26 Febbraio 2018

Ivan Vyrypaev a teatro: 60 minuti di noia (preferisco mia nonna con i ferri da maglia). E se proprio deve essere ‘fucking’, meglio in un letto caldo con una bella fanciulla

Genesi N. 2 – portato in scena al teatro degli Atti di Rimini dalla compagnia Big Action Money – ha per protagonista Antonina Velikanova, una donna affetta da acuta schizofrenia, in cura presso un ospedale psichiatrico. L’autore Ivan Vyrypaev, si legge nel foglio di sala, “si rivolge al pubblico ponendo se stesso come personaggio all’interno della pièce, sostiene che il testo dello spettacolo sia stato scritto dalla stessa Antonina, e di non aver fatto altro se non apportare qualche aggiunta al testo e depositarne i diritti d’autore. Antonina Velikanova è in balia di un misterioso torturatore, alias il medico curante di Antonina, che per un motivo ignoto tormenta la propria paziente cercando di convincerla che tutto ciò in cui lei crede non è reale. A partire da Dio. Antonina Velikanova annebbiata dalla propria malattia identifica il proprio medico con Dio stesso, così nasce il paradosso di un Dio che ripete instancabilmente la propria non esistenza”. L’alfabeto per realizzare un buon lavoro, sulla carta, c’è tutto. In realtà – come accade spesso per gli spettacoli presentati con troppa enfasi o “strizzamenti” di cervelli, o che sfociano nella psichiatria o nella malattia – la messa in scena diretta da Teodoro Bonci del Bene e “realizzata” attraverso i corpi e le voci di Dany Greggio e Carolina Cangini (meglio lei di lui) risulta complessivamente semplicistica e assai debole, quasi imbarazzante. Non tanto per la discreta prova d’attrice della Cangini ma piuttosto per Greggio che per quasi tutta la durata del lavoro “legge” sulla cartellina le battute da dire. Non giova al lavoro poi il disegno delle luci, alla lunga (60 minuti) un po’ “piantate”, così come la proiezione delle immagini in diretta su quattro schermi, posizionati tra il fondale e la scena (escamotage trito e ritrito, attraversato da decenni e con risultati decisamente migliori da altri artisti, su tutti i Motus, che hanno come cifra poetica la grande capacità di operare su diversi linguaggi visivi). Tempo buttato via, quello speso per il primo dei due spettacoli in programma: ci fosse stata mia nonna in platea assieme a me, in 60 minuti sarebbe riuscita a farmi una sciarpa di lana con i ferri da maglia, realizzando qualcosa di decisamente più utile. Con Ossigeno invece, interpretato da Tamara Balducci e Teodoro Bonci del Bene, le cose vanno lievemente meglio. Al di là delle immagini in presa diretta che vanno a spiare i due attori nei camerini mentre si cambiano gli abiti (che due maroni), il “dialogo” tra due un ragazzo e una ragazza che si portano addosso lo stesso nome (Sasha) viene ridotto a due monologhi stile rapper – quindi microfono in mano e annunci-spot – che, nonostante la “forma”, perlomeno raccontano una storia. Forse troppo “yankee” (che fastidiosa la parola “fucking” appiccicata a oggetti e cose: se proprio deve essere, perlomeno che sia in un letto caldo assieme a una donna), ma perlomeno una storia. Il problema, semmai, è un altro: lo stesso testo e lo stesso autore erano già passati davanti ai miei occhi, più o meno nel 2009, nella bella e curata versione del Teatrino Clandestino. Ovviamente il pubblico ha applaudito. Va detto che questo gesto collettivo non misura un bel niente. È risaputo che, nonostante non sia scritto dietro al biglietto d’ingresso, a fine spettacolo si deve fare clap clap. Come le foche.

Alessandro Carli

Gruppo MAGOG