Dotata di un carisma indecifrabile e di un’opera di rara versatilità – cronista, narratrice, saggista, è stata autore al di là dei generi – Clarice Lispector (1920-1977) è riconosciuta come una scrittrice mitica, non solo per la grandezza della sua eredità letteraria, ma anche per chi riesuma e ricorda la sua figura, la bellezza inesorabile, la sensualità felina, la testardaggine, la resistenza alle convenzioni, la postura, allo stesso tempo carnale e poetica, con cui, piena di connaturata raffinatezza, si piantava nel mondo. Una particolarità che pareva strana pure a lei. “Clarice giunse da un mistero – tornò in un altro”, disse di lei il poeta Drummond de Andrade, per celebrare la sua morte. D’altronde, lei di sé aveva detto, “Sono talmente misteriosa da sfuggirmi”. E poi: “Non essere nata animale è la mia più segreta nostalgia”.
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Molti, naturalmente, ritenevano che la sua indole ribelle la rendesse una donna pericolosa. Lei lo sapeva, con certezza evidente. “Il mio dramma? Essere libera”, disse, una volta. Negli ultimi decenni la scrittrice ucraino-brasiliana è diventata un fenomeno di mercato e di moda, in tutto il mondo. Già figura centrale della letteratura brasiliana, dopo la morte è diventata popolarissima: il suo nome e la sua immagine sfolgorano sui souvenir che portano i turisti a Rio e i suoi libri sono venduti nei distributori automatici in metropolitana. Migliaia di persone vanno verso le spiagge brasiliane solo per far visita all’appartamento in cui è vissuta – tra Leme e Copacabana – o per fare tappa a La Fiorentina, il ristorante, residuo della bohème anni Sessanta, dove Clarice incontrava gli amici o si sedeva a scrivere, di fronte al mare. L’apparizione, nel 2009, per la Oxford University Press, della monumentale biografia di Benjamin Moser, Why This World: A Biography of Clarice Lispector (“Mi sono innamorato di lei”, ha ammesso lo studioso), non è estranea al fenomeno: il “New York Times of Books” ha dedicato la copertina a Clarice, primo scrittore brasiliano ad occupare un simile spazio. Uno dei suoi traduttori, Gregory Rabassa, ha detto di Clarice, “Se Kafka fosse donna e brasiliano, se Marlene Dietrich fosse scrittrice…”.
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Nata nel dicembre del 1920, la scrittrice fu concepita per curare la sifilide della madre: credevano che una gravidanza potesse guarirla. Non si perdonò mai – oltre ogni ragione – la morte, infine, della madre: la vaga colpa di non essere riuscita ad adempiere la sua ‘missione’ spiega in parte la profonda malinconia, la personalità estrema di alcuni testi. “La storia di ogni persona è la storia del suo fallimento. Fui colpevole della mia nascita, nata nel peccato mortale”. Da ragazza (“eravamo molto poveri – ma lo ignoravo”) giocava con le parole, perseguendo il prodigio nella costruzione della frase. Da grande, perse ogni speranza: “Scrivere non muta nulla, scrivo senza sperare che ciò che scrivo possa cambiare qualcosa. Non cambia nulla”. La famiglia arrivò in Brasile nel 1922. Clarice è cresciuta a Recife – lì è vissuta fino a 12 anni; a 15 il padre decise di trasferirsi a Rio de Janeiro. Dopo aver studiato legge e praticato come segretaria e giornalista, a 23 anni pubblica Vicino al cuore selvaggio, il primo romanzo, con cui vince il prestigioso premio “Grace Aranha” e raccoglie una serie di critiche lodevoli. Diceva di essere “una persona che sente in profondità e usa le parole per esprimere ciò che sente – poco, troppo poco”. Tuttavia, è da quel romanzo che comincia la sua leggenda.
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Un anno prima si era sposata con Maury Gurgel Valente, diplomatico, che avrebbe accompagnato per vent’anni nei suoi viaggi, fino al divorzio e il ritorno in Brasile con i due figli, uno dei quali schizofrenico. Nel 1933 capì di voler essere scrittrice; col tempo realizzò che scrivere era la cosa che le piaceva di più, “più di fare l’amore”. Nel 1976 atterrò in Argentina, alla Fiera internazionale del libro di Buenos Aires. Si era da poco instaurata la dittatura militare. “Mi sento come una star del cinema”, scrive sul suo diario. Morì a 56 anni, di cancro alle ovaie, alla vigilia del suo compleanno: come da bambina, anche negli ultimi istanti voleva giocare. “Facciamo finta che non stiamo andando in ospedale, che non sono malata, andiamo a Parigi!”, diceva all’amica, Olga Borelli, che la stava accompagnando in taxi, un attimo prima della morte. “Scrivendo mi libero di me stessa e mi posso riposare”: così, da anni, Clarice aveva vinto la morte.
Verónica Abdala
*L’articolo riproduce in parte – e leggermente modificato – quello pubblicato sul “Clarín” il 28 aprile 2020 come “Clarice Lispector nel centenario della nascita: l’impronta di una scrittrice leggendaria”