Il rigore della vertigine. Lev Šestov, il pensatore del sottosuolo
Idee
Luca Orlandini
La fede è violenta. Pronti a tutto, fino all’ultimo sacrificio
Cultura generale
Altri diranno della profondità di papa Benedetto XVI. A me sembrava nobile la sua apparente debolezza; un assoluto la sua inappropriata delicatezza a confronto con la veemenza di Giovanni Paolo II.
Uno che scrive si limita ad accorgersi dei segni, degli aironi inattesi in camera. Cinge di verbi le ombre. Così, quell’improvviso Medioevo nell’era traumatizzata dalla tecnologia, il 10 febbraio del 2013, dieci anni fa, mi sembrò un segno ineluttabile, una specie di Hiroshima in Vaticano, qualcosa che avrebbe dato senso ai per sempre ai mai più. Disse, il papa, durante il Concistoro:
Fratres carissimi, Non solum propter tres canonizationes ad hoc Consistorium vos convocavi, sed etiam ut vobis decisionem magni momenti pro Ecclesiae vita communicem. Conscientia mea iterum atque iterum coram Deo explorata ad cognitionem certam perveni vires meas ingravescente aetate non iam aptas esse ad munus Petrinum aeque administrandum.
Cronache familiari e dettagli infimi – mio padre, che rinunciò alla vita, è nato il 10 febbraio, come Boris Pasternak, il poeta che in modo inatteso si è appeso alla mia vita – consegnarono a quel fatto universale una peculiarità intima, a sfidare ogni pudore.
La rinuncia di Benedetto XVI mi apparteneva: rinunciare non è voltare la schiena ma svolgere la via.
La rinuncia di Benedetto XVI mi apparve come un monito: uno scrittore non può che occuparsi di Dio – e dunque, del mistero del corpo.
Insomma, scrissi un libro, lo intitolai Rinuncio, lo pubblicò, come sempre con cieca fiducia e germoglio di liti, Guaraldi. Il libro ragiona sulla rinuncia di papa Benedetto XVI a partire da un florilegio di pensieri, a lui ascritti, fittizi. Pensai che quella scelta non celasse motivi ‘di salute’, ma di salvezza; alle opzioni ‘politiche’, in cui si inabissava la canea giornalistica, aliena alle azioni dello Spirito Santo, preferii quelle mistiche. All’esuberanza esegetica, la latitanza.
Il libro credo sia ormai introvabile. All’epoca, per quel poco, fece chiasso. Sfiorò la cinquina del Campiello – che andò a Giorgio Fontana per Morte di un uomo felice, titolo infelice – e fu pubblicamente adottato dalla presidentessa di giuria di quella edizione, Monica Guerritore. Fu un libro che attrasse amicizie, inimicizie, che trovò una spuria via teatrale – Benedetto XVI fu interpretato dal sommo Paolo Graziosi, sia lode a lui.
In un racconto, Selah – pubblicato quest’anno dalle edizioni San Paolo – ritorno a quel romanzo, che mi sembrava bello e finì come un belato nel vuoto, come ogni opera meritoria, immagino, mi illudo.
So che Rinuncio è stato tra le mani di Benedetto XVI. Lo scrive Piergiorgio Odifreddi in un libro uscito per Rizzoli quest’anno, In cammino alla ricerca della verità. Lettere e colloqui con Benedetto XVI. Così scrive il matematico a pagina 90:
“Poiché il tempo scorre inesorabile, offro al papa un altro libro come regalo. Lui esclama: “Ma quanto scrive!”, credendo che sia un altro dei miei, ma si tratta invece di Rinuncio di Davide Brullo. Alla vista del titolo il papa alza il sopracciglio, per ovvie ragioni, ma io cerco subito di tranquillizzarlo. Non si tratta infatti dell’ennesimo saggio sulle sue dimissioni, ma di un originale romanzo che ha fatto parlare di sé dal punto di vista letterario: al Premio Campiello del 2014 la presidente Monica Guerritore ne ha persino letto in pubblico alcune pagine, benché l’opera non fosse entrata nella cinquina finale. E, in seguito, è diventata uno spettacolo teatrale. Racconto che l’autore, oltre a essere un poeta e un romanziere, è specializzato in opere dal contenuto religioso… In Rinuncio egli immagina che, dopo le sue dimissioni, il papa emerito si sia installato in un romitorio in Val d’Ossola, vicino alla Svizzera, e abbia scritto a varie persone, dal fratello Georg al successore Francesco, le lettere che costituiscono appunto il contenuto del libro. Ratzinger sorride, dicendo: “Invece sono qui, come può vedere”. E ironizza sul fatto che, a prima vista, l’opera “ha almeno il vantaggio di essere breve”. Ma ammette che sembra interessante, e forse lo leggerà”.
