Nell’immane crogiolo della cultura del Novecento il Dada resta senz’altro la madre di tutte le avanguardie.
La rottura effettuata dal Dada sul piano della comunicazione logica come delle forme espressive, il suo avere terremotato alle radici ogni nozione convenuta del bello e del buono, il suo stravolgimento di ogni grammatica canonizzata saranno il grande modello formativo di tutte le avanguardie a venire. La complicità instante tra il creatore e il suo pubblico, tra l’artista e il “fruitore”, l’avversione per tutto ciò che è “ufficiale” saranno la costante di tutti gli indirizzi più fecondi dell’arte e della cultura successive.
La straordinaria parabola dadaista, ben lungi tuttora dall’ essere esaurita, è stata mirabilmente sintetizzata da Mirella Giuggioli nella sua bella monografia Il Dada(ismo) ovvero Dada non significa nulla, pubblicata da Goware. Il libro della Giuggioli, encomiabile per informazione e per come l’autrice ha metabolizzato nel profondo la lezione del Dada, ripercorre con un nitore e una felicità rare il deflagrare del Dada, il suo espandersi, le sue mille ramificazioni, e se dobbiamo trovare una pecca in questo volume è solo nella bruttezza grafica di esso fisicamente inteso. La fatica della Giuggioli avrebbe meritato ben altra dignità grafica di stampa, essendo lampante che un volume tipograficamente arioso ed elegante (e talora la sobrietà compositiva è la massima forma di eleganza) predispone molto di più alla ricezione e assimilazione dei suoi contenuti.
Sarebbe superfluo e addirittura pedantesco voler aggiungere altre considerazioni in margine al fenomeno Dada considerato in sé e per sé dopo tanta fatica ma, allontanandosi dal puro circolo dadaista, si impongono comunque delle considerazioni che investono la nozione stessa di avanguardia e tutti i suoi annessi e connessi. Brevissima e folgorante fu la parabola dadaista, durata, in senso stretto, solamente sette anni, partita dall’enclave della neutrale Svizzera per approdare all’ecumene, ma quali sette anni di sconvolgimento delle strutture acquisite e di profonda rivoluzione estetica e mentale!
Ben diverso è il caso di tante avanguardie sia coeve al Dada che ad esso posteriori, finite col cristallizzarsi sempre di più in formule prefabbricate e divenute, da iniziali epicentri di rivolta, pienamente istituzionali e funzionali al sistema. Il nostro Futurismo (la Giuggioli tocca il tema numerose volte ma non lo elabora fino in fondo) fu, almeno in letteratura, molto più esteriore e superficiale rispetto al Dada, preferendo i toni reboanti e le strombazzature da fiera paesana piuttosto che una rimeditazione profonda delle forme poetiche. Da qui la discrasia perfino imbarazzante tra le eccezionali rese del futurismo pittorico e figurativo, con i sommi Balla e Boccioni ma anche con una pletora di altri artisti dallo straordinario talento, e i balbettamenti stentati del Futurismo poetico.
Si faranno in difesa dei poeti futuristi i nomi di Palazzeschi e di Govoni, grandi poeti e scrittori, ma che del Futurismo furono solo per un periodo fiancheggiatori e la cui carriera artistica trascende di gran lunga, temporalmente e formalmente, il Futurismo, la cui lirica è costituita per la quasi totalità di stentati balbettii fonici, di facili effetti di impressionismo fonoverbale. Basti sfogliare le autoantologie storiche de I Poeti e de I Nuovi Poeti Futuristi per verificare in prima persona la modestia e la velleitarietà della gran massa della loro produzione lirica.
Se poi, come ho udito con le mie orecchie, si vuole gonfiare la realtà e dire che le poesie di Oscar Mara, un futurista scomparso appena ventenne nel 1916, sono del livello di quelle di Rimbaud, buon per chi vuole nutrire queste chimere. La verità è che gli esiti di Rimbaud e dei grandi “Maudits” francesi non avranno mai un corrispettivo italiano e che ad essi non si avvicinano non dico i Futuristi, ma nemmeno la simpatica figura anarcoide di un Ceccardo Roccatagliata Ceccardi o il Campana dei Canti Orfici, che, con giudizio a mio avviso sacrosanto, Contini considerò non un “visionario” ma il suo esatto opposto, un “visivo”.
