Caro Davide,
ho il sospetto che non ci daranno mai la direzione del Salone del Libro di Torino. Tanto più che anche molti dei nostri lettori sono contrari alla cosa. Mica abbiamo la fortuna di quelli di “La Repubblica” che hanno solo fruitori allineati al loro pensiero binario “fascisti-antifascisti”.
Ho timore che molti di coloro che “dirigono la baracca” sappiano bene che con noi si svolgerebbe una vera kermesse e non avrebbero modo di dare luogo alla loro camorra del libro. Pensa uno dei soliti noti che arriva con il suo fare peloso, stucchevolmente amichevole, e ci dice che dobbiamo per forza organizzare la presentazione di X perché lui lo conosce e X a sua volta è intimo di quell’altro che elargisce i finanziamenti. Già mi vedo la tua faccia, gli occhi come due fiamme ossidriche durante il turno in fabbrica. Ti immagino che spieghi al leccaculo di turno che il libro di X è una porcheria. Quello volge lo sguardo verso di me, nella speranza di trovare uno corruttibile, senza sapere che io sono peggio di Robespierre, solo molto più propenso al turpiloquio e all’azione muscolare. “Neanche se si mette a novanta tua sorella. Adesso levati dalle palle”: ecco quale sarebbe la mia risposta, seguita da un bicchiere di vino – dovrò pure bere per sopportare tutti questi scrittori.
Riesci a figurarti come reagirebbe l’ex Direttore di turno? Sparerebbe minacce, urlerebbe indignato che noi vogliamo sovvertire una logica oramai consolidata. Io, in tutta risposta, gli rutterei in faccia. Lui ci darebbe dei fascisti. Io gli farei cenno di attaccarsi. Quello griderebbe, in falsetto, “sessista”. Molti di loro, lo sappiamo, sono incredibilmente prevedibili e privi di fantasia.
Forse sarebbe meglio fare, come suggeriva un lettore sostenendo che la mia visione della letteratura è roba da Fight Club, dato che io auspicavo di prenderci a botte per il piacere della platea, di organizzare davvero un qualche festival alternativo in uno scantinato umido e marcescente. Uomini a petto nudo che discutono animatamente dei loro gusti letterari e, quando la cosa non può risolversi dialetticamente, in nome di un sano vitalismo, si abbandonano ai cazzotti. Il tutto con la sola differenza, rispetto al Fight Club, di lasciare entrare anche qualche poetessa, giusto per pizzicare un po’ di culi alla fine della rissa. Alle vere poetesse piacciono gli uomini con la pancia da birra, il muscolo guizzante da muratore, che citano Cardarelli mentre sputano sangue e denti a lato del ring.
Dopo un certo tempo, avendo guadagnato un po’ di successo – e sono certo che ci sarebbe, perché tutte ’ste mezze seghe hanno bisogno di sentirsi vivi – stai sicuro che Raimo scriverebbe un post (in falsetto) dicendo “a destra nascono tutte queste realtà letterarie alternative, dove uomini fascisti si scambiano botte e, da veri sessisti quali sono, si sentono in diritto di toccare le donne. Ma noi prima o poi reagiremo istituendo un club dove tra letterati ci baciamo”.
Ma tu ricorda, amico mio, la prima regola del Fight Club letterario è che, se arrivano quelli del Salone, noi ci dobbiamo disporre subito con la schiena contro il muro.
Matteo Fais
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Caro Matteo,
visto che la questione, nella sua miseria, è alta, alzo il tono e ti racconto una storia, mentre tu scazzotti il primo che passa.
Io ho avuto il privilegio di vivere nell’ustione. Ti parlo di quasi vent’anni fa. Era già tutto chiarissimo – come, per altro, lo era dai decenni precedenti, ma con un ‘eroismo’ più acuto, con una più scaltra spensieratezza. Era chiaro che le case editrici non erano più ‘case’ ma soltanto aziende editoriali, McDonald’s dell’ovvio – poi, è ovvio, siamo tutti felici, ogni tanto, a ingollare hamburger. Era chiaro che quelle griffe – Einaudi, Mondadori, Feltrinelli, Bompiani… – non sacralizzavano altro che l’impero del denaro. La poesia, piuttosto, era atto ostinato e contrario – anche nel dire l’ingordigia della gioia – era sovversione, emersione dei morti, esaurimento di ogni verbosità, lucido lavoro di sarchiatura. Adamantino. Poesia è prepararsi a una lotta a mani nude, fieri della propria incapacità al sopravvivere. Usando la tua metafora, il mio fight club, cioè la mia casa, era Atelier. Lì ho pubblicato per la prima volta – numero 28, Dicembre 2002; cose orrende, come è buono e giusto che sia – lì, soprattutto, ci si riuniva in cerchio – io, Marco, Flavio, Federico, Riccardo, Massimo, che ho visto al Salone del Libro, a proposito, e la maturità non ci tortura!, poi Tiziana, Alessandro, Giovanni, Simone – ciascuno estraeva i propri versi, li leggeva, si discuteva. Ci si distruggeva. Prima di pubblicare quelle liete assurdità, non sai quanti testi abbiamo valutato e disossato e scartato. Una azione di rigenerante incendio. Se poi in copertina – numero 29, Marzo 2003 – leggo, tra gli altri nomi, accostati, quelli di Brullo e di Cattaneo, come puoi capire, il dolore continua come un idrante a istigare le ossa al volo.
