europa e in Africa e relative situazioni avventurose sono già oggetto di favola tra gli amici”, scrive, autoritraendosi, nel 1955. Giocava all’enigma e al vizio della virilità, Cattafi: “A Siviglia sfuggii per un soffio alla lama di un gitano geloso della sua splendida e infedele fidanzata. Ad Orano, nel 1953, ero perseguitato da alcuni contrabbandieri: la polizia mi dette una scorta di due flic con i quali potei visitare anche le case più segrete della città araba… A Dublino, non sapevo una parola d’inglese e non avevo in tasca un soldo: decisi di fare il cieco e mi misi a battere col bastone sul marciapiede”, racconta, questa volta nel 1972. Eppure, la balordaggine del vitalismo – a volte un giogo – non intacca la disciplina pura con cui il poeta lavora, a colpi di bisturi la sua poesia. “Tu continui a scrivere delle bellissime poesie in un modo sempre più alieno dalla poesia… la poesia resta ancora il primo mezzo di dissenso, di protesta, di revisione”, gli scrive Vanni Scheiwiller. L’alieno, l’avventuriero, il poeta che si avventa nell’avvenire. (d.b.)
Intanto. In sede introduttiva Bruni sottolinea un paio di cose sacrosante. Primo: la letteratura italiana è fatta, in gran parte, di “irregolari”, “marginali”, “eccentrici”. Tra cui va inserito Cattafi, “il caso più clamoroso di sottovalutazione critica”. Come si spiega questa sottovalutazione? Cecità congenita a certa critica; inappetenza di Cattafi ai club intellettuali; idiosincrasia politica; voce lirica, la sua, troppo ‘altra’ rispetto al canone dominante?
Raoul Bruni: Molte sono le ragioni che possono spiegare la travagliata fortuna critica di Cattafi, anche se nessuna di esse è tale da giustificare un simile ostracismo: a quelle da te suggerite, va aggiunta la scarsa attitudine autopromozionale e la sua assoluta refrattarietà a ogni programma poetico condiviso. Il capolavoro poetico di Cattafi, L’osso, l’anima esce sintomaticamente nel 1964, giusto un anno dopo la fondazione del Gruppo 63; eppure la distanza di Cattafi dall’esibito sperimentalismo dei protagonisti di quella stagione poetica appare siderale. Cattafi rimase sempre una figura appartata, non perché gli mancassero amici e estimatori influenti (da Sereni a Raboni), ma per scelta, anzi per vocazione.
Vi chiedo di riassumere in pochi tratti il carisma lirico di Cattafi: da cosa si compone, dove nasce?
Diego Bertelli: Volendo adoperare un termine caro a Raboni e usato a proposito da Adele Dei, Cattafi non è stato un poeta “tempestivo”. Con questo intendo dire che a differenza di molti altri poeti a lui coetanei la sua lingua non ha risentito del peso del tempo e del suo tempo. Pensiamo alla vicinanza temporale tra Qualcosa di preciso, L’osso, l’anima e la Neoavanguardia (di cui si parlava prima), oppure tra Cattafi e Pasolini, nati entrambi nel 1922, o tra Cattafi e Giudici, di poco più giovane. Se leggiamo questi altri poeti, in parecchi casi sentiamo una distanza, è un fatto inevitabile; per quel che riguarda Cattafi, invece, quella distanza non si percepisce: la sua lingua non si è storicizzata come le altre. Il suo carisma lirico, come lo definisci, risiede prima di tutto in questo. In più, c’è lo sviluppo di un ritmo, di una prosodia cattafiana, specie nelle serie di nomi, verbi, aggettivi che si accumulano e variano all’ultimo, come un dribbling. Con questa lingua Cattafi arriva da solo a conclusioni cui anche altri poeti sono arrivati negli stessi anni ma senza il sostegno di poetiche forti o di ideologie forti. Sua è la forza di un’intuizione lirica portata alle estreme conseguenze. Specie gli anni Sessanta sono il momento in cui si ha un cambiamento di registro e di stile epocale per la poesia italiana del tempo; per Cattafi, nello specifico, in quegli anni si compie una maturazione dei temi e dello stile personalissima. Cattafi in un curioso articolo a suo nome del 1961 nel quale annunciava la vittoria al Premio Carducci con Qualcosa di preciso afferma questo di sé: “è considerato tra le voci più valide della ‘linea lombarda’”. Si tratta di un raro esempio di auto-classificazione, che nel caso di Cattafi risuona ancor più significativo, considerando l’idiosincrasia del poeta al riguardo. In ogni caso partire da qui, dalla poesia in re che serve come base di una visione straniante ma netta del reale, in cui impulso biologico e prosodia danno vita a uno dei risultati più originali della poesia italiana della seconda metà del Novecento.
