16 Luglio 2020

La nostalgia del lago è letale, riguarda vite anteriori, una immobilità che ha il sapore di un assalto, il sentore del giaguaro in fondo alla nostra ipocrita quiete, una ipnosi

La nostalgia del lago è lenta, letale. Diversa. Non è una nostalgia solare, compiuta, come quella che si ha per il Sud, una nostalgia spassionata, da raccontare – la nostalgia del lago permette un segreto. Non è la nostalgia connessa ai luoghi dell’infanzia, senza giudizio. Non riguarda la nostalgia estatica delle vertigini, della montagna – commozione di volo angelico. È nostalgia di vite anteriori, credo. So che la nostalgia del lago, di un lago in particolare, il Lago Maggiore, è una nostalgia sottile, ambigua. Un veleno. Olia le ossa, finisce per inacidire i giorni, ulcerare l’immaginazione. Può uccidere.

*

Il Lago Maggiore procura una innaturale sensazione di quiete. Sbaglia, però, chi crede, turisticamente, che qui si trovi pace. Il lago è un brivido, scalfito a mala pena dalla luce del sole, una piastra appena estratta dal dio per fare il calco del proprio volto, e riprodurlo, all’ennesima, secondo oniriche deviazioni, nell’uomo. La superficie del lago è ignifuga ai sentimenti lirici, ai pensieri degli amanti in passeggiata – anche un motoscafo non è che unghia sul gesso; ogni segno, errore, virtù viene cancellata dal lago. Ma non dimenticata.

*

Una vecchia cammina a fatica lungo il circuito in pietra del porto di Angera. Ha con sé una borsa di plastica, gambe da cui s’irradia un nugolo di vene. Scende verso il lago: sulla scala è annunciata da oche, papere, germani, cigni. Dal sacco estrae sfere di pane, luminose, come uno che rovesci il tesoro dei Longobardi. Quella vecchia che ora ciba gli uccelli del lago un tempo forse fu in volo, è certo, era uno svasso, un cormorano.

*

Sotto la poetica superficie del lago ci sono i serpenti. Nel cratere glaciale, il grande serpente arrotolato. Chi nuota nel lago, sa che non può farsi ispirare da quel grave silenzio. Il lago ti trascina in fondo. Il lago è un enorme intestino: desidera mangiarti. Quando il lago sbadiglia, invade i villaggi dell’uomo e non basta una canoa a simulare il Pater, né processioni di Madonne che implorano al serpente di ritrarre le sue spire.

*

Chi vive al mare abita l’aperto: lo sguardo spazia senza vedere confini. Il mare abitua all’insolito, spinge all’avventura – a un ritorno. Al lago osservi la costa di fronte, sempre uguale, in duello, l’acqua ha tenore di palude. Il lago è un laccio, ti soffoca. Il lago, voglio dire, ti ipnotizza, come un amuleto che ondeggia davanti agli occhi: ipotizzare una vita passata soltanto ad ammirarlo non è ipotesi assurda né passeggera. Come mai? Perché l’immobilità del lago non è immobilismo: tutto è pronto a scattare. Il silenzio, fermo, acceso, prima dell’agguato.

*

Siamo sull’altare, salutare, dei contrasti. Il Lago Maggiore è accerchiato da ville bellissime: i Borromeo, sfiancati dalla vita milanese, si rigenerano al lago, costellano di palazzi le isole. Il selvaggio è da cartolina, il bosco riprodotto su uno specchio: bene agghindati, esporsi alla cruda nudità della natura – già certi di esserne esclusi – è una moda. Più sei ‘del mondo’ più ti avventi verso l’esclusivo: una costruzione del tutto umana, comoda, nell’incomodo della selva. Le ville, però, sono accerchiate a loro volta da boschi, di agghiacciante bellezza. Quelli hanno l’ultima parola. Nei crinali e nei canyon, spuntano Sacri Monti, strade sacre, vie crucis… Vicino alle statue che ripropongono la flagellazione del Nazareno, scattano le vipere, si avvicinano senza adorazione i cervi. Tra il dio-uomo che muore e l’antica tana delle linci una violenta fiducia: la fede, qui, attinge al pagano, alla divinità negli alberi, transfuga. Dentro il lago sono annegati diversi dèi: da questo, forse, va dedotta la nostalgia.

*

I massi, nei boschi, tradiscono tracce, petroglifi, fori, che testimoniano presenza umana millenaria. I re cavalcavano i lupi e la luce del lago era più tersa di quella lunare, una cicatrice alpina. Chi plana fin qui si ferma: la quiete del corpo permette allo spirito di scalare, ascendere, tradursi in giaguaro. Trovo sintonia tra l’audacia felina del lago e i codici aztechi.

*

Un amico, un sapiente, mi invia un documentario, come a dirmi, non ho altro da dirti. Un giaguaro, nelle foreste americane, schiva l’attacco di un serpente, attacca una scimmia, la mangia. Il giaguaro si muove con cautela nella foresta: sa che non è sua e che l’albero, su cui affila le unghie, lo vincerà. I suoi occhi cambiano – se non lacrima è per verticale, una interiorità espressa in atto, combaciante – lo sguardo ha una intelligenza imponderabile: sul manto sembra spalancarsi una mappa celeste. Dopo una giornata passata tra gli umani, passeggio sul bordo del lago, m’inoltro in un canneto. È sera e la luce che falcia il lago lo rende ancora più tangibile, lo puoi accarezzare, sembra pelle, una bestia. Ricordo una straordinaria scultura di Giancarlo Sangregorio, una pantera, scavata nel marmo nero, nel 1967. La pantera è indistinguibile perché lo scultore ne ha formalizzato il salto, l’assalto, il fruscio e il futuro morso della belva. Sangregorio era un viaggiatore inquieto – il suo studio è conficcato nel bosco, tra Sesto Calende e Angera, un balzo di vetri sul lago, che non ignora cinghiali e donnole. Si dice che mercanti di bestie, giunti da Roma sul Lacus Maximus, siano stati preda di razzia: il duca di Cannobio aveva il leopardo nel segno araldico e un bastone adornato da denti di tigre. Penso alle fiere equatoriali che affogano nel Lago Maggiore. Il lago non consuma, cristallizza i corpi in simboli. Chiedere di diventare biscia d’acqua è il miracolo. (d.b.)

Gruppo MAGOG