06 Gennaio 2025

Delirio, lotta, perfezione e mito. “La Gloria”: ultimi frammenti dal mondo antico

“A chi soffre e sanguinando crea,
sola splende la gloria”

(Ada Negri)

Che cos’è la gloria? Non è il premio, la medaglia, il trofeo, né l’applauso, l’articolo, il trionfo. La gloria è ben altro. È l’urlo ebbro della folla dell’ultimo goal dopo il 90°; la Comunione con il pubblico che soffre e combatte insieme a Nino Benvenuti prima del KO finale; la visione dell’ultimo sprint di Mennea prima di infrangere l’ennesimo record. È McEnroe che spacca la sua racchetta come fa una rockstar con la sua chitarra, o Orlando con la sua Durlindana; è Chinaglia che sfida la curva dopo aver compiuto l’ennesimo miracolo, quasi come non stesse sfidando solo una tifoseria, bensì il destino. 

La Gloria è questo: comunione, estasi, delirio, martirio, lotta, elevazione, liberazione, perfezione, mito. Un sentimento, un fatto spirituale che purifica lo sport dalla miseria dell’intrattenimento e dalla banalità della cronaca per restituirlo al sacro, all’antropologia e alla leggenda.

Tanti scrittori, poeti e artisti si sono cimentanti nel mito del calcio, nella narrazione dello sport, nel sogno del goal, del ko, dell’ace. In pochi però hanno saputo raccontare la “gloria”. Ci è riuscito magistralmente Carmelo Bene nei suoi splendidi editoriali su Van Basten; Luciano Bianciardi, con la sua epica e poesia dei “campioni tristi”; ed in maniera ironica e disincantata Giovanni Arpino. Ci è riuscito però, soprattutto, Aurelio Picca nel suo ultimo La Gloria (Baldini+Castoldi, 2024). Un “sinassario” barbaro e poetico, fatto di guerrieri dello sport, di duellanti, di sacerdoti del ferro, di mistici del pallone, di eroi del ring, di fantasmi a cavallo e di leggende. Quello di Picca non è, infatti, un testo sul calcio, sullo sport, sulla fama. È, invece, un’opera epica e lirica, magica e carnale sulla “gloria”, sugli eroi, sul suo mistero. In cui l’autore raccoglie storie di duelli automobilistici, di match arcaici, di campionati e scudetti leggendari, di ciclisti che sfrecciano nelle tappe del Giro d’Italia (immensa Patria visione di luce) come comete e meteore nella notte, di liturgie eterne come il palio di Siena. Storie come quelle della Lazio dello scudetto che sembra una “compagnia dell’anello” del calcio, e soprattutto di Long John eroe byroniano, arcangelo degli anni ’70, che sì, specialmente lui, merita veramente la gloria.

Un libro che poi è l’omaggio a un mondo perduto e imperdonabile di sangue, forza, innocenza e sudore che in queste pagine è salvato dal grigio diluvio del tempo e della notorietà. 

Leggendo La Gloria ci si trova, infatti, di fronte a una raccolta di chanson de geste e ballate in prosa scritte con uno stile magnifico e sacrale, intermittente e lapidario, verticale e sensuale, ma anche distruttivo e sconvolgente. Tra il dripping di Pollock e le alchimie di luce di Caravaggio. Un testo in cui Picca, aldilà di nostalgie e idolatrie, racconta quel mondo plebeo e ancestrale, tra il far west e l’Italia di Frazer, regalandoci una raccolta di visioni, di pellegrinaggi nei santuari perduti e sopravvissuti di quello che fu il calcio, lo sport, la gloria. E mentre racconta quei luoghi ci racconta un’Italia diva, sacra, vibrante, luminosa in cui ogni paesaggio potrebbe essere il fondale di un quadro arcaico e pittoresco e in cui ogni personaggio potrebbe essere l’ombra di una mitologia lontana il cui nome dimenticato evoca una familiarità segreta e ancestrale.

Poema di luce, di sangue, di ferro, quello di Picca è però anche un bestiario metropolitano e popolare, una galleria di eroi e un album di famiglia segreto dell’Italia. Anche in quest’opera, infatti, Picca continua la sua autobiografia devastata dell’Italia e degli italiani, raccontando tra miracoli e duelli, elevazioni e cadute, la storia del nostro Paese. 

