05 Ottobre 2022

“Perché più fiorisci, più soffri”. Frank Stanford, Rimbaud di palude, il dannato della poesia americana

A tratti, la storia della poesia americana coincide con quella del rock. La vicenda di Frank Stanford, per dire, sembra sovrapporsi a quella di Jim Morrison: per la psichedelia, la solitudine visionaria, la ricerca di un nuovo linguaggio lirico, dalle estremità brucianti, indigeno e avulso, brutale e metafisico. Figlio della solitudine, tuttavia, Stanford resta alieno alla fama, serpente nella spirale della propria indole.

Stanford nasce nel 1948, in Mississippi, lasciato in una casa di assistenza, adottato da una manager della Firestone. La vita di Stanford è marchiata da relazioni rapaci, insussistenza, vagabondaggio, poesia. Si sposa due volte – l’ultima con la pittrice Ginny Crouch – restando però legato alla poetessa C.D. Wright, che conosce a La Fayette, nel 1975. In un corto girato insieme a Irving Broughton, amico e regista, Stanford denuncia la sua poetica, o ciò che ne segue:

“Non riesci a capire perché occorra scrivere alcune cose. Le metti su carta, e non capisci. La realtà che conoscevo era così strana che presi a confidare nei sogni. Apparivano figure, nitide, come una che perde una gamba, io mi tuffo, la raccolgo, poi torno in città, le restituisco la gamba, le chiedo di uscire, di andare a nuotare insieme. Non è grottesco – strano, piuttosto. A volte ti svegli e sognerai cose che ti sono accadute il giorno prima, di cui non ti sei accorto”.

E ancora:

“Quando fisso la corteccia di un albero, è come guardassi il mio braccio. Potrei pensare al ragno che galleggia lungo l’autunno, a una stella cadente, alla costellazione, a una formula di matematica, a una partita di scacchi che si sta svolgendo proprio ora. Tutto scorre così, credo. Neutrini e Giove, entrambi insignificanti, la differenza di grandezze non conta. Tutto è perpetuo”.

In Arkansas, nel 1976, Stanford fonda la Lost Roads Publishers, con l’intento di scoprire e pubblicare nuovi poeti. Malsopporta i sistemi culturali ufficiali, i diktat dell’accademismo lirico, gli editori prezzolati. Spesso vagabonda nel Sud degli Stati Uniti. A volte si fa fotografare in foggia di cow boy; altre indossa un kimono, pare un Mishima; ama la figura del puma, la luna piena. I primi libri – The Singing Knives, 1971; Ladies From Hell, 1974 – gli garantiscono la fama di “Rimbaud ratto di palude” (così Lorenzo Thomas), per l’eccentricità dei versi, per la cruda violenza, a tratti. Da ragazzo, Stanford comincia ad appuntare il suo libro-mondo, The Battlefield Where The Moon Says I Love You: un libro di un migliaio di pagine e 40mila versi, sorta di immane flusso di coscienza lirico, labirintico, spesso incomprensibile, dominato dall’ossessione della salvezza e della morte, di cui esce, per le sue edizioni, nel 1977, una versione parziale.  

Ragazzo in corsa, mistico dell’abbandono, Stanford scrive disinteressandosi della promessa celata nei suoi versi, del loro enigma futuro; ha lo stigma degli ipersensibili, dei votati al massacro. Il 3 giugno del 1978 si uccide, sparandosi tre colpi al cuore, all’apparenza per un banale screzio con la moglie. In realtà, coltivava cupe depressioni da tempo. Avrebbe compiuto trent’anni due mesi dopo. A chi resta, non resta che cucire un refolo di versi, alloro nero, per posteri svasati dal desiderio. Resta, per fortuna sua, ignifugo al mito, alle agiografie di cartongesso.  

