L’editore Biblohaus pubblica un libro-omaggio allo studioso Massimo Gatta e alla sua lunga “militanza” nella raffinata casa editrice di Macerata. Bibliotecario, critico, bibliofilo, grandissimo esperto di storia del libro e dell’editoria, Massimo Gatta è famoso per le note puntualissime ed erudite che punteggiano i suoi libri. Il volume di Biblohaus, dal titolo “Qui Gatta ci cova: le note notevoli”, raccoglie in modo ironico, leggero e dotto, solo alcune note particolarmente interessanti scritte da Gatta, ma senza testo, per libri e editori diversi nel corso degli anni. Pubblichiamo qui il testo introduttivo del volume, di Luigi Mascheroni. Un vorticoso excursus letterario dal titolo “Elogio della nota”.
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Non la trama, ma l’ordito. Non il poema, ma la parafrasi. Non la narrazione, ma l’annotazione. Non il testo, ma l’esegesi. Non la creatività letteraria, ma la critica. Non il racconto lineare: ma postille, chiose, glosse, scolii, citazioni, riferimenti, commenti, interpretazioni… Le grandi pagine volano alto, le note stanno coi piedi per terra.
E se la grande letteratura fosse fatta (anche) di note? Ovvero: quando il testo in nota non è breve e soltanto esplicativo, ma diventa una vera e propria narrazione, complessa e fantasiosa. Tipi di note: nota a piè di pagina, nota a margine, nota a fine capitolo, nota a fine del libro. Poi ce ne sono di geniali, di pedanti, di fastidiose, di illuminati oppure aridi elenchi bibliografici… Come ha spiegato lo specialista della materia Anthony Grafton (nota: Anthony Grafton, La nota a piè di pagina. Una storia curiosa, Editrice Bibliografica 2021) le note per alcuni storici rappresentano l’occasione per esibire credenziali, per altri offrono l’opportunità di pugnalare i colleghi. L’importanza di stare sul margine.
Certo, le note sono “note al testo”. Ma poi ci sono i testi costituiti da un’unica lunga nota. E note – eccoci al punto – che sono a loro volta testi straordinari. Ci sono note nelle opere saggistiche, e anche in quelle di narrativa, talmente esaustive e sontuose che potrebbero costituire un testo a sé. E molte volte è più affascinante leggere solo le note senza il testo che il testo senza note. Riuscendo a capire benissimo il senso del percorso principale divertendosi però ancora di più a zigzagare lungo le stradine secondarie.
Roberto Bazlen (1902-65), a suo modo uno splendido “secondario” delle lettere italiane, autore di nessun libro ma dispensatore di note eccezionali, di fatto non pubblicò nulla in vita. Scoprì e suggerì, quello sì, opere, collane e autori. Per il resto, ciò che ha scritto è soltanto un’unica sequenza di «note senza testo»: annotazioni leggere, lampi filosofici, abbozzi narrativi, appunti romanzati, note discrete ai margini di testi espliciti, impercettibili note al piede di pagine bianche… “Io credo che non si possa più scrivere libri. Perciò non scrivo libri – Quasi tutti i libri sono note a piè di pagina gonfiate in volumi. Io scrivo solo note a piè di pagina”. Ed è qui che va assolutamente citata – come fosse una nota – l’opera del colombiano Nicolás Gómez Dávila (1913-94), che altro non è se non una summa di fulminanti annotazioni in margine a un «testo implicito» che sta al lettore scoprire…
Vladimir Nabokov (1899-1977) – a proposito e se la sua postfazione Note su un libro chiamato Lolita fosse più bella del suo capolavoro? – ha riempito di note tormentate il romanzo Ada o ardore (1969), ma soprattutto ha scritto un libro in cui il grosso dell’azione avviene nelle note e nell’indice: si tratta di Fuoco pallido (1962), che non è un romanzo ma un poema di 999 versi di tale John Shade, poeta e professore, a cui seguono duecento pagine di note, chiose accademiche, commenti pettegoli redatti da un amico immaginario del protagonista. Note nostalgiche e parodistiche che dovrebbero condurre il lettore alla corretta interpretazione del poema, ricostruendo le avventure del suo presunto ispiratore. E così l’edizione critica di un (finto) poema e un robusto apparato di annotazioni diventano il vero centro di gravità di un (falso) romanzo. A proposito, nota a margine: nella prefazione, Nabokov, sotto false spoglie, parlando delle note raccomanda “di leggerle per prime, poi di studiare il poema con il loro sussidio, rileggendole a mano a mano che si procede nel testo e infine, dopo avere terminato il poema, di rileggerle una terza volta per farsi un quadro completo”. E il testo diventò un mero pre-testo.
Jorge Luis Borges (1899-1986) – maestro nell’arte di usare le note come specchi deformanti per dare più credibilità alla finzione – ha scritto: “Vaneggiamento laborioso e avvilente quello di chi compone vasti libri; quello di dilatare in cinquecento pagine un’idea la cui perfetta esposizione orale richiede pochi minuti. Procedimento migliore è fingere che quei libri esistano già, e offrirne un riassunto, un commento… Più ragionevole, più inetto, più pigro, ho preferito scrivere note su libri immaginari”. E non si tratta di Finzioni.
