
“Presi il volo e mi legai la nebbia ai fianchi”. L’epopea degli Ainu
Cultura generale
Felice morte, felice sepoltura
di quell’amante assorto nell’amore
che più non vede né Grazia, né Natura
ma il solo abisso in cui oramai è caduto.Giovanni Della Croce
Leggere e tradurre il Llibre d’amic e amat (1284?) di Ramon Llull non permette solo la conoscenza, in tutta la sua cangiante magnificenza, di un testo fondamentale della letteratura catalana, ma anche di comprendere con vivezza di pensieri i paradigmi reggenti il più vero laboratorio della nostra modernità, il Medioevo. Fittissimi i rapporti che intercorrono tra il macrocosmo medioevale e il microcosmo lulliano, e specialissima l’interpretazione che di questo macrocosmo fa Raimondo Lullo con il Llibre. Esso, infatti, è uno degli scritti che avvicinano il lettore al suo sistema filosofico-dottrinale, chiamato Ars, per mezzo di esempi organizzati in forma di breviario.
Il libro ha la natura di un’opera didattica indirizzata agli eremiti per la perfezione della vita contemplativa ed è inserito nella sezione centrale del Llibre d’Evast e Blanquerna, in cui un eremita visita a Roma il protagonista Blanquerna, Papa dimissionario ed ora asceta, chiedendogli di scrivere un libro utile a moltiