
“Per le stanze luminose”. Herman Bang, lo scrittore dell’attimo e del dettaglio
Letterature
Silvano Calzini
I russi scrivono autobiografie straordinarie. Forse perché credono di aver vissuto un’epoca magnifica e terribile; forse perché hanno fede nella loro terra, nella missione della Grande Madre Russa. I russi scrivono autobiografie straordinarie.
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L’autobiografia scritta da un russo è l’esatto contrario di un’autobiografia scritta da un francese. I francesi sono eccellenti autobiografi: scrutano l’io e le sue le sue più analitiche perversioni, sbocconcellano l’anima e le smaliziate ancelle – sono degli avanguardisti dell’ego. Il russo racconta, attraverso se stesso, un’epoca; racconta la Russia: ecclesia incarnata nei suoi cittadini, ubriachi di una sinistra, abbagliante profezia.
Il francese si mette in scena, il russo si fa sacrificale agnello.
Il francese crede nell’individuo, il russo crede in Dio.
Le autobiografie dei russi? Un’appendice all’Apocalisse. Giorno dei Giorni/Rivoluzione.
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Tutti gli scrittori russi cedono all’autobiografia. Alcune autobiografie sono bellissime, miliari. Pensiamo ai libri di Nadežda Mandel’štam, autentici colossi; a Necropoli di Vladislav Chodasevič; ai libri di Viktor Šklovskij; ai ricordi di Arsenij Tarkovskij, di petroglifica eloquenza. Anna Achmatova era una pessima scrittrice di se stessa – così impregnata nei propri autobiografici, nottambuli versi. Boris Pasternak, sgargiante scrittore di difformi autobiografie – la più bella è la prima, una vera e propria gimkana nel linguaggio, Il salvacondotto – scrisse che di quel “mondo unico, incomparabile… bisogna scriverne in modo da mozzare il fiato, da far inorridire”.
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Le autobiografie di Pasternak pullulano di nomi, spessi infinitesimamente ignoti, pullulano di fatti. Come ho detto, il russo, quando scrive la propria autobiografia, si mette da un lato, in alto. È il mozzo sull’albero maestro, è la sentinella nella notte – è incurante di sé perché il mondo gli gonfia gli occhi, gli occhi gli si dilatano in zattere.
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Forse c’è qualcosa delle cronache bizantine – penso al turbinio di chiacchiere di Michele Psello – e dell’eroismo degli Atti degli apostoli nelle autobiografie dei russi. Dietro il desiderio di salvare un mondo, il sottile gusto per il pettegolezzo. Un candore raggiunto attraverso le sottigliezze della crudeltà.
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Anche gli scritti autobiografici di Varlam Šalamov – raccolti da Adelphi nel micidiale Tra le bestie la più feroce è l’uomo – sono gonfi di nomi: poeti, scrittori, politici che appaiono come lumi invernali, come effervescenti effimere. In un cammeo, Šalamov racconta la triste storia di Andrej Sobol’, che a Capri scrisse “il romanzo cui pensava da tempo e che riteneva la sua opera più importante”, Racconto di una quiete azzurra. Fu “una folata di italico scirocco” a vanificare lo sforzo, inghiottendo nell’azzurro partenopeo, per sempre, il romanzo, impilato in fogli, pronto per la stampa. “Sobol’ impazzì”, tornò a Mosca, si uccise, con un colpo di pistola all’addome, “nell’autunno del 1926, in viale Tverskoj, vicino a piazza Nikitiskie Vorota”.
In un’epoca che cancellava il nome degli indesiderati – e faceva dubitare i parenti che quel nome e quel volto fossero mai esistiti –, che giocava ad alterare le date della morte e della nascita, anche il mero riferimento topografico è un atto di resistenza.
Per l’Enciclopedia Treccani, Sobol’ è un “rivoluzionario e individualista”: dida paradossale, quasi un ossimoro.
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Varlam Šalamov amava Boris Pasternak, credeva che Mia sorella la vita – che preferiva di gran lunga al Dottor Živago – avesse “portato in superficie, nel campo poetico, interi nuovi filoni”. Dopo vent’anni di gulag, il 13 novembre del 1953, Šalamov, appena approdato a Mosca, incontra Boris Pasternak. Gli aveva scritto l’anno prima, il 22 febbraio, la prima lettera di un acceso epistolario. Šalamov vi allegava “due libretti, che non saranno mai stampati né pubblicati. È solo una modesta testimonianza della mia sconfinata stima e del mio amore per un poeta dei cui versi sono vissuto per vent’anni” (in: V. Šalamov-B. Pasternak, Parole salvate dalle fiamme, Archinto, 1993; 2009). Pasternak aveva compiuto gli anni pochi giorni prima, gli rispose diversi mesi dopo, con una lunga, accorta, accorata lettera. I versi di Šalamov gli piacquero; utili, scriveva – sibillino –, a un “perfezionamento interiore”.