Voglio leggerti alcune frasi tratte da alcuni editoriali di Marco Merlin, per farti capire la lucidità e la ferocia e la vita, da sanguinari del vocabolario, da cannibali del tempo:
“Discutere di poesie dentro alla dittatura aziendale che guadagna sempre più terreno sul campo della cultura… è di per sé un atto sovversivo, perché mantiene vivo il pensiero critico tout court… Resistiamo dunque alla tentazione del buonismo… Siamo sempre tutti in gioco, che lo si voglia o no”
“Se poi, nel reame della letteratura, si guarda più attentamente alla poesia, si ha la sensazione di assistere alla lotta fra barboni, che difendono il loro bocconcino e il loro territorio con i denti… Il fatto è che siamo imprevedibili: ci vogliono davanti, schiena contro il muro, per misurarci e darci il voto nelle loro scuole, ma noi li osserviamo alle spalle. Ci vogliono giovani: siamo già più vecchi di loro”
“Non cedere ad alcuna idolatria dello stile, non compiacersi davanti a nessuno specchio di solitudine. E tutto ciò è veramente arduo: accettare la fine, sentire la giovinezza che muore e andare avanti senza più voltarsi, resistendo alle sirene, distogliendo lo sguardo dagli occhi di Medusa: cambiare temi e figure, lo stile seguirà di conseguenza (non è, infatti, un problema di stile, ma di percezione del mondo)”
“C’è anche una generazione di poeti che ha trovato la forza di costruire spazi alternativi al mondo editoriale che non funziona (per precise lacune politiche, mica perché la poesia è morta o altre battute da provinciali che vivono in città), consapevole che l’onore del nome si valuta sulla qualità e non sulla quantità; una generazione che non ha bisogno di uccidere nessun padre e nessun fratello maggiore per riconoscersi, perché ha la coscienza di lavorare per il futuro, non per il presente… Ecco, questa generazione è pronta a lanciare il contrattacco, a tessere con pazienza la propria opera, forte della propria povertà, libera di dire, semplicemente, la verità disarmante di una tradizione che ha rischiato di morire di lenta consunzione, per dispersione di sguardo, per mancanza di lotta e di dialogo interni”
Al Salone del Libro, vedi, non ci si andava. Non per snobismo. Perché non c’era nulla, non c’erano libri. Come puoi capire, uno come Marco Merlin (che quelle cose le ha scritte nel 2002 e nel 2003) ora dovrebbe essere sulla cima di un qualche gruppo editoriale, dirimere il rinnovamento del Salone dei Libri o dei Festival della lettura o delle Fiere degli scrittori. Invece. Non parla. Non dice. Sta nella latitanza del vivere, con una felicità che sovrasta. Troppo prossimo a sé, si è ritirato, ad adempiere l’opera, che ha un tempo altro a quello storico.
Cosa voglio dirti, Matteo? Che noi siamo un esempio marziano prima che marziale. La pensiamo diversa su tutto – vita, letteratura, donne, forse – ma facciamo un giornale insieme (e ti sono grato). Per questo, se dovessi rifondare il Salone del Libro, per prima cosa, prima ancora di pigliarti a pugni, in quelle aule svuotate di banchetti e di libri, miracolosamente linde, aperte al silenzio, al creare onnivoro, inviterei Raimo-Lagioia, questa specie di Sfinge. E tutti quelli che prima di loro, tutti uguali, hanno fatto del Salone il Saloon dei perbenisti, delle educande democristiane. Come sai, io so nulla – io mordo. E voglio capire, voglio capire tutto consapevole del mio niente. Poi, cominceremo a suonarcele. Ci sfasciamo fino allo sfinimento del sangue che nessun calice raccoglierà, perché siamo marci. La battaglia con la storia è vinta dai miseri potentini, dai potentati editoriali, dai valvassini, resterà Lagioia & Missiroli & Gamberale, mica Brullo, vincerà Saviano e la Ferrante, mica Fais. Ma questo scrivere sulla lingua dell’oblio è esaltante. Tanto, loro, sono già morti.
Davide Brullo