18 Febbraio 2019

Cosa ci fa un poeta morto nel cuore del Consiglio comunale? Da vivo il poeta è un folle e un dinosauro, quando è defunto diventa una cartolina turistica. Pensieri cinici

Il poeta è nella bara, in mezzo alla sala del Consiglio comunale. La morte rende il poeta più piccolo, più bello: il viso ha un chiarore fermo. Intorno alla bara, a far figura, i funzionari pubblici, i governanti. Sembra quasi che il poeta sia morto per il bene dello Stato, che lo Stato abbia ucciso il poeta.

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Sabato scorso il sole ha incenerito l’inverno, si è messo a ardere sui tetti, ha setacciato il cielo da ogni corruzione. Da mesi non si vedeva un cielo così puro – così crudelmente puro. Il sole sembrava un giaguaro, acquattato – paziente e pericoloso. Ho chiamato i figli, li ho pretesi. Oggi si va a onorare un poeta. Quando muore un poeta, bisogna fermarsi, non c’è altro compito più urgente che rendergli l’ultimo omaggio.

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Ho spiegato sommariamente, in macchina, ai figli, chi era Gianni Fucci. Se della morte di Tonino Guerra hanno parlato tutti i giornali che contano, di Gianni Fucci si è sussurrato, qua e là, una nota Ansa, l’attenzione dei quotidiani del luogo, qualche bramito. La morte di Tonino Guerra fu un evento nazionale, quella di Gianni Fucci è stato un fatto locale. Eppure, anche se Tonino Guerra è stato un capace sceneggiatore per il cinema – ha lavorato con Fellini, Antonioni, Rosi, Tarkovskij, tra i tanti – Gianni Fucci si è limitato a essere poeta, un poeta più grande dell’amico. Essere soltanto poeta per il mondo è imperdonabile.

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Ho conosciuto Gianni Fucci quando è morto Tonino Guerra. Quel giorno, era il 21 marzo di sette anni fa, si è fatta notte al giornale. Io ero incaricato di curare lo ‘speciale’ su Tonino Guerra. Mi dissero di telefonare a Gianni Fucci, grande amico di Guerra, il superstite del ‘Circolo del Giudizio’. Lo chiamai. Mi disse di essere stato al capezzale dell’amico fino all’ultimo. Gli chiesi quali fossero le ultime parole di Guerra, quelle che testimoniano una vita. Mi disse, più o meno, che Guerra, contorto dall’amarezza – non era un uomo semplice, Tonino – gli aveva detto che ‘il mondo è cattivo e l’uomo è malvagio’. Mi sembrò – giornalisticamente, cinicamente – meraviglioso. Il poeta passato alla storia pop per la pubblicità in cui dice “…l’ottimismo è il profumo della vita!”, che denuncia il male di vivere, la paura di morire, la cattiveria del mondo. Feci un titolo. Non me la perdonarono. In realtà, quello sketch non parla tanto di Tonino Guerra – un uomo ruvido, le poche volte che l’ho visto – ma di Gianni Fucci, un poeta concentrato sul nulla, teso al timore che i ricordi scolorino nel niente, che la Storia è una malia, la vita un rebus insensato, l’uomo un arrabbiato, illividito niente. Con la poesia, sfregava bagliori, istantanei, nel vuoto.

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Mi sembrava quasi di cristallo, il corpo di Gianni Fucci. Intorno, s’intuivano i vampiri. Solo i poeti, forse, che vivono tra gli estinti, possono salutare un poeta.

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 Che cos’è il corpo morto di un poeta? Placca di carne inutile – ornamento – cartolina turistica.

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Il poeta morto nel cuore del Comune, nel luogo più importante del governo civico. Che simbolo prepotente! Il primo pensiero che mi attraversa, vinto dall’emozione, è di bene. Il Sindaco di un paese che offre la massima onorificenza a un poeta: sembra di essere nel migliore dei mondi possibili. Un poeta trattato alla stregua di un eroe. Un poeta in grado di identificare l’identità specifica di un luogo. Che magia. In effetti, penso, trascinato dal sentimento, Santarcangelo è un paese magico, sembra snodarsi con lo stesso ritmo di una poesia, sembra essere evocato da un sonetto, nato da un crocicchio di verbi.

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Eppure. Il poeta da vivo non conta nulla – salvo fargli la festa perché è vecchio, perché è un sopravvissuto, perché è un dinosauro, residuo di un tempo defunto. Il poeta, da vivo, non ha alcun ruolo realmente politico; ha un valore esornativo, decorativo: è una icona turistica – vedi Gianni Fucci e pensi: ti ricordi Tonino Guerra, ti ricordi il Baldini e il Pedretti e come si mangia bene a Santarcangelo?

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Da morto, invece, il poeta è utile perché la politica, con la poesia – purché sia morta – si purifica. Chi può evitare l’applauso davanti a un Sindaco che sparge parole d’incenso sul corpo del poeta morto? Il poeta è posto sull’altare, nel luogo nevralgico del Comune, mentre politici e cittadini ne fanno pasto – è come un’ostia, è in ostaggio.

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Perché non diamo a un poeta, vivo, la guida di una città, le chiavi dello Stato, la poltrona di una tivù pubblica? Perché pensiamo al poeta, lavandocene le mani, come alla creatura che non abbiamo avuto il coraggio di essere, l’anima buona, il pio cretino, il disadatto?

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Che buffo, che paradosso: al poeta vengono offerti gli onori pubblici. Come se dovessimo adornare il poeta, disinnescandolo, di una forma morale e mortale, lui che per natura è amorale – altrimenti non avrebbe nulla da scrivere – e immortale. C’è qualcosa di serpentino nell’orazione pubblica sul volto del poeta defunto: qualcosa che è un po’ un risarcimento postumo un po’ una vendetta.

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Così, mentre tutti si bevevano le parole dei politici e si beavano di essere stati amici di un poeta – un poeta, per altro, troppo devoto alla poesia, in vita, per occuparsi della propria fama poetica, pubblicato in piccole, rare, bellissime edizioni – io mi sono messo a leggere le poesie di Fucci, in silenzio, come una preghiera o un esorcismo. Il poeta in lingua romagnola era ossessionato dal gnént, dal nulla che tutto sfibra. In una poesia in italiano, però, Fucci parla del poeta.

Esploratore o avventuriero
del linguaggio e anche ladro,
il tuo compito
come segno distintivo
sarà quello di carpire
nel labirinto, le parole
piegandole con dolce violenza
al tuo volere
con umiltà orgogliosa
rapinandole
del senso misterioso della vita.

Fucci non è un grande poeta in italiano, giganteggia nel romagnolo, dove è re, però qui dice, in modo semplice, frugale, chi è il poeta. Ne dice l’avventatezza e la violenza.

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Leggendo quella poesia, ecco, pensavo: cosa ci fa un poeta nel cuore del potere civile? Il poeta, come il profeta, abita i deserti, accerchia la città con i versi, non canta nelle aule civiche – è la voce fuori dal coro e dal consiglio, non è il lacchè, il consigliere, il cortigiano. Il poeta sta meglio tra i gatti e gli uccelli, in un cortile, all’aperto, all’ombra di una piazza, non nel luogo della legge – perché per il poeta la legge è la leggerezza e il nulla. Così mi immagino Gianni Fucci, mai così bello, con quel corpo intriso nel quarzo, che si alza dalla bara, ammira gli astanti, e con il suo modo educato ma fermo fa tiè a tutti quanti – e si dilegua. (d.b.)

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