Come tutti i libri di Borges, anche Prologhi – altrimenti innocua antologia di introduzioni redatte dal sommo argentino tra il 1923 e il 1974 – presta il destro al labirinto. D’altronde, nel Prologo ai Prologhi, è lo stesso Borges a intuire l’infinito in un gesto intellettuale altrimenti didattico:
“Il libro che sto ora intravvedendo… sarebbe formato da una serie di prologhi di libri che non esistono”.
Il sospetto è l’allenamento principale per far fronte alla valanga di citazioni disseminate da Borges, un mago nell’ordire apocrifi, nell’impaniare la divinità in piume di struzzo. Ad ogni modo, i libri impilati in Prologhi paiono autentici. Borges, perito archimandrita, parla dei suoi lari: Ray Bradbury e Thomas Carlyle, Henry James e Lewis Carroll, Hermann Melville e Marcel Schwob; naturalmente, compaiono Emanuel Swedenborg, il mistico artista, e Walt Whitman, che Jorge, curiosamente, amava più di tutti – era, per così dire, il suo gemello ustorio, contrario.
Il prologo più interessante, tuttavia – almeno, ad albore di centenario – è quello che Borges dedica a La metamorfosi di Kafka. Il testo, pur breve, ci relaziona in merito a diverse cose. Ad esempio: non sapevo che l’ultima amante di K., quella che lo scorta alla morte, Dora Dymant, fosse “una ragazza appartenente alla setta degli Hassidim, o devoti”. Insomma, soffriva di accessi di misticismo. Secondo Borges, poi, “La più indiscutibile virtù di Kafka è l’invenzione di situazioni intollerabili. Per un’incisione duratura gli bastano poche righe”. Da qui, il genio per la forma breve, per il racconto col flagello, il quintessenziale kafkiano, e l’autentico carisma nel forgiare incubi. In un breve saggio pubblicato su “La Prensa” nel giugno del 1935, Las pesadillas y Franz Kafka – ora in Textos recobrados 1931-1955 (2001) – Borges s’inoltra tra le brume kafkiane:
“Franz Kafka, padre di disinteressati sogni, di incubi che non hanno altra ragione oltre il loro incanto, incantesimo cappio, tocca una solitudine inattingibile. Non conosciamo – e forse non conosceremo mai – lo scopo che ha alimentato tali testi. Approfittiamo di questa ignoranza, del dono della sua morte, e leggiamoli con disinteresse, con puro godimento tragico. Avremo la nostra vittoria – e lui la sua gloria”.
Il paragrafo contiene il disincantato senso per la critica di Borges: i testi vanno letti per ciò che sono, senza briglie accademiche. Il beato ignorante – chi si getta nel Lete letterario – è il solo lettore autentico.
Anche recensendo Citizen Kane di Orson Welles – questa volta su “Sur”, nell’agosto del 1941 – Borges si rivolge a Kafka, la fonte universale di chi si nutre di incubi e tenta di “raccontare l’indagine nelle segrete dell’anima di un uomo”. Non dobbiamo stupirci: Borges ha asserito di aver cominciato a leggere Kafka nel 1916, “quando decisi di imparare il tedesco… Mi colpì che scriveva in maniera semplice, tanto che anche io potevo capirlo”. Aveva diciassette anni, studiava al Collegio Calvin, a Ginevra, amava leggere Rimbaud e Schopenhauer.
Ma torniamo a noi. Nel prologo dedicato a La metamorfosi, Borges scrive che Kafka realizza, in narrativa, “il primo e più evidente dei paradossi di Zenone”. Per capire l’allusione, bisogna leggere un altro testo che Borges dedica a Kafka. Si trova in Altre inquisizioni (1952), s’intitola Kafka e i suoi precursori; in quel saggio, tuttavia, lo scrittore argentino spiega come “il paradosso di Zenone contro il movimento” sia la radice topografica e psichica del Castello, non de La metamorfosi. In quel saggio – un gioco, in fondo – Borges asserisce che un racconto di Lord Dunsany – eccentrico e dimenticato inventore di fantasmagorie – e un poema di Robert Browning, Fears and Scruples (che esiste davvero) avrebbero “profetizzato l’opera di Kafka”. Sciocchezze.
Non è una sciocchezza, invece, un dettaglio del prologo citato finora. La metamorfosi di Kafka introdotta da Borges, stampata a Buenos Aires nel 1938 da Editrice Losada, reca la didascalia: “Traduzione di J.L.B.”. La prima edizione del libro – facilmente rintracciabile in rete – e le più recenti ristampe, in effetti, recitano, a caratteri ineluttabili: “Traducción directa del alemán y prólogo de Jorge Luis Borges”. Dunque: Borges è il traduttore argentino di Kafka.
Non bisogna correre troppo: Borges – come Kafka – è uno dei pochi scrittori a essere eletto al rango di aggettivo; questa è una situazione borgesiana. Pare certo, infatti, che non sia Borges il traduttore de La metamorfosi di Kafka; lo ha dichiarato l’autore, esattamente cinquant’anni fa, nel 1974, a Fernando Sorrentino: “Quella traduzione dev’essere di qualche traduttore spagnolo. Ho tradotto gli altri racconti di Kafka, raccolti nello stesso volume della casa editrice Losada. Per semplificare – o per motivi puramente tipografici – si è preferito attribuire a me la traduzione dell’intero volume, incorporando la versione anonima di quel testo” (in: Siete conversaciones con Jorge Luis Borges, Casa Pardo, 1974).
Siamo nel settimo cielo borgesiano. I racconti di Kafka, in edizione successiva, infatti, non sono ascritti a Borges ma a Miguel Ballesteros Acevedo, cioè al figlio di Guillermo de Torre, che ha sposato la sorella di Borges. Guillermo de Torre, strepitoso animatore della cultura in lingua spagnola, è tra i più assidui collaboratori della “Revista de Occidente”, il foglio fondato da José Ortega y Gasset: è lì che nel 1925 compare, anonima, la prima traduzione in spagnolo de La metamorfosi; quella incorporata nell’edizione argentina. In molti, affibbiano la traduzione a Margarita Nelken (1894-1968), madrilena, figlia di ebrei-tedeschi, femminista, socialista. Anche Adriano Sofri – autore del (brutto) Una variazione di Kafka, Sellerio, 2018 – consegna a lei, “una donna spagnola dalla vita brillante, tumultuosa e triste”, la traduzione di Kafka. Secondo Marietta Gargatagli, autrice dell’appassionante ¿Y si La metamorfosis de Borges fuera de Borges? (“El Trujamán”, gennaio 2014), non è così:
“La paternità di Margarita Nelken come traduttrice dei racconti di Kafka gode di una strana popolarità, il che rivela, ancora una volta, che la leggenda è più importante dei fatti. Per ciò che ne sappiamo, nessun fatto conferma tale leggenda”.
Il mistero, borgesianamente, permane. Nel 1978, per le straordinarie edizioni di Franco Maria Ricci, al numero 9 della collana “La Biblioteca di Babele”, Borges pubblica come L’avvoltoio una scelta di racconti kafkiani; la traduzione, in quel caso, è quella, consueta, di Ervino Pocar. Resta il fatto che Borges, onnivoro onnisciente, nel dialogo con Sorrentino scoscende in ipotesi traduttive d’eccellenza: “Conosco abbastanza il tedesco per capire che Die Verwandlung non è Die Metamorphose, e che una corretta traduzione avrebbe dovuto suonare come ‘La trasformazione’. Ma un traduttore francese – magari, accennando al remoto Ovidio – preferì La métamorphose e noi, pedissequamente, servili, abbiamo accettato quella proposta”.
Immaginare un racconto intitolato “La trasformazione” in cui Kafka – alla stregua di Ovidio – si dilata in farfalla, a questo punto, è un esercizio cartesiano. Che un falò sia figlio di un’effimera è felice fato.
Nel fatidico prologo alla Metamorfosi, Borges ravvisa nel desiderio di rogo di Kafka l’assenso a pubblicare la propria opera. “La segreta volontà del morto” non è quella di distruggere i propri manoscritti tra le fiamme, ma, al contrario, di salvarli dall’oblio, tramutandoli in fenice. Le torce, spesso, hanno il volto leonino, spesso tacciono.
“Kafka d’altronde avrebbe desiderato scrivere un’opera lieta e serena, non l’uniforme serie di incubi che la sua sincerità gli dettò”.
Quando Kafka, lentamente, muore, Borges pubblica il suo primo libro, Fervor de Buenos Aires. Anche questo è un segno; la letteratura è un gioco di ruoli, un giogo fatto di consegne e di reticenze, di vuoti di memoria, di parole sul punto di essere dette, di fuochi fatui e fatalità.