*

[L’ultima cena] da: Il campo di battaglia dove la luna dice ti amo

ho paura dopo aver letto tutte questi libri di iniziazione, diciamo così, che
un corteo di leccapiedi entri nella mia stanza mentre dormo, mi succhieranno
gli occhi con cannucce di soda, simili ai vecchi
amanuensi con l’alito cattivo nell’ufficio del principale
che si ergono per dirti degli Unferth del mondo
ma so che Gesù ti avrebbe preso a calci sui denti, non puoi riempirlo di merda,
mentre diceva quella sera ai suoi discepoli, sono felice che abbiate deciso
di cenare con me, non ho molto, ma ci sono cose che vorrei dirvi
in quel momento Matteo dice a Simone, non so davvero cosa ci abbia preso
quel giorno, comincio a stupirmi che tu abbia parlato con lui,
sì, stavo rivoltando la merda sulla montagna, insieme a lui, ma voglio dirti
questo, che Matteo non arretra mai, si getta addosso
pensai che mi avrebbe ucciso, ma era lì soltanto
per parlare, roteava le braccia, peggio di Giovanni
Giuda si mette le mani in bocca e dice
credo che Gesù se ne stia andando
Simone dice che non voleva parlare di politica, di sogni, di niente,
Giuda, quando vai in Mesopotamia
prendi anche per me quel vino
che fanno laggiù, cosa sicura, dice Gesù
bene, ora il capo sta parlando: vi ho radunati tutti qui
perché sappiate cosa fare nel caso mi accada qualcosa
sapete tutti che uno di voi mi tradirà: gente mi insegue
l’altra sera camminavo per le strade travestito
ne ho visti un paio, non si scherza con i soldati,
se uno di voi si ubriaca e si lascia sfuggire il luogo
dove mi nascondo… se mi scoprissero, vi tormenteranno,
ma non pensarci troppo Pietro, tu non sai neanche chi sei…

*

Frutteto disseccato

a Raymond Radiguet

Come sette uccelli che dormono sugli altipiani
affacciati verso il naufragio dell’amore, il mistero
di visitatori ubriachi che si imboscano
con tua moglie, uomini che biascicano uno storpio accento,
i condannati gli abbandonati, un giorno di reclusione
nel silenzio, due giorni di silenzio, sogni infranti e protetti,
perché più fiorisci più soffri.

*

Di quelli che sono morti

Quando un uomo conosce un altro uomo
si mette a cercarlo
non si nasconde.

Non aspetta
di passare un’altra notte
con la moglie
con i figli da mettere a letto.

Indossa una camicia pulita, l’abito scuro,
va dal barbiere
lascia a un altro uomo la rasatura.

Chiude gli occhi:
si ricorda quando era ragazzo
nudo, sdraiato su una roccia, vicino al fiume.

Chiede la lozione speciale.
I vecchi si mettono in fila presso la seggiola
e il barbiere ne versa un po’
nelle loro mani.

*

Fede, Dogma, Eresia

Era domenica, prima di cena.
Gli zii ascoltavano l’opera.
O.Z. e io abbiamo trascinato mio fratello
l’abbiamo rovesciato sul tavolo.
Le donne cominciano a urlare.
Mio fratello si è tirato su
con il sangue crudo nelle mani,
Abbiamo ucciso quei bastardi, i Canale
e nessuno ci dirà nulla!
Gli uomini chiudono gli occhi e ballano.
Abbiamo bevuto fino al mattino
quando tutto è quiete.
Si sono asciugati gli occhi, ci hanno dato un bacio, se ne sono andati.

*

L’amico del Nemico

Il tuorlo mi è colato lungo la gamba
come una meravigliosa lumaca senza guscio,
scollina
presso la pentola, le futili ninfee
nelle labbra dei pesciolini dello stagno,
lungo il ventre della trota – i dominatori degli inferi
si tuffano, si perdono, finiscono
nella zampa della pantera zoppa
che si rincantuccia nella tana.
Quanto al bianco, è rimasto con me,
marchio della bestia, della nascita, della merce.

*

Nell’altra stanza bevo uova da uno stivale

E se la luna fosse essenza di chinino
i tacchi alti il monumento della giornata
quando certi uccelli sanguinano
e l’autista ne riferisce al cuoco
il corno si insinua nei banchi del ghiaccio
nuota con una lampada
tremiamo in un fosso
mordiamo un’ala nera
e ci sarebbero barche
ci sarebbe un paese dei sogni
il vasto ronzio silenzioso delle anime, di notte,
l’unico rumore è la vanga
liberare un posto per la cassetta delle lettere.

*

L’intruso

dopo Jean Follain

La sera ascoltano le stesse
melodie che nessuno giudicherebbe felici
qualcuno arranca verso la soglia della città
le rose sbocciano
e una vecchia campana suona ancora una volta
sotto nuvole che promettono temporali
Davanti al portico del negozio
un uomo seduto sopra una cassa d’acqua
si volta, sputa, dice
a tutti
vestito di tutto punto
alzando le mani
finché sono in vita nessuno
tocca i miei cani i miei amici

Gruppo MAGOG