28 Ottobre 2024

“Noi vogliamo esaltare il pugno”. La boxe: dagli urli marinettiani alla nuda disciplina

Il primo storico Manifesto del Futurismo, apparso su Le Figaro il 20 febbraio 1909, conteneva fra i suoi punti cruciali l’esaltazione dello sport, della nuova figura sintetica dell’atleta e delle forme dinamiche del gesto sportivo. Tale esaltazione era perfettamente contigua all’inno parallelo alla “nuova religione-morale della velocità” e alla convulsa esaltazione delle macchine, con lo slancio dell’atleta e il vorticare della tecnica uniti in un unico viluppo.

Scriveva Marinetti:

“La letteratura esaltò fino ad oggi l’immobilità pensosa, l’estasi e il sonno. 
Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno. 
Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova, la bellezza della velocità”.

Il programma di Marinetti poggiava tutto sull’esaltazione superficiale dell’attivismo, del fare per il fare, dell’anticontemplazione, della “violenza incendiaria”, e in lui e nei futuristi letterari (almeno nella stragrande maggioranza) esso restò, appunto, allo stadio acerbo di programma, di velleità urlata, feticisticamente sbandierata ma non ragionata e catartizzata nei modi dell’effettiva resa artistica.

Intemperanze foniche, impressionismi verbali destinati a rimanere all’epidermide delle cose, aggressioni  a colpi di parola che si traducevano talora in colluttazioni reali, come nelle risse tra futuristi e vociani e che, nelle loro linee guida, costituiscono il diretto prodromo dell’ideologia fascista. 

Alcuni decenni dopo, in una sferzante replica ad alcuni fascisti che avevano proposto di marciare contro di lui, Benedetto Croce scriveva: 

“Veramente per chi abbia senso delle connessioni storiche, l’origine ideale del fascismo si ritrova nel futurismo: in quella risolutezza a scendere in piazza, a imporre il proprio sentire, a turare la bocca ai dissidenti, a non temere tumulti e parapiglia, in quella sete del nuovo, in quell’ardore a rompere ogni tradizione, in quella esaltazione della giovinezza, che fu propria del futurismo. (…) Marciare contro di me? E perché? Avverto, ad ogni modo, quei bravi giovani che si tratterebbe di perseguitarmi non a Roma, ma al polo della Logica, dove io mi sono alquanto acclimatato, ma essi, temo, morirebbero di gelo”.

La sottile replica al vetriolo del filosofo denudava in poche parole la velleitarietà degli enunciati futuristi, tutti protesi alla febbrile esaltazione di una violenza in fondo fine a se stessa, di una tensione verso la velocità e il “nuovo” che pericolosamente sentiva, nelle rese letterarie almeno, di accademia artatamente travestita.

Comunque sia, il dinamismo dello sport costituì materia fertile di ispirazione per molti futuristi, dando vita anche a capolavori assoluti come il “Dinamismo di un ciclista” e il “Dinamismo di un footballer” di Boccioni, vertici innegabili della rappresentazione futurista a tema sportivo. E tuttavia fu il pugilato, meglio di qualsiasi altra disciplina sportiva, che sembrò incarnare al meglio e sintetizzare quella poetica del gesto, del “movimento aggressivo”.

Lo spirito più profondamente cavalleresco e di combattimento interiore della boxe rimase estraneo alla rappresentazione estetica futurista, che di essa colse soltanto la dimensione più esteriore dello slancio fisico. Che siderale distanza rispetto alla parabola Dada di Arthur Cravan, il poeta pugile che sfidò Jack Johnson e la cui esistenza e i cui combattimenti fondevano in atto la letteratura con la materia incandescente della vita vissuta!

Al Futurismo non pertiene la dimensione della “noble art”, la sua trasmutazione delle leggi del duello in scontro codificato e regolamentato: lo spirito futurista era proteso allo Streben irrazionale del combattimento in quanto tale e il senso della Rissa in galleria di Boccioni o delle zuffe da taverna dei futuristi era antipodico al significato profondo della boxe.

La boxe, già rappresentata oltre oceano in memorabili quadri di Thomas Eakins e di George Bellows (il drammatico quadro dello scontro per il mondiale del massimi tra Dempsey e l’argentino Luis Firpo), ispirò composizioni di Tato, di Renato di Bosso del Gruppo Futurista Veronese, di Sepo (Severo Pozzati) e anche del sommo Giacomo Balla, autore di un ritratto di Primo Carnera quando il gigante di Sequals era assurto ad icona sportiva di regime dopo la conquista del titolo mondiale dei pesi massimi. 

Giacomo Balla, Primo Carnera campione del mondo, 1933-34

La boxe diveniva materia plastica per la costruzione di nuove linee figurative, di inedite tensioni formali modulate in esiti estremamente discontinui, in un movimento futurista poi ramificatosi negli anni sino a divenire un “Secondo” ed un “Terzo” futurismo. 

