L’isola di Wrangler è uno sperone roccioso nel mare della Siberia orientale: dal 2004 è un bene protetto dall’Unesco a motivo delle peculiarità naturalistiche; per gli orsi polari pare una prelibatezza, una lussuria, vi approdano per riprodursi. Le foche attraccano in massa, hanno ritrovato scheletri di mammut. L’isola è lunga 125 chilometri, pare inabitabile, ma fino a un secolo fa avventati coloni statunitensi, canadesi e russi hanno fatto guerra per appropriarsene. Scoperta dal barone Wrangler, tra i fondatori della Società geografica russa, l’isola è zarista dal 1916, sovietica da cento anni. Il primo a descriverla con minuzia naturalistica, nel 1881, è stato John Muir: vi era capitato su un cutter, il “Corwein”, guidato dal comandante Calvin L. Hooper; la missione, almeno di facciata, mirava a recuperare i membri della “Jeannette”, la disastrosa spedizione del 1879, guidata da George W. DeLong con l’intento di conquistare il Polo Nord. Impaniato tra i ghiacci siberiani, travolto da una sequela di tempeste, l’equipaggio naufragò sull’isola di Wrangler, si disperse. Ad ogni modo, le descrizioni di Muir convinsero gli Stati Uniti ad accampare pretese – infine inutili – su quell’affioramento petroso, livido scoglio artico.
All’epoca, John Muir aveva 43 anni: nato in Scozia, a Dunbar, si era trasferito nel Wisconsin nel 1849; da tempo era noto per le sue escursioni eccezionali e per il carattere eccentrico. L’anno prima aveva sposato Louisa Wanda Strentzel, mettendosi a gestire il ranch di famiglia, in California, ricco di vigne e frutteti. Tra il 1879 e il 1880 aveva compiuto diverse spedizioni in Alaska, spesso in canoa, il cui esito è raccolto in Travels in Alaska. Era un uomo pratico, Muir, con una capacità innata nell’osservare e nel catalogare; amava i libri di Ralph Waldo Emerson, aveva inventato una sega ad acqua per tagliare il ferro, era solito dire “avrei potuto essere un milionario, ho preferito diventare un vagabondo”.
Sguardo penetrante, barba da sapiente, fisico limato dalle camminate, Muir è noto soprattutto per le sue scorribande nello Yosemite, di cui, si può dire, ha creato il mito, il culto. Passò parte della vita a lottare per la tutela di quell’area, sotto minaccia di sfruttamento: una fotografia lo ritrae, nel 1906, insieme a Theodore Roosevelt, che aveva scortato in una gita tra rocce a precipizio, boschi serpeggianti, fiumi. Nel 1892 diede vita alla prima organizzazione ambientalista degli Stati Uniti, “Sierra Club”. Muir era un estremista: non gli interessava “conservare” le aree naturali per sfruttarle con accordata accuratezza; era per la “preservazione”, cioè per la costruzione di parchi naturali atti “alla vita raminga, all’ispirazione, alla preghiera”. I nativi lo chiamavano “Ancoutahan”, ma secondo Miur neppure loro conoscevano a sufficienza lo spirito della natura. Naturalmente, è stato accusato – un paio di anni fa, nell’orda della cultura col cancellino – di “non essere immune dal razzismo”, di “aver fatto commenti sprezzanti sui neri e sui nativi”, di “propugnare stereotipi razziali”. Per fortuna, le polemiche, stupide, bieche, antistoriche, paiono rientrate: in Italia – in piena moda ecologista – i libri di John Muir sono editi da La Vita Felice (Una tempesta di vento nella foresta, 2019; Stickeen. Storia di un cane, 2022), da Piano B (Andare in montagna è tornare a casa, 2020), da Keller (La mia prima estate sulla Sierra, 2021). Autentico classico nel mondo anglofono, la “Wilderness Collection” di John Muir – che comprende anche il viaggio in Alaska – è pubblicata da Gibbs Smith; in Francia, da tempo, è José Corti a editare alcuni libri del naturalista viaggiatore: l’ultimo passa come L’Appel du sauvage. Qui traduciamo alcuni passi dall’autobiografia di Muir, che racconta l’inesorabile “chiamata” al mondo dei boschi, l’“arcana ferocia”, come scrive lui, che porta un uomo a voltare le spalle al mondo, a tuffarsi nel rischio silvestre.
A differenza dell’esperienza di Henry David Thoreau, che resta uno scrittore capace di costruirsi una capanna in riva al lago, quella di Muir è meno politica, meno intellettuale. Per Miur ciò che ha risalto non è la “vita nei boschi” ma la vita dei boschi; l’occhio dell’uomo che sceglie il selvaggio non ha preminenza sulla via del seme, il valore della roccia, la potenza della bestia. Il bosco non ha un senso – etico, religioso, di disobbedienza civica – perché un uomo singolare lo ha scelto; il bosco dà senso all’esistere umano. Non è il frutto di un’opzione, ma una necessità.