E Georges Perec (1936-1982)? Il suo libro più noto è La vita, istruzioni per l’uso (1978) – un catalogo letterario più che un romanzo, un puzzle composto di pezzi eterogenei, liste, dialoghi, racconti, descrizioni d’ambiente e note… – ma le sue pagine più belle sono quelle di Note su ciò che cerco (1985), un breve scritto in cui prova a definire il suo modo di lavorare. Peccato non averlo intitolato “La scrittura, note per l’uso”.
Altri scrittori degni di note. Carlo Emilio Gadda (1893-1973), autore meticoloso dell’Adalgisa, una foresta di note (di erudito impianto saggistico ma di strepitosa levatura letteraria), e il Pasticciaccio, che è un romanzo nato con le note e cresciuto con le digressioni. Alberto Arbasino (1930-2020), il cui Anonimo, ne L’anonimo lombardo (1957), costella le sue lettere di note bizzarre e sofisticate (che crescono sempre di più, di edizione in edizione) che formano il vero romanzo. E Umberto Eco (1932-2016), il quale sull’uso delle note ha lasciato precise istruzioni accademiche.
James Graham Ballard (1930-2009), abituato a intrecciare il postmoderno e analisi dell’essere umano, ha invece scritto un racconto, Notes Towards a Mental Breakdown, Appunti verso un collasso mentale (1967) composto da un’unica frase con una nota per ogni singola parola, diciotto in tutto (“A discharged Broadmoor patient compiles Notes Towards a Mental Breakdown, recalling his wife’s murder, his trial and exoneration”), nelle quali si sviluppa la trama di un omicidio (e se per quello, sperimentazione per sperimentazione, Ballard scrisse anche L’indice, dove possiamo solo leggere l’indice di una biografia perduta, senza il racconto). All’estremo opposto – per quanto riguarda la lunghezza – c’è il libro di culto Infinite Jest (1996) di David Foster Wallace (1962-2008), un romanzo monstrum e labirintico di oltre mille pagine, un centinaio delle quali di sole note incastrate tra loro e il testo principale (se ne contano 388, molte delle quali sono note di una nota) che fungono da collante tra vari livelli della narrazione e allo stesso tempo da approfondimento alle tematiche affrontate. Secondo alcuni è probabilmente il romanzo più pieno di note della storia della letteratura: note concatenate, spezzate, che si sostituiscono al racconto principale, che rimandano l’una all’altra, o al testo, impaginate in orizzontale, in verticale, di sbieco, o si specchiano l’una nell’altra… Mordechai Richler (1931-2001), da parte sua, nel romanzo La versione di Barney (1997) immagina che le memorie del protagonista Barney Panosfky siano pubblicate postume e che le vicende narrate siano comprensibili e interpretabili soltanto con l’ausilio di pignole note esplicative del figlio del narratore, che è inoltre autore del poscritto dell’opera, in cui si svela al lettore l’inattendibilità del racconto, del narratore e dei suoi ricordi…
Note, digressioni, citazioni, riferimenti, marginalia. Ci sono le note patafisiche di Alfred Jarry (1873-1907), quelle scientifiche di Isaac Asimov (1920-92), quelle fantasy di Terry Pratchett (1948-2015), quelle “componibili” di Julio Cortàzar (1914-84) e quelle joyciane di Daniel Di Schüler che nel 2016 ha scritto Un’Odissea minuta, un romanzo di venti pagine di testo e il resto, per un totale di 657 pagine, di note. A proposito: parlando di James Joyce bisognerebbe citare la pubblicazione dell’Ulisse (Bompiani, 2021) per la prima volta in edizione bilingue curata da Enrico Terrinoni con un apparato critico vertiginoso: soltanto per la prima parola del romanzo, “stately”, “statuario”, la nota copre quattro pagine costituendo un vero saggio breve sul metodo di tradurre l’Ulisse.
Le mille e una nota… Che meraviglia leggerle senza neppure passare dal testo. Le note non servono solo per dare un senso di verosimiglianza che rafforzi la sospensione dell’incredulità (in letteratura) o per spiegare e approfondire lo scritto principale (in saggistica). Le note sono piccole chiavi per accedere a pianeti satelliti, a volte più luminosi del Sole. E per il resto, forse, a volte, sarebbe bene apporre qualche nota anche alla vita, per spiegarla meglio. E qui è il caso di citare Gesualdo Bufalino (1920-1996): «Senza note a piè di pagina, certe donne non si capiscono». Ma soprattutto Woody Allen: «Tutta la letteratura è una nota a piè di pagina del Faust». Tanto più che subito il regista americano si affretta ad aggiungere: «Anche se non ho idea di cosa voglia dire».
Luigi Mascheroni