A 114 anni di distanza dal primo manifesto futurista del 1909, Federica Guglielmini, già autrice con Virginia Perini del libro A corta distanza (Tabula Fati, 2022), ne ha promosso un’ideale continuazione con il manifesto on line de I Colpitori, allusione a uno degli attrezzi di fondamentale importanza nell’allenamento pugilistico. 

Se A corta distanza voleva essere uno sguardo nel dietroscena della boxe italiana, con interviste a campioni come Nino Benvenuti, Patrizio Oliva, Francesco Damiani o con allenatori che comunque per tutta la vita avevano respirato la boxe, il manifesto dei Colpitori mira alla reintroduzione dell’icona del pugile nella nostra cultura, a un “incontro con il pugile interiore” da opporre a una società non più “liquida”, come l’avrebbe definita Zygmunt Bauman, ma “liquefatta”.

Il pugile diviene una metafora per più generali battaglie per la vita e la boxe si intreccia in un cortocircuito categoriale, oltre che con l’esistenza, con la letteratura, quella letteratura che Kafka paragonava a “un pugno che ti sveglia”. Se non c’è quel risveglio, se non se ne è colpiti e frastornati, la letteratura rimane un puro mosaico di parole, un “exercise de style”. E, contro la disumanizzazione di una tecnologia ormai onnipervasiva, contro la civiltà tecnocratica dell’oggi si ribadisce che “mai saremo schiavi degli algoritmi”.

La boxe, come tutto lo sport, torna ad avere un valore educativo, di riqualificazione sociale. 

Viene in mente una frase del più noto telecronista italiano di pugilato, Rino Tommasi, quando affermò che la boxe è un’erba che non cresce nel giardino dei ricchi. 

Frutto di un disagio, di una dissonanza interiore da ricomporre, la boxe nella sua crudezza e in quanto ha di non civilizzato e ferino ha rivestito tuttavia una funzione sociale importantissima e il saldo dei danni che essa ha provocato e provoca è compensato dal riscatto umano e sociale che ha costituito per moltissime persone. Di boxe si muore, e il bilancio dei feriti e dei deceduti in questo sport è pesantissimo, tanto che molte volte si è tornato a proporne l’abolizione, come se si trattasse di un puro ludo gladiatorio quando essa è stata invece ancora di salvezza per molti che altrimenti sarebbero stati smarriti senza una bussola, erratici nella disperazione. 

La boxe è disciplina impastata di sudore, lacrime e sangue e chi abbia frequentato una palestra di pugilato sa quanto esse siano agli antipodi rispetto alle palestre di fitness attuali. 

Tanta retorica si fa sulla riqualificazione sociale, lo sappiamo, divenuta spesso paravento per discorsi generici, che nessuno in astratto potrebbe non condividere ma che non sempre è facile calare nel quotidiano. E tuttavia, al netto delle retoriche e delle propagande, quel discorso rimane valido e si e’ incanalato in tante realtà pugilistiche e umane concrete.

Per diretta esperienza è emblematica la vicenda di una palestra torinese, la Sportforma, fondata nel lontano 1995 dal Maestro Guido Carli, che tuttora la anima e la dirige. Con tenacia e coraggio degni della più alta tradizione di questo sport, e che davvero fa pensare allo spirito indomito dei film di Rocky, il Maestro Carli ha portato avanti la sua creatura contro ogni difficoltà e contro ogni ostacolo delle mafie sportive e politiche.

Coraggiosamente denunciò quindici anni fa (viene da pensare a Erin Brockovic!) l’inquinamento da amianto e da cromo esavalente nei lavori per il passante ferroviario di Torino, vedendosi ingiungere di lì a poco una notifica di ordinanza inagibilità della palestra firmato dall’allora sindaco della città, frutto evidente di come la sua denuncia avesse toccato i poteri forti cittadini. 

Tra traversie di ogni tipo, anche dopo l’abbandono forzato della vecchia palestra riprese gli allenamenti in strada, sotto il ponte poi demolito della vecchia Stazione Dora, con inflessibile tenacia che nessuna pressione o sopruso ha potuto piegare o far giungere anche solo a facili accomodamenti. E, nella seconda e nella terza sede della Sportforma, ricavate fortunosamente e con fatiche quotidiane e costanti, ha ospitato le più incredibili storie umane, dal ragazzino rom con storie di disagi familiari pesantissimi alle spalle a un pugile incarcerato per omicidio che grazie a uno speciale permesso poteva uscire per allenarsi due volte alla settimana. 

Forgiato dal carcere e dallo sport, ha rigenerato se stesso, si è liberato della vecchia pelle per assumerne una nuova, ancora detenuto ma riscattato umanamente e più “perbene” di molta presunta gente che viene definita tale.

Non la retorica attivistica degli urli marinettiani, la sguaiata grancassa su una disciplina ridotta alla pura ombra di se e svuotata a dimensione di violenza gratuita ma un intreccio di tenacia fisica e morale in storie spesse, senza fronzoli e di cruda evidenza come la vita stessa. 

Alessio Magaddino

*In copertina: George Bellows, Dempsey and Firpo, 1924

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