Le tappe del Giro d’Italia descritte come raffiche esplosive di colori e tempeste di meteoriti e di luci; il campionato della Lazio di Maestrelli, che sembra una personalissima Edda in prosa tra “pistole e palloni” (per dirla con Guy Chiappaventi); le sfide automobilistiche nell’arena urbana a metà tra le giostre medievali e gli inseguimenti di Banditi a Milano. Tutte queste visioni sono la gloria e Picca riesce a restituirle in tutta la loro sanguigna sacralità. 

E questa è anche la storia di tutti quegli uomini che la gloria l’hanno inseguita e ammirata, mai conquistandola, partecipandovi però intensamente, come, secondo i mistici, si partecipa struggentemente al soprannaturale. Dalla magia del palio di Siena in cui le contrade assistono alla transustanziazione della battaglia (eterna) di Montaperti, alle folle che infestano gli ippodromi e i loro carnevali di scommettitori occasionali, fedeli-ludopatici e fiumi di cartapesta, passando per le trasferte dei tifosi simili a battaglie e ritorni di reduci.

Il testo di Picca è, quindi, un “Libro-arca” in cui gli ultimi residui di un mondo antico e di un’Europa barbara possono trovare un rifugio contro l’inclemenza dei tempi. Regalandoci un affresco (privo di violenza, ma ricco di carnalità e fisicità) in cui sopravvive un mondo di fagottari, di cavalieri, di banditi, di criminali, di pastori, di plebei, di motociclisti marziali come samurai, di santi e canaglie.

Straordinarie, in questo senso, le pagine sul mondo della boxe in cui si raccontano palestre descritte come monasteri e gilde medievali, eremi e segrete. In cui il mondo della boxe – sottratto alle facili iconografie del cinema hollywoodiano – viene restituito alla magnificenza manniana di Rocco e i suoi fratelli di Visconti o ai Pugili, stanchi, delicati e sanguigni di Lino Capolicchio.

“Faccio fatica a raccontare le riunioni di pugilato e la loro atmosfera. E so che a molti gli rimbalza sui coglioni. Ma quella era la feccia dell’ultimo mondo antico. I nonni dei nonni avevano visto ghigliottinare gli amici e fucilare i patrioti nelle battaglie della Repubblica Romana del ’49, come il nonno di mio nonno Arcangelo che uccise due persone e morì povero arrivando al camposanto dentro una scatola di legno tarlato. Sta di fatto che a quelle orge miserabili era presente la crema degli accattoni e miserabili della città”. 

Oppure, pensiamo al mondo delle corse di Tor di Valle e Capannelle (“L’arena era una mareggiata di bestemmie, sfottò, sputi e urla”) o alla Spagna virginale, sibilante “viva la muerte” a ridosso della transición di Suarez, delle tauromachie. 

Attraverso un racconto visionario, che scava la realtà portandola alla sua origine ancestrale e arcaica, Picca consegna al lettore un libro che quando parla di calcio e tifosi, di fantini e toreri ne parla con coscienza antica mostrandoli come martiri, legionari, gladiatori, duellanti. Perché in fondo come la vita o è martirio o non è, la gloria o è elevazione e destino o non è. In questo testo, infatti, ogni stadio è un santuario mitraico, ogni corsa è una giostra cavalleresca. Le trasferte sono pellegrinaggi. E i confini tra la Spagna del “Siglo de oro” e quella degli anni postfranchisti, tra l’Italia preromana e virgiliana degli approdi di Enea e quella degli anni di piombo e di Lallo lo Zoppo, sembrano dissolversi e confondersi. In una frontiera magica in cui anche gli incontri di boxe dell’arcangelo istriano Benvenuti sembrano più che un incontro una via crucis in dodici stazioni o round.

Ne emerge uno spettacolo antico che avviene dietro il mondo e uno squarcio su un’Italia che è morta, ma che non ci abbandona. Un viaggio carnale nell’immaginario italiano. Una grande prova di stile, di sensibilità, di grazia. E forse anche per questo possiamo smentire l’autore concludendo: Sì, Aurelio Picca, merita la gloria…

Francesco Subiaco

Gruppo MAGOG