Ho conosciuto Odifreddi dopo aver stroncato un suo libro, scritto in comunella con Oscar Farinetti. Non mi sembra migliore il libro intorno a Benedetto XVI – non c’è dialogo tra uno scisto e un falco – ma è più interessante.
Uomo tanto fragile, Benedetto XVI ha attirato reazioni estreme – il godimento con cui, in fotografie vili, hanno sancito la vecchiaia dell’uomo di Dio, il deperire. I giornali ricorderanno ciò che si sa; ricordo che il 31 dicembre è presieduto da san Silvestro: durante il suo pontificato, benché su ispirazione di Costantino, si svolge il primo concilio di Nicea, con il parto del Simbolo niceno. In una delle ultime omelie, il 31 dicembre di dieci anni fa, Benedetto XVI dice, tra l’altro:
“Il Te Deum che innalziamo al Signore questa sera, al termine di un anno solare, è un inno di ringraziamento che si apre con la lode – «Noi ti lodiamo, Dio, ti proclamiamo Signore» – e termina con una professione di fiducia – «Tu sei la nostra speranza, non saremo confusi in eterno». Quale che sia stato l’andamento dell’anno, facile o difficile, sterile o ricco di frutti, noi rendiamo grazie a Dio. Nel Te Deum, infatti, è contenuta una saggezza profonda, quella saggezza che ci fa dire che, nonostante tutto, c’è del bene nel mondo, e questo bene è destinato a vincere grazie a Dio, il Dio di Gesù Cristo, incarnato, morto e risorto. Certo, a volte è difficile cogliere questa profonda realtà, poiché il male fa più rumore del bene; un omicidio efferato, delle violenze diffuse, delle gravi ingiustizie fanno notizia; al contrario i gesti di amore e di servizio, la fatica quotidiana sopportata con fedeltà e pazienza rimangono spesso in ombra, non emergono. Anche per questo motivo non possiamo fermarci solo alle notizie se vogliamo capire il mondo e la vita; dobbiamo essere capaci di sostare nel silenzio, nella meditazione, nella riflessione calma e prolungata; dobbiamo saperci fermare per pensare. In questo modo il nostro animo può trovare guarigione dalle inevitabili ferite del quotidiano, può scendere in profondità nei fatti che accadono nella nostra vita e nel mondo, e giungere a quella sapienza che permette di valutare le cose con occhi nuovi. Soprattutto nel raccoglimento della coscienza, dove ci parla Dio, si impara a guardare con verità le proprie azioni, anche il male presente in noi e intorno a noi, per iniziare un cammino di conversione che renda più saggi e più buoni, più capaci di generare solidarietà e comunione, di vincere il male con il bene. Il cristiano è un uomo di speranza, anche e soprattutto di fronte al buio che spesso c’è nel mondo e che non dipende dal progetto di Dio ma dalle scelte sbagliate dell’uomo, perché sa che la forza della fede può spostare le montagne (cfr Mt 17,20): il Signore può illuminare anche la tenebra più profonda”.
Ero sedotto da questa profondità sulla sedia di fianco, sul tavolo. Proprio come se l’invisibile non fosse alle porte ma già dentro casa: l’abisso si spalanca sul pavimento e il cuore è pieno di ante. C’è qualcosa di teneramente tenace in Benedetto XVI.
Rinuncio non piacque a Cesare Cavalleri: ne scrisse su “Avvenire”, il 4 giugno del 2014, facendo la ramanzina al romanzo, precisando: “Il fatto è che Brullo, anche quando scrive «romanzi», rimane un poeta, e al poeta è concesso spingere il linguaggio fino al confine dell’afasia, perché il poeta ha sempre a che fare con il mistero, indicibile per definizione. Questa volta mi sembra che abbia esagerato nel mescolare poesia e storia, con l’inevitabile mistificazione della storia stessa. Il libro, letto in prospettiva storica, diventa occasione di scandalo per l’abusiva interpretazione di una «rinuncia» inappellabilmente motivata da chi l’ha compiuta”.
Secondo Cavalleri uno scrittore non deve mettere il caos tra gli abiti sacri; secondo me è compito sacro denudare tutto, strappare la stola. Imparai, tuttavia, che a volte è bene appoggiarsi a parole maggiori, sostare nel silenzio, pregare, quietarsi all’inginocchiatoio. In verità, come sempre, non obbedisco.
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Si ricalcano alcuni passi da “Rinuncio” (Guaraldi, 2014), dai capitoli che riproducono “Le parole ultime di Benedetto XVI” (ovviamente fittizie)
Forse, forse è l’uomo che ha istruito Dio riguardo al destino del mondo. Dio ha chiesto all’uomo, “che storia desideri che ti racconti?”, e l’uomo ha parlato. E ora Dio, mentre sfoglia i capelli e conta i denti della sua creatura per capire che misura ha il male, ripete le parole che gli ha insegnato l’uomo. E l’uomo continua a rimproverare Dio di non rispettare correttamente la storia, di corromperla, di non essere un narratore coerente. E Dio, che atrocemente ama la sua creatura, incapace di combatterla, la soddisfa in ogni sua più infida perversione.