Nell’introduzione si citano alcune fonti di Cattafi. Certe sono ‘sporche’, penso alla “letteratura poliziesca”, a Ian Fleming, a Chandler. Cosa c’entrano queste letture con il poeta, come entrano nella sua poesia? Soprattutto: cosa leggeva Cattafi?
Raoul Bruni: Un aspetto che anche i critici più attenti di Cattafi avevano finora trascurato riguarda la sua cultura eclettica, molto più profonda di quanto comunemente si creda. Nel catalogo della biblioteca personale dell’autore si trovano, accanto a classici della letteratura contemporanea, volumi di esoterismo e alchimia, e, appunto, molti polizieschi, hard boiled e spy stories (di Ian Fleming, per esempio, Cattafi possedeva un’ampia collezione di volumi e, a quanto testimonia la vedova Ada De Alessandri, andava spesso al cinema a vedere i film della serie 007). Anche queste lettura che, soprattutto all’epoca in cui Cattafi scriveva, erano confinate tra la letteratura di consumo, hanno contribuito a rendere unica la poetica dell’autore. Nell’opera di Cattafi compaiono infatti pistole e armi da fuoco, e alcune poesie sono attraversate dallo stesso sentimento di suspense che distingue i romanzi noir. Tornando a Fleming, nessuno aveva notato che in una poesia dell’Aria secca del fuoco (L’aliscafo), Cattafi rende esplicitamente omaggio al romanzo Thunderball (da poco ritradotto presso Adelphi).
Mi sorprende il lungo tratto di silenzio lirico – “più di otto anni”, testimonia Raboni – di Cattafi, quasi che la poesia sia mostro e turbamento, cosa che non ha stagionatura quotidiana, lotta al silenzio. Cosa accade in quegli otto anni?
Diego Bertelli: Io credo che nulla valga di più di queste parole di Raboni: “[…] per più di otto anni, Cattafi non scrive una sola poesia, un verso che non sia uno. Chi non conosce Cattafi (voglio dire l’uomo Cattafi) può credere che si tratti di un’esagerazione o di un modo di dire. Non è così. Posso assicurare che, in quegli anni, Cattafi ha fatto di tutto – ha viaggiato, pagato debiti, offerto pranzi; si è costruito una casa; ha dipinto dei quadri, alcuni dei quali decisamente belli; si è persino sposato – tranne che scrivere poesia. A chi gli chiedeva notizie o spiegazioni della cosa, opponeva un sorriso cortese e un po’ ironico. Non ha mai teorizzato il silenzio, né durante né dopo; si è limitato a praticarlo, per quanto ne so senza alcuna particolare fierezza ma anche senza pentimenti o patemi e, in ogni caso, senza il minimo trucco o patteggiamento. Niente abbozzi cestinati, tentativi, dubbi, crisi. Niente di niente; non una riga, non una parola”. Eppure è molto interessante un documento inedito ritrovato da Giada Moneti, che ha recentemente ricostruito il carteggio Cattafi-Machiedo, l’amico e traduttore croato, di cui abbiamo riportato poche ma significative righe nel libro: “Ora dovrei spiegarti perché non ti ho scritto in tutti questi anni. La medesima risposta dovrei darla a tutti gli altri amici che ho sparsi per il mondo. La risposta è semplice, brutale, veritiera: pazzia, blocco psichico, nevrosi, astenia, grafofobia”. Siamo nel 1970, Cattafi sarebbe tornato a scrivere di lì a poco poesia e quel riferimento a Machiedo e agli altri amici può essere letto anche in relazione agli anni in cui non scrive versi.