Il Dada, a differenza di altre avanguardie europee, trascende il suo stesso programma, oltrepassa la sua stessa teoresi fondativa e non diventa mai schiavo di enunciati a priori: insomma, i dadaisti rifondano e riscrivono perpetuamente loro stessi, dando vita a una sintesi di perpetua freschezza, sempre increspata da sussulti ludici, dal desiderio di toccare l’Assoluto attraverso la leggerezza ingannevole del divertissement. E quali autori di portata europea lo animarono, in letteratura come nelle arti, con un respiro e un afflato che il nostro Futurismo poté vantare solo con alcuni nomi eletti: Breton, Aragon e Tzara, Man Ray e Duchamp, Schwitters e Picabia, Arp e Max Ernst, Hans Richter , ecc.
I nomi più eletti della poesia e delle arti figurative europee, la cui lezione la Giuggioli intravede anche in innumerevoli esiti successivi, dall’ arte di un Beuys fino alle performance rock degli Who e dei Clash, di Frank Zappa o di David Bowie, di Bryan Ferry o di Peter Gabriel, sono ai vocalizzi di Demetrio Stratos.
Il concetto di avanguardia è rivoluzionario e conservatore nello stesso tempo.
Per innovare davvero un’”avanguardia” deve saper conservare.
Solo nella conservazione e trasmissione di un’eredità culturale e nel concetto di tradizione si pongono le premesse per rigenerare quella tradizione stessa e per scuoterla dalle fondamenta.
Sovvertire in toto una tradizione è non solo velleitario, è in ultima istanza impossibile.
Riprova ne è che molti pretesi capovolgimenti dei canoni formali sono semplice minestra riscaldata, vecchia come il cucco. I ritrovati verbopittorici della “poesia visiva” o del Lettrismo di Isidore Isou e delle restanti e stimabili correnti che seguono tale falsariga affondano le loro radici non solo nel “Coup des dés” mallarmeiano, ma, a ben vedere, in analoghi esperimenti che risalgono addirittura alla lirica alessandrina.
L’avanguardia non è mai un fungo che nasce dal nulla, senza un preciso humus culturale. Essa ha radici definite, logiche a loro modo esatte che però, se si tratta di avanguardie vere e non di accademismi travestiti, sanno trovare in loro stesse la formula magica per rinvigorirsi e rinnovarsi. Il guaio è costituito proprio dal fatto che molte pretese avanguardie solo solamente accademia sotto mentite spoglie, più abile di un Fregoli nel mutare abito e nel presentarsi come la rottura dei codici definiti.
Dicevamo che il Dada durò tecnicamente solo sette anni: la tanto strombazzata Arte Povera dura da sessanta e sembra ancora lontana dal chiudere i battenti, dato il persistente reiterare di uno dei suoi massimi esponenti, Michelangelo Pistoletto, delle stesse identiche soluzioni cui approdava decenni fa. I “poveristi” si sono in realtà cristallizati e sono diventati pienamente organici alle forme del potere istituzionale, malgrado le geremiadi di molti tra loro, primo tra tutti Jannis Kounellis, di cui Vittorio Sgarbi ha genialmente denunciato la vera natura di produttore di “arte escrementizia” e di artista di regime. Mai, ha fatto notare opportunamente Sgarbi, artista è stato celebrato più di Kounellis, magnificato oltre la reale portata del suo valore, esaltato perfino più di quanto un artista di ben altra levatura, Renato Guttuso, lo fu da parte della cultura allora imperante.
Oggi più che mai l’avanguardia volendo essere antiborghese è in realtà borghese fino al midollo e mai come oggi, pretendendo di combattere la logica mercantile ed economicistica, è invece radicalmente asservita all’economia e al profitto. Il mercato oggi crea l’arte e il concetto del bello e del brutto è divenuto talmente ondivago da essere inafferrabile.
Come nelle scienze la meccanica quantistica ha scardinato la meccanica classica col principio di indeterminazione di Heisenberg, giungendo all’assunto dell’impossibilità di misurare contemporaneamente ed esattamente le proprietà dello stato di una particella elementare, quali la sua posizione e la sua quantità di moto, così nelle “scienze umane” è stato eradicato ogni riferimento a una visione dell’universo preesistente. Di fronte all’opera d’arte moderna possiamo talvolta riconoscere la presenza cogente del genio ma ci risulta sempre più difficile fornirne una motivazione e, una volta saltati i codici, ci troviamo in uno stato di entropizzazione radicale, di smarrimento, di impossibilità di fissare una chiara linea di demarcazione tra il bello e il brutto.
Dopo che Joyce ha condotto nell’Ulisse e nell’ancor più radicale ed estremo Finnegan’s Wake il linguaggio alle sue estreme possibilità espressive, rifondando una lingua nuova e annegando la sostanza verbale nell’immaterialità e nel puro fluire della musica, tutte le sperimentazioni verbali tentate in seguito appaiono al massimo epigonali e ripetitive. Joyce ha superato i confini del nostro sistema verbale, ha varcato le colonne d’Ercole dell’estrema espressione linguistica, così come le avanguardie musicali di uno Stockhausen o di un Cage (ma i nomi si potrebbero moltiplicare) hanno oltrepassato i limiti estremi delle possibilità concesse alla musica tradizionalmente intesa e l’hanno condotta sulle soglie della sua autodissoluzione nel silenzio.