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La Santa Messa si è trasformata in uno spettacolo. Il prete crede davvero e senza dubbio di essere il braccio di Dio. Pensa di avere poteri sovrannaturali, spesso diventa un seduttore, un cattivo carismatico. Si muove intorno all’altare come su un palco, sapendo che gli sguardi della folla sono su di lui e che ogni suo gesto è amplificato dagli occhi di chi lo osserva. Cade nell’insidia di essere potente, di abitare la verità, di esserne l’emanazione. Questo provoca penuria spirituale. Il sacerdote propone un decalogo di consigli infallibili, espone il sorriso, intona la voce, tenta di essere convincente. Perché? E se un giorno San Pietro si rivelasse un deserto, se dalla piazza sparissero i fedeli, inghiottiti dall’indifferenza? Il cristianesimo non deve rincorrere il fatturato, forzare le vocazioni: anche se sono in due ad amarlo, esso rinascerà, più genuino. Da quando ho rinunciato a proseguire il papato, non assisto alla Messa, la celebro, ogni giorno, nella mia mente. Non succhio l’ostia, la desidero con ardore. Come quando ero bambino, e mi sembrava il sole. E il fatto di non poter partecipare alla comunione mi dava l’idea di far parte di una famiglia perfetta.
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Nella sofferenza più atroce, nell’inquietante martirio, nel cuore dell’orrore avverto Dio. Oltre la soglia del sopportabile, quando il dolore sottomette la ragione, scompone le parole, annienta l’uomo: lì è Dio. Dio parla sempre quando si è in punto di morte, punti dal niente, puniti.
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Cara Abisag,
si rinuncia soltanto a ciò che si ama profondamente, più della propria vita. La rinuncia, così, esalta l’amore. È come se un uomo ammettesse di amare a tal punto da scoprirsi incapace, debole, in difetto. Anche tra gli uomini, l’amore trapassa fino a togliere il fiato e rendere inermi, indifesi. Ci si scopre totalmente nudi, incapaci addirittura di abbracciare ciò che si ama. In questo senso la rinuncia non è una sconfitta, un’assenza, un abbandono, ma, al contrario, la forma più alta di amore. Un sacrificio necessario perché questo amore diventi indimenticabile. Altrimenti, è destino dell’uomo consumare tutto quello che tocca. Una rinuncia simile è quella della verginità. Amo a tal punto da sacrificare il corpo, proprio per rendere santo e incorrotto il mio amore. Ma nel solco di questa scelta il corpo non è né obliterato né sbriciolato, al contrario, ne viene espressa l’estrema importanza. Allo stesso modo, per ottenere una personalità propria l’unica strada è rinunciare ad essa, devolvendola a Dio. Le cose grandi accadono nella solitudine, nel nascondimento. Per questo Dio cela il suo vero nome, altrimenti per troppo amore lo consumeremmo fino a corroderlo, finiremmo per dimenticarci di Lui, per non amarlo più.
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Georg carissimo,
per anni ho considerato piazza San Pietro come le fauci di un lupo bianco. Le colonne mi parevano i denti enormi della bestia e il pavimento la spianata del palato. San Pietro è un luogo che divora, che espropria l’anima: quando ne usciamo siamo davvero migliori, che conversione attraversiamo? Ora, da lontano, San Pietro mi pare una culla e la Chiesa un bambino. In questa visione, i lupi, allora, sono i papi, che con continua avidità divorano il bambino. La forza della Chiesa è in questa secolare strage dell’innocente, che forse è una ostinata ricerca di Cristo. Eppure, la Chiesa è fondata dai fedeli più che dai sacerdoti. Ma i fedeli, senza il Papa, sono come lupi esiliati dal branco: l’inverno salderà il loro muso con una museruola di ghiaccio, per sopravvivere dovranno imparare a cibarsi d’erba, aspirandola con il naso, con gli occhi. Da sempre la fede è una questione di sopravvivenza e il cristianesimo una coltivazione di larici nel deserto.
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L’uomo mi fa paura, eppure la salvezza non viene da Dio, ma dall’uomo. Carcerarsi in Dio è profumo paradisiaco, una fede che si rivela colpa. Invece, bisogna vincere il terrore e immergersi nell’uomo, trattando gli uomini con la compassione che si tributa ai morti.
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Da giovane, per verificare la mia vocazione, frequentavo un frate, che con il tempo divenne il mio confessore. Egli mi intimorì intimandomi, «prima impara che l’uomo è orrore, puro male». Poi mi disse, «si è uomini solo quando si è compresa l’oscurità, quando si fa tana nell’abisso. A quel punto, o si sceglie Dio o ci si uccide». Questa vicinanza, quasi un’adesione, tra Dio e la morte mi ha stordito. Ora penso che siano una stessa cosa, Dio e la morte.