Che rapporti ha – di affinità letteraria, di amicizia – Cattafi con i poeti del suo tempo?
Diego Bertelli: Cattafi è stato un poeta e un uomo che ha avuto strenui sostenitori (per quel che riguarda nello specifico Raboni sarebbe il caso di andare a vedere quanto Cattafi abbia esercitato su di lui un’influenza vera e propria come poeta) o, viceversa, strenui oppositori. Alla sua poesia, così come alla sua figura di uomo, non si addicono le vie di mezzo. A Milano Cattafi ha conosciuto davvero tutti a partire dalla seconda metà degli anni Quaranta e ancor più tra la fine degli anni Cinquanta e la fine dei Sessanta. Ora, Cattafi non è il tipo che fa complimenti a nessuno né tanto meno recensisce gli amici o i poeti che potrebbero a sua volta recensirlo. Quell’atteggiamento schietto è stato in certo senso il motivo del suo isolamento, insieme al fatto di non partecipare, vestendo i panni dell’intellettuale organico, al dibattito ideologico del suo tempo. Le affinità letterarie vanno cercate fuori dei confini italiani, come si sottolinea nell’introduzione, ampliando nella sua introduzione il ventaglio dei riferimenti finora fatti. Quello che mi ha sempre sorpreso è invece l’atteggiamento dei molti, specie dopo la sua morte, che ben riassume Andrea Inglese quando scrive: “Cattafi era conosciuto da tutti ma nessuno ne parlava. Se proprio se ne doveva parlare, se ne parla bene, ma per subito passare ad altro”.
Estrapolate una poesia esemplare di Cattafi, oppure un verso, un distico e spiegateci perché è importante.
Diego Bertelli: Ho recentemente tradotto una serie di poesie di Cattafi insieme alla poetessa statunitense Catherine Barnett per una prossima pubblicazione su rivista, e tra queste ho scelto quella che amo di più. Si tratta di Niente, una poesia recuperata tra i suoi inediti da Paolo Maccari nel 2003 e uno dei testi più esemplari di Cattafi:
È questo che porti arrotolato con cura, piegato
in quattro, alla rinfusa sgualcito, spiegazzato
ficcato ovunque
negli angoli più oscuri.
Niente da dichiarare
niente
devi dire niente.
Il doganiere non ti capirebbe.
La memoria è sempre contrabbando.
Credo che il testo sia un esempio efficace della lingua cattafiana, con quei suoi accumuli e scarti e impennate, distesa e poi veloce oppure il contrario, quasi sempre imperniata su una seconda persona singolare che è tutto tranne un istituto come in Montale; lingua dominata da un elemento di inquietudine costante, che riassorbe passato e presente in oggetti descritti o più spesso osservati, fissati a lungo, come attraverso una lente deformante.
**
Un’area
Un’area molto estesa
nel tempo e nello spazio.
Ebbe feste, bandiere,
usi e costumi rilassati,
abitanti abili
dediti a commerci redditizi,
mercanti, meretrici, giocolieri.
Nazione di losco splendore
fu sempre amata dall’intimo dell’anima
per la pronta destrezza, l’ingegno
perverso, l’impossibile
ingresso nel suo cuore.
*
La pesca delle aguglie
Protesi sugli abissi
di nottetempo mettono a soqquadro
con clamore e lampare
le acque chete
con forcine fiocine forchette
bucano il banco d’aguglie
i mille rivoli d’argento filante.
Ed i colpi più forti
dove più fitte sono le fibre notturne
a proteggere la vita
che comunque offre il fianco baluginante.
*
Ripudio
Chi entra in una chioma d’albero
si sofferma là dentro si rigira
e rinverdito ne esce
rinfrescato
inerme e agguerrito in un’altra sfera
le pianure riarse ripudia
le masse impure
operanti nel cuore
i nemici lucenti come scaglie
in ordine sparso sulle nostre pianure.
*
Ossi
Ora spoglie di tutto
– vesti e carni corrotte –
sono linee e giunture
ossi liberi e lieti
in un mondo più puro.
Bartolo Cattafi