Non a caso un illustre musicologo fece notare che in altre epoche uno Stockhausen sarebbe stato un compositore grandissimo ma che, alla luce delle categorie attuali, egli è semplicemente oltre la musica così come essa è intesa nella nostra tradizione. I modesti nipotini di Joyce che da noi dettero vita al Gruppo 63 poterono banalmente irridere eccellenti scrittori tradizionalisti come Pratolini o Bassani, Cassola o Tomasi di Lampedusa (paragonati perfino a Liala, che era tuttavia narratrice, nella sua modestia, onestissima), dando vita però, alla prova dei fatti, solamente agli intrugli poetici illeggibili di Sanguineti, di Balestrini (“Vogliamo tutto!”: ma cosa volete di più ?), di Pagliarani e dei vari loro emuli o, nel migliore dei casi, a romanzi talentuosi ma in buona sostanza illeggibili come i Fratelli d’Italia di Arbasino, per tre volte riscritti da cima a fondo ma virtualmente estendibili e ricomponibili all’infinito. O, per paradosso, i tardivi romanzi di un altro loro teorico e fiancheggiatore, Umberto Eco, pur nella furbesca strizzata d’occhio alla “Neoavanguardia”, si sono venuti sempre più affrancando da ogni tentazione avanguardistica, finendo addirittura con incorporare l’arsenale narrativo e gli effetti pirotecnici dei feuilletons.
Tranne qualche raro prodotto di superiore afflato artistico, la quasi totalità della Neoavanguardia italiana ha prodotto soltanto indigeribili parascrittori e parapoeti equiparabili, per vigoria e intensità espressiva, all’ elenco del telefono. Viene da pensare che forse, in letteratura come nelle arti figurative, non potendosi più varcare certe soglie estreme del linguaggio, la sola vera rottura sia proprio l’apparente reazione del “rappel à l’ordre”, del ritorno alle forme tradizionali, a climi più respirabili e meno viziati dal capriccio di sovvertire l’ordine cosmico.
A conti fatti non mi pare che nel Novecento italiano ci sia stato un vero corrispettivo nostrano del Dada e addirittura, in ambito strettamente letterario, non so se ci siano state molte vere avanguardie. Se di avanguardie vere possiamo parlare dovremmo forse pensare ai dilettanti di genio che dettero vita a riviste come il “Leonardo” o come “La Voce”, anche se qui si trattò di una rivoluzione di natura culturale più che propriamente estetica.
Dove cercare, dunque, le vere istanze di una rivoluzione più carsica e più sottile nell’ insieme così straordinariamente ricco e composito della cultura del nostro Novecento?
In figure isolate, non costituitesi in corrente, come poté essere fra i narratori il sommo Gadda, che fece scuola a sé e che a nessuna corrente è realmente ascrivibile. O, se proprio ad un movimento, seppur disorganico, dobbiamo fare riferimento, io indicherei la poesia ermetica, la stagione straordinariamente intensa e innovatoria dell’Ermetismo. Dietro l’apparente appannamento del linguaggio e dietro le movenze criptate di un assunto poetico né esibito né “dichiarato” si annidavano i germi più profondi della nostra lirica novecentesca e le ragioni di un discorso che si ricongiungeva idealmente e senza clamori alla grande esperienza poetica europea.
Poco importa che in essa confluissero sia poeti in qualche modo sostenitori del fascismo come Ungaretti (la cui anima però era in realtà quella del poeta puro, impreparato e inadeguato, proprio come un Pound, alle contingenze e alle bassezze del mondo) sia lirici di aperta inclinazione antifascista come Montale. La sostanza intima del loro rifugiarsi nell’analogismo, nell’ellissi verbale, era il più coraggioso smascheramento di un linguaggio che nel suo coté ufficiale e istituzionale era veicolo di retorica e di menzogna.
Non a caso, quando morì Ungaretti, il principale dei critici ermetici, Carlo Bo, al suo funerale poté ricordare che, in anni bui di oppressione e di dittatura, i giovani della sua generazione avrebbero dato la vita per Ungaretti, e cioè per la Poesia. Quella Poesia che, quando sorge da quella che un grande critico oggi dimenticato, Eugenio Donadoni, chiamava “una parola d’anima”, reinventa perpetuamente la propria tradizione e scavalca ogni nozione programmatica di tradizione o di avanguardia.
Alessio Magaddino