“Essere incompiuti. Non esiste perfezione migliore. Sono incompiuto” pensava tra sé e sé, G. Come l’opera di Rodin. Un’imperfezione che si fa etica, nel correggersi essa stessa, a posteriori. Come si fa a correggersi nell’immortalità della vita? Come immaginarsi una vita ultraterrena? Stare fuori da se stessi è un inganno. Se un amore di donna tornerà, che sia per sempre. Un’estetica migliore non può esistere. ‒ La speranza di smettere di essere, diceva Borges a Liliana Heker… In speranza immortale, sono le parole che sigillano il mio motto. Non è la stessa cosa che dire: essere irrequieti. O, l’inquietudine del verbo. Non lo è. Assolutamente. Essere incompiuti, è altro! La bellezza estrema. Ghiaccioli appesi alla roccia ‒ impreparati a sciogliersi. Sembrare scaglie di slavina. Umettare d’argento l’invisibile. Comparirà mai una donna che potrà amare tutto questo incantesimo, al di là di un tempo irrisorio? La maledizione mi appartiene? Dovrò proseguire solo per il resto dei miei giorni?
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È chiaro che, in parte, non sono solo. Finalmente ho un lavoro, insieme agli incompiuti, io stesso disadatto. Come posso spiegare l’ebbrezza di dire qualcosa, per poi abbandonarla nell’attesa che diventi qualcosa di migliore? È il salto. Una poetica all’altezza della vita. La mia poetica del vivere ‒ in vita come in morte ‒ pre-sente qualcosa di sacro. Se qualcuno venisse a trovarci; se venisse a vederci all’opera, si renderebbe veramente conto che siamo capaci di fare l’impossibile. Per noi stessi e per gli altri. Dignitosi, pur nell’incompletezza. Nel margine. Nel rischio del paradosso. Ultimi, con le mani di forbice. E un caratteraccio. Grazie a esso, esistiamo. E lo diciamo, a modo nostro, al mondo intero.
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Dico ‒ Non si può e non si deve abbandonare l’incompiutezza, quasi fosse un fallimento. Quale reato peggiore. Fallimento di chi, poi? E per chi?, soprattutto. Non devono più esistere giudici nel mondo degli ultimi. Quale utopica visione! Sono fatto a tal maniera, mi piace profetizzare forse. Non si ha bisogno di visioni ‒ o chiaroveggenze, chiamatele come volete!, sia ben chiaro ‒, nel momento in cui ti trovi davanti una zoppa, un autistico, o un uomo con un cervello da bambino. Questa è troppa realtà. E, come tale, va rispettata. Sacralità della vita ‒ dicevo. Non è essa stessa un assoluto? Certo, c’è Dio. Poi, veniamo tutti noi. In mezzo al ‘tutti noi’, ci sta il diverso. Quello che sembrerebbe aver già perso in partenza. A mezza via tra il normale e il supereroe. Abbiamo i piedi tra due soglie. Ti rendi conto? Tra le guglie. Irregolari. Siamo di contrabbando. C’è poco da fare: il nostro urlo, o viene nascosto, o viene esaltato. Battezzati due volte, morti all’infinito, pronti a risorgere. Se deve esistere un manifesto del grottesco, che sia presentato a Parigi!
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Caro padre, te ne sei andato proprio sul più bello. Quando iniziavano ad agitarsi le acque. Proprio quando stavamo per ricongiungerci pienamente e finalmente. La tempesta che si stava scatenando sopra di noi, era la scusa perfetta per dirci fino in fondo: ti voglio bene. Papà, come un lampo, in un attimo, sei morto. Il fulmine al miocardio ti ha portato via. Quando ti ho rivisto esanime sul posto di lavoro, un’ora dopo che ti avevo preparato e servito il pranzo a casa, la grandine ha iniziato ha sconquassarmi, rendendomi muto; cucendo voce e respiro col filo del silenzio. E se sono così sfrontato nel ricordarti, nel momento più tragico, lo faccio solo per tenere a bada la paura e rinvigorire la memoria. Son già vent’un anni, che ti guardo dalla foto sul comodino. Ma mai come ora, parlare di te, mi abbaglia e mi denuda sfrontatamente. Sono, nuovamente, profondamente, scosso. Sto tentando di accoglierti più seriamente di quanto ho già fatto. Forse la malattia, mi ha insegnato che il dolore deve essere attraversato fino in fondo. Con rispetto e dignità. Con timore e tragedia. Con follia e coraggio. Ora mi fermo. Riprenderò a parlarti la sera, quando tento di pregare. Oppure, ogni domenica, quando sto davanti alla tua tomba. In quei momenti, tu mi parli. Ora, qui, sul foglio bianco, è solo tremore e assassinio e ghigliottina.
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Da sempre, lo spettro della malattia, invisibile, scivolava tra la pelle di G, per acquattarsi la notte sotto la grotta delle costole. Senza mai dare segnali o campanelli d’allarme. Siamo mistero a noi stessi, in un mondo pieno di prodigi e menzogne. Siamo come vecchi pozzi. Aspettiamo che qualcuno ci lanci un secchio, per abbeverarsi alla fonte delle nostre storie. Per chiederci, nuovamente, chi siamo.
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Così il babbo muore, e la malattia, di soppiatto, esplode. G, senza saperlo, stava per affrontare l’avventura più grande della sua vita. Era lì lì per entrare nel primo di tanti inferni che lo avrebbero accolto a tradimento, lungo quel sentiero a forma di serpe, snodato, chiamato vita; così impervio, ma altrettanto bello, da assomigliare al ringhio lunatico di un lupo artico.
Padre, te ne vai, e mi lasci incompiuto. La tua assenza feroce incide le pupille come stele marziane. Ora dovrò attraversare il labirinto, sfuggire Minotauro, morire e nascere a nuova vita. La tua assenza è ghiaccio, umiliazione. Lezione che negli anni, mi fa uomo davanti al tuo mausoleo.
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S mi confida che in cooperativa mi sparlano dietro per come sono, per quello che dico, per come mi comporto. Dice, Come fanno a non capire che tu stai tra gli dèi? ‒ Me ne fotto, è la mia laconica risposta. ‒ S, io sono stato nella steppa con Tolstoj e tra i mulinelli di Stresa con Hemingway. Cosa vuoi che me ne importi dei pettegolezzi di quartiere. Pensa che ieri sera, tanto per dire, alla Piccola Fenice, dopo mesi di corrispondenze folli ‒ stracolme di visioni e ululati ‒ due poeti si sono incontrati per la prima volta, infiammando, tra apollineo e dionisiaco, la bianca strada ghiacciata della letteratura italiana…
Giorgio Anelli