La frase centrale è questa: “La robinsonata è una versione marina del passaggio al bosco, una fonte di salute e di forza virile”. Il testo, Serpentara (1957), segue di poco Trattato del ribelle (1951), e con “robinsonata” Ernst Jünger intende il vagabondaggio per isole. “Le isole comportano sempre dei rischi e, nel momento in cui vi posiamo il piede, compiamo un passo verso l’anarchia”. Oltre all’anarchia, l’isola implica l’utopia autarchica: se il bosco non può prescindere dalla città – pur per contrasto: destino del bosco, secondo la profezia di Macbeth, è accerchiare e invadere la capitale – l’isola si regola sul mare, foresta blu. Non si pensa sugli alberi, ma assisi in canoa: il fruscio dell’acqua ricorda quello delle fronde.
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Non va sottovalutato che il pensiero e la poesia occidentale nascono costeggiando le isole, in Grecia, nel dissidio col continente. Un pensare si situa tra Atlantide e Itaca. “Si dice che le isole abbiano avuto un ruolo particolare nella vita di Napoleone, perché, nato su un’isola, fu vinto da un’isola e morì su un’isola”, scrive Jünger in San Pietro (1957). L’isola ha inaugurato la poesia – Lesbo è la patria di Saffo, Chio lo è, per leggenda, di Omero; per altro, da Zante giunge Foscolo – e il romanzo – Robinson Crusoe. D’altronde; tra L’isola del tesoro di Stevenson e Le isole incantate di Melville, le rocche marine hanno fatto la letteratura. L’isola è un magnete: rifulge come un grido di libertà, una museruola rocciosa. W.H. Auden si rifugia in Islanda, Robert Graves a Maiorca, George Orwell a Jura, nelle Ebridi, per scrivere 1984. Michel Houellebecq scrive di Lanzarote, Emil Cioran scardina il mito isolano nel Taccuino di Talamanca (“Sono venuto qui per il sole, e non sopporto il sole e se andassi a buttarmi giù dalla falesia?”), Matthew P. Shiel era re di Redonda, inabitabile isola delle Antille. L’isola, soprattutto, è l’idea più che dell’isolamento, di una nuova umanità. Purificata dall’uomo.
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Autunno in Sardegna (Le Lettere, 2020) mette ordine, grazie alla curatela di Mario Bosincu, tra gli scritti ‘sardi’ di Jünger (recepiti in Terra sarda, per Il Maestrale e in San Pietro, per Fausto Lupetti Editore). Nei testi, scritti tra 1957 e 1965, Jünger non cerca l’esotico né il mistico – un altro grande, diverso, appassionato di Sea and Sardinia è David H. Lawrence –, il suo sguardo è limpido, implacabile, descrive gli uomini come i pesci e gli insetti, ha la stessa attenzione verso i costumi locali come verso le pietre. Gli importa, di un luogo, valutare il carisma del vivere, il destino, definito dalla geologia, dal cielo, dal sapore della terra. Il luogo è fatto icona dal volto degli abitanti: un uomo libero, appropriato agli elementi, alieno al comfort e al conforto di uno stipendio fisso, è vivo, nel pieno della sfida. “Sentii la sicurezza tranquillizzante della gente di mare. Ispirano fiducia perché vivono di fiducia, riposta in ognuno di essi, nelle loro mogli, nella provvidenza. Vi si aggiunge il senso di sicurezza provato da uomini perfettamente padroni del loro mestiere, indolenti ed altezzosi come grandi gatti”.
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Ubriachi di ‘eventi’, rassicurati dal consenso della ‘società’, gli uomini di città posseggono una scaltrezza diafana, astratta, ignara dei venti. Chi si erge a potente nella gabbia del proprio ufficio, potrà domare il mare su uno yacht, ma non sa del contatto con l’imprevisto, cioè con il sacro – dunque, a che vivere? Della vita, noi, dobbiamo succhiare il genuino, il suggerimento del rischio. Dando alla passione un vigore metallico, con la perizia glaciale di un entomologo, l’arcano compito di un uomo lontano – un po’ Goethe, un po’ Erodoto, un po’ incisore di pietre – Jünger racconta la lotta dell’uomo con la natura, con il pesce, leviatanico (“Uno dei pesci spada si lanciò dal fondo della rete contro la sua parete, tanto che lo avrei potuto toccare; ne vidi il capo finemente intagliato, con la spada ed i cerchi degli occhi in cui luccicava l’iride. Rimase attaccato alla rete in questo modo, con i suoi bagliori verdi ed argentei, per la durata di un battito di ciglia e poi ricadde”), decritta il genio della cucina italiana (“In essa domina un senso di rispetto per la preparazione naturale dei piatti. È lasciato spazio al sapore degli ingredienti fondamentali, senza coprirlo in modo artificioso… Il forestiero si abitua presto alle pietanze robuste, in armonia col sole, il mare, il profumo della macchia e la tavolozza di colori elargita dal clima”), la cabbala d’ombre del “meriggio meridionale”.
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Non cerca ‘l’invito al viaggio’, il quadro turistico, la scena romanzesca, Jünger. Senza altezzosità, ma con altezza, parla agli uomini, la materia dei luoghi, con cui entra in artica sintonia. L’isola dà l’idea di essere un anello: qualcosa di concluso, di risolto. Gli abitanti di un’isola sembrano sopravvissuti, oppure dèi, coloni di un mondo nuovo, tutti parenti, per cui il parlare può svolgersi per accenni, per mani in fiamme. Questo è un libro che va letto la sera, mentre il giorno agonizza: Jünger analizza perfino le bifore della notte. “Di che tipo sono i testi che leggiamo notte dopo notte non appena ci si chiudono gli occhi? Anche in questi casi si prosegue una forma di lettura”. Ogni isola è un incanto, perché è a un’isola che facciamo sempre ritorno – ogni casa, in effetti, è isolata dalle altre. A volte – penso alla malia velata di Calipso – l’isola è prigione, giogo, da sconfiggere con una zattera radicata nel pianto. (d.b.)