Il luogo letterario dove vorrei traghettare la mia vecchiaia si chiama Zembla. Zembla è il cuore sinistro del più eccentrico romanzo del Novecento. Lo ha scritto Vladimir Nabokov. S’intitola Fuoco pallido. Anno di grazia 1962. Il romanzo, di fatto, si snoda attraverso le note redatte da Charles Kinbote al poema, in 999 versi, del celebrato lirico americano John Shade, che s’intitola Fuoco pallido, appunto. Kinbote è l’erede del re di Zembla, “mia amata patria”, “una regno di pace e di eleganza”, dove “fiorirono le arti gentili e le scienze pure” e “armonia, sì, era questa la parola d’ordine del regno”. Nella geografia nabokoviana, Zembla adombra l’Eden russo prima della Rivoluzione. Risposta banale. Questa “remota contrada nordica” con il nome di Nuova Zembla è censita nei reperti geografici dell’era dei lumi. “Gli Olandesi pretendono di essere stati i primi a scoprire questa Terra nel 1594 cercando il passaggio per l’Oceano Settentrionale per andare per là nel Giappone, e della Cina, ma ne furono impediti dai ghiacci” (Istruzioni di Commercio e suo stato antico, e moderno, Napoli, 1804). In effetti, la terra avita è una ostilità di iceberg e di deserto infecondi, “Gli Zemblani non esistono fuorché idealmente; il paese detto la nuova Zembla significa in lingua Russa, nuova terra, ha pochissimi abitanti”, scrive Buffon nella sua Storia naturale; “Nella Zembla la natura offresi nel più selvaggio aspetto, giacché questa non è quasi formata che da una catena di montagne abbastanza elevate. L’aspetto ne è più orribile che maestoso”, conclude con radicale inerzia il Dizionario delle origini invenzioni e scoperte nelle arti, nelle scienze, nella geografia, nel commercio, nell’agricoltura ecc. ecc., stampato in Milano nel 1831. Zembla, in effetti, nome esotico da donna spagnola, più che altro è una patria utopica. Lo dice anche Nabokov, in un passo di Fuoco pallido, accennando alla “Zembla abbagliante che mi infiammava la mente”. Già, ma da dove viene il fascino di Nabokov per i remoti artici, per i regni del ghiaccio? La risposta richiede un viaggio nel tempo. Siamo a Londra, negli anni Venti. Nel 1919 Vladimir studia al Trinity College, Cambridge. “Durante una visita al British Museum ammira i diari di Scott in una teca”. Robert Falcon Scott, il grande esploratore britannico ossessionato dalla scoperta del Polo Sud, che morì, di ritorno dalla spedizione, nel 1912. Nabokov ne è impressionato. Negli anni Venti i Nabokov si trasferiscono a Berlino, la Gerusalemme celeste dei russi in esilio; nel marzo del 1922 il papà di Nabokov, già parlamentare zarista, viene ucciso da fanatici monarchici. “A 24 anni, mentre lavorava, d’estate, in una fattoria nel sud della Francia, è il 1923” Nabokov butta giù a un atto unico dal titolo Polyus, cioè ‘Il Polo’. Il testo è pubblicato tra il 14 e il 16 agosto 1924 sulla rivista russo-berlinese Rul’. Il testo, pressoché sconosciuto, me lo mostra il poeta neozelandese Bill Manhire, che l’ha riscoperto allestendo l’antologia The Wide White Page, una raccolta, da Coleridge a Jules Verne, da Poe a Lovecraft, Ursula LeGuin e Michael Chabon, di come “gli scrittori immaginano l’Antartide”, pubblicata dalla Victoria University Press. Il testo, in realtà, è stato tradotto in inglese da Dmitri Nabokov, il figlio di Vladimir, nel 1984, nel libro The Man from the USSR and Other Plays. La pièce è di precoce bellezza. Nabokov ‘falsifica’ i taccuini di Scott – il testo comincia con una fasulla citazione “dai diari di Scott”, “era una vero galante gentiluomo” – e narra gli ultimi istanti dell’esploratore. Conquista, soprattutto, il legame capitale tra Scott e il diario, tra l’esploratore e la scrittura (“Ho bisogno di pregare… il mio diario – eccolo, il mio umile, fedele libro d’ore”), come se i luoghi esistessero davvero a patto che qualcuno li descriva. Il finale è una folgorazione nabokoviana, con Scott che sussurra al fido Fleming, “la gente ama le favole, non è forse vero?”, quasi che l’epopea delle scoperte geografiche non abbia altro scopo che quello: raccontare storie autorevoli e autarchiche. Ecco, allora, la necessità di Zembla, di un luogo che sia periplo di leggende, isteria retorica. Storia nella storia. Il 28 settembre 1996, per venti repliche, a Berlino, va in onda Polius, per la regia di Klaus Michael Grüber, già assistente di Giorgio Strehler. La traduzione in tedesco del testo è d’autore, è di Botho Strauß. A interpretare il capitano Scott, il super Bruno Ganz. L’allestimento gira poco e male, va a Zurigo, a Losanna, al Festival d’Automne di Parigi. Poi entra di diritto nel dimenticatoio. E se lo rimettessimo in scena? Intanto, che qualcuno – Adelphi, il grande ‘nabokovizzatore’? – si sbrighi a tradurlo. Per voi, un brandello.
Cap. Scott: Addio… (Flaming se ne va). Sì, ce la farà… dodici miglia… poi la tormenta sta svanendo… (pausa). Devo pregare… Il mio diario – eccolo, il mio umile, fedele libro d’ore… Inizio dal mezzo (legge): “15 novembre: la luna brilla come un falò e Venere sembra una piccola lanterna giapponese…” (gira pagina) “Bravo Kingsley. Sembra sempre che stia giocando – robusto, leggero… Problemi con i nostri poveri cani: Gypsy è diventato cieco, e Grouse è scomparso: caduto nel buco di una foca, penso…”.
“Vigilia di Natale: oggi il cielo era illuminato dall’aurora boreale…” (gira pagina) “8 febbraio: il Polo. La bandiera norvegese sventola dalla neve… Siamo stati sconfitti. Mi dispiace per i miei fedeli compagni. E ora dobbiamo tornare indietro”. (gira pagina) “18 marzo: ci stiamo allontanando. Le slitte sono bloccate… 20: cacao finito e carne secca… I piedi di Johnson non stanno bene. Lui è allegro, è ancora lucido. Continuiamo a discutere su cosa faremo al nostro ritorno”. Bene, ora devo aggiungere solo – ma la matita è rotta. Suppongo che sia il finale più appropriato…
Signore, io sono pronto. La mia vita, come l’ago di una bussola, ha tremato e ha puntato al Polo – e Tu, tu sei quel Polo… I miri sci hanno lasciato tracce sulle tue innumerevoli nevi. Non c’è altro. Questo è tutto ciò che è. (pausa) A casa, a Londra, con qualche giocattolo o altro… e un parco in città, bagnato dalla luce del sole, le ginocchia nude… cosa diranno… (pausa) Tutto è quiete. Immagino Fleming sull’infinita e lucida pianura – cammina e cammina, muove gli sci in modo così preciso – uno, due… scompare… non ho fame… una enorme debolezza, una quiete enorme si rapprende sul mio corpo… (pausa) forse è delirio…