Ad ogni modo, Muir fallì: c’era qualcosa di ostinato e di insopportabile, di insopprimibilmente anti-umano, anti-progressista nel suo modo di divulgare l’etica dei parchi naturali. Il suo faccione barbuto è stato, di volta in volta, stampato su francobolli commemorativi, perfino sul retro di alcune monete; finché Muir non è diventato un guru ambientalista. Diversi monti – in Sierra Nevada e in Alaska – portano il suo nome. Gli amici raccontano che anche quando lavorava al ranch, “il suo cuore era selvaggio, il suo animo irrequieto”; allora la moglie lo lasciava alla montagna. Stava via per giorni. A volte per mesi. Spesso portava con sé le due figlie. Per definire la luce scriveva “gloria”.
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Quando ero piccolo, in Scozia, amavo tutto ciò che era selvaggio; per il resto della vita mi sono appassionato sempre di più ai luoghi e alle creature selvagge. Per fortuna, nei dintorni della mia città natale, Dunbar, che si trova lungo il margine dell’impetuoso Mare del Nord, nonostante gran parte della terra fosse coltivata, non mancavano zone selvagge. Con amici selvatici come me, amavo vagare per i campi, ascoltare il canto degli uccelli, vagare lungo le rive per esaminare alghe e conchiglie, cercare i granchi nelle fosse d’acqua, tra le rocce, quando c’era la bassa marea; fissare le onde, durante le terribili tempeste, che si infrangono come tuoni sulle scogliere scure e contro le frastornate rovine del vecchio castello di Dunbar, mentre cielo e mare, onde e nubi si fondono in una sola, mobile cosa.
Non mi passava per la testa di saltare la scuola, eppure, avevo cinque o sei anni, mi involavo per la campagna o verso il mare ogni sabato; quando era vacanza ci andavo ogni giorno, tranne la domenica, benché il costume formale fosse quello di obbligarci a giocare in giardino, evitando il rischio. Era tutto inutile. Nonostante le inevitabili, violente punizioni, un’arcana ferocia, raffinata nell’orgoglio, scorreva nelle nostre vene e continuava il suo glorioso corso, inarrestabile, inarginabile, come quello delle stelle.
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Tutto un susseguirsi di esperienze terrificanti legate ai primi giorni di scuola era connesso a una serie di crimini commessi a Edimburgo dal custode di un fienile: permetteva ai senzatetto di dormire gratis, o per un centesimo a notte, finché Morte non lo assecondava e dunque vendeva i loro corpi al dottor Hare della scuola di medicina, che li dissezionava. Le maestre ci raccontavano di certi “Dottori volanti”, drappeggiati da vasti cappotti neri, con cerotti straordinariamente letali, che attraversavano la notte nelle strade della città alla ricerca di bambini: li soffocavano per venderli all’obitorio. Secondo la bidella della scuola, tali “Dottori volanti” coprivano rapidamente, con il cerotto, la bocca dei bambini, in modo da impedirgli di chiedere aiuto, li avvolgevano nel loro ampio cappotto e li portavano a Edimburgo, per venderli e tagliarli in piccoli pezzi, così da vedere come siamo fatti dentro. Di notte nessuno si avventurava a varcare la porta di casa: il sussurro dei “Dottori volanti” era ovunque. In inverno, quando l’oscurità crollava prima e la nebbia impediva di vedere i sentieri, un domestico, con la lanterna, accompagnava i bambini a casa. Io, ostinato, andavo da solo, mi affascinavano le ombre, la paura.
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Mio padre era molto orgoglioso del suo giardino: voleva farlo assomigliare il più possibile all’Eden. In un angolo, aveva donato a ciascuno di noi un piccolo pezzo di terra, dove eravamo liberi di piantare quello che volevamo. Ci meravigliava sempre come un seme secco e duro potesse mutarsi in foglie fragranti e fiori teneri, trovando da solo la strada per la luce. Anche mia zia aveva il proprio angolo nel giardino: lo riempiva di gigli. Tutti guardavamo con il massimo rispetto e la più alta ammirazione quella preziosa folla di gigli chiedendoci se da grandi avremmo mai avuto qualcosa di tanto eccezionale. Nessuno di noi ha osato sfiorare una foglia o un petalo di quei gigli: pensavamo valessero una fortuna. Ci colpivano con la forza dello stupore e della soggezione.
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C’è un solo uccello che frequenta le cascate della Sierra: il merlo acquaiolo (Cinclus mexicanus). È un tipo allegro, singolare, ricoperto da un piumaggio grigio-blu, più scuro sul capo e sul dorso. Ha un aspetto grassoccio, compatto, il profilo interrotto dalle gambe, solide, e dal becco. Tra le innumerevoli cascate che ho avuto il dono di incrociare in dieci anni di esplorazioni nella Sierra – sia sui picchi glaciali che tra le calde colline o nei canyon abissali dello Yosemite – non ne ho trovato una che non avesse il proprio merlo. Nessun canyon è troppo freddo per questo uccellino; nessuno è troppo isolato, purché abbia una cascata. Trova una cascata, o una rapida impetuosa che sconnette l’armonia del ruscello: vi troverai il merlo acquaiolo che svolazza nell’aria, si tuffa nel vortice schiumoso o tumefatto di foglie – sempre pieno di vigore e di gioia, che non cerca né fugge la tua compagnia.
John Muir