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A fare da tramite tra Pasternak e Šalamov (che vite, i russi…) era stata la moglie di quest’ultimo, Galina Ignat’evna Gudz’. Si erano sposati nel 1934; lei non voleva ospitarlo a Mosca, aveva paura di ripercussioni. Lui le scrisse una lettera, qualche anno dopo, nel 1956, “Penso che non valga la pena di vivere insieme”. Si risposò – ridivorziò. Minato da un male incurabile, alla fine degli anni Settanta, tentò di ricontattare la moglie, che aveva continuato ad amare. Tentò di contattare la figlia, Lena: la prigionia li aveva resi estranei, da ragazza, nei questionari, scriveva che il padre era morto. “Non conosco quell’uomo”, disse – e Šalamov morì, solo.
Forse è in questo terribile disconoscimento – la figlia che non riconosce il padre – che si riassume l’estro sinistro di un’era. Più in particolare, perché un legame si stringa un altro deve sciogliersi. La moglie fu il corpo offerto, sacrificale, affinché Šalamov si unisse a Pasternak.
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In alcuni appunti degli anni Settanta – raccolti in un antico libro: V. Šalamov, Nei lager non ci sono colpevoli, Theoria, 1992 – Šalamov scrive:
“Io non credo nella letteratura. Non credo alle sue possibilità di educare gli esseri umani… Non credo alla possibilità di prevenire le cose, di evitare che si ripetano. La storia si ripete. Ogni fucilazione può essere ripetuta… La cosa peggiore è che creare per un artista significa disfarsi del dolore, attutire la propria sofferenza”.
E in un altro scritto:
“Per un racconto ho bisogno di silenzio assoluto, di una solitudine assoluta… Ogni racconto, ogni singola frase è stata preventivamente urlata in una stanza vuota: quando scrivo, parlo sempre da solo. grido, minaccio, piango. E le mie lacrime scorrono ininterrotte”.
Scrivere – come pregare.
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Tuttavia, Šalamov, che nasce poeta – in Italia, le poesie di Šalamov sono state tradotte da Gario Zappi per Giometti & Antonello come Quaderni della Kolyma, 2020 – confidava in Pasternak. “Fino a quando ci incontrammo di persona, io l’avevo considerato un dio, un profeta quanto meno”. In realtà, scoprirà un uomo, creatura impura e infida, imbestiata da illusioni e reticenze, “avviluppato nella matassa degli intrighi di qualcuno”.
Secondo Varlam Šalamov è inevitabile la coincidenza tra uomo e artista: un grande poeta deve distaccarsi dagli orrori del tempo, deve essere superiore alle ruberie della Storia, deve farsi scaltro per eccesso di innocenza. Šalamov aveva vissuto gli inferi, aveva visto l’inimmaginabile: il fatto di essere un sopravvissuto gli conferiva attributi eroici. In verità, il poeta può anche essere la più vile tra le persone, la più immatura, un paria: al di là del bene e del male (chi può davvero dire di non vivere compromesso?, chi può dire di non essere colpevole?), è un puro dono – sapore di sangue in bocca, quando leggiamo i suoi versi.
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Alla discepola Irina P. Sirotinskaja, Šalamov, “fronte alta, capelli gettati all’indietro, occhi azzurro-chiari e uno sguardo intenso, penetrante, tutta la sua figura alta e possente” da “eterno cavaliere, Don Chisciotte che voleva salvare gli uomini, le loro anime deboli e i loro deboli corpi”, Varlam Šalamov disse: “Come vivere? Con i dieci comandamenti. Lì è detto tutto” (in: V. Šalamov, I racconti di Kolyma, Einaudi, 1999).
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Eppure, Šalamov non può che fare continui riferimenti al numinoso quando parla di Pasternak. Nel lungo scritto a lui dedicato, raccolto nel volume Adelphi, Šalamov scrive che “Pasternak era davvero il poeta di cui avevo cara ogni parola”, scrive di leggere Pasternak come fosse il Vangelo. Infine, fa un riferimento al mondo buddista:
“Ho sempre pensato, e lo penso tutt’oggi, che nella vita ci devono essere delle persone, persone vive, nostri contemporanei, delle quali possiamo fidarci, con un’autorità morale senza limiti. E che debbano essere necessariamente persone che abbiamo accanto. Allora sarà più facile vivere, sarà più facile continuare a credere nell’uomo. È questo bisogno a generare la religione dei buddha viventi. Per me quell’uomo è stato Pasternak”.
La frase è meravigliosa, vagheggia ambiguità. I grandi poeti sono come i bodhisattva, gli illuminati che rinunciano al nirvana, si spogliano del fine, per tornare al mondo, reincarnarsi e salvare gli uomini, uno ad uno, tutti. Šalamov mirava a essere uno di questi.
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Eppure, il racconto più bello dei Racconti della Kolyma – in questo caso, cito dall’edizione Adelphi, a cura di Marco Binni, 1995 –, Cherry-Brandy, è dedicato a Osip Mandel’štam, il poeta morto nei Gulag. In alcuni passi memorabili, si legge una sorta di poetica – una poetica scaturita dal fondo dell’uomo, dalla più fosca paluda, dal disumano, dal luogo della disperazione:
“Scrivere, pubblicare – tutto ciò non è che vanitas vanitatum. Tutte le cose che nascono in modo non disinteressato non sono le migliori. Il meglio è ciò che non viene annotato, che è stato creato e scompare, che si scioglie senza lasciare traccia…”.
Šalamov fa riferimento al raggiungimento supremo, quando:
“Tutto l’universo intero era poesia: il lavoro, lo scalpitio dei cavalli, una casa, un uccello, una roccia, l’amore – tutta la vita entrava facilmente nei versi e ci si installava comodamente. E doveva essere così perché i versi sono la parola”.
Scrivere è un atto troppo umano, degno di svanire, volgare; creare è un gesto divino. Gesù e Buddha non hanno scritto – hanno vissuto poeticamente.
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In questo afflato religioso – poesia: addestramento al Verbo; poesia: pittura di icone – si rivela la genia di Šalamov: il padre, Tichon Nikolaevič, era un prete ortodosso, missionario. Amava cacciare. Varlam Šalamov si fa vanto del contrario:
“Vado fiero di non aver ucciso di mio pugno un solo essere vivente in tutta la mia vita, soprattutto fra gli animali. Non ho distrutto un solo nido, non ho mai imparato a tirare con la fionda, non ho mai tenuto in mano un fucile da caccia o un’altra arma”.
Per questo, da bambino lo prendevano in giro. Ricorda il padre che sventra la capra e che apre il corpo di un luccio con un coltello. Šalamov teneva le bestie, “mio padre aveva delle capre, io ero il pastore”. Era un ragazzo “abituato a rispondere colpo su colpo”. Più volte, aveva lavato le gambe alla madre, malata.
Al funerale di Pasternak – a cui partecipa quasi di soppiatto, evitando la fanfara dei curiosi – Šalamov esplora una frase di geniale ingenuità:
“Avevo come l’impressone che il miracolo si sarebbe compiuto, che il poeta sarebbe risorto”.
È implacabile questa necessità del poeta di affrancarsi dai vivi per inseguire il corpo di un altro poeta, morto. Iosif Brodskij che scorta il corpo morto di Anna Achmatova. Boris Pasternak che ricorda il corpo morto di Marina Cvetaeva, l’assoluta sola, e quello di Vladimir Majakovskij, il divino cantore della Rivoluzione. Eccola, l’eredità del poeta: corpo enfiato da morte. Corpo, tuttavia, che può, che deve risorgere.
C’è qualcosa di giusto nel poeta che si vanta di non aver ucciso essere vivente, di non aver imbracciato arma e confida nella resurrezione del suo maestro. È inutile dire che i poeti non muoiono mai – il poeta deve risorgere.
Io non ho ucciso alcuna creatura perché il poeta risorga – urla Šalamov, risalendo alle origini sciamaniche del suo dire.
Il poeta deve risorgere, il poeta deve vincere la morte e salvarci.
Non c’è gratitudine, ma giustizia in questo.
Immagino Šalamov che sorride, davanti al feretro del suo maestro, assediato dagli incensatori e dagli incensieri. Torna a casa danzando. Sa che quella notte dialogherà a lungo con l’ombra del poeta – lo convincerà a risorgere. In forma di betulla o di rospo, di tigre o di nenia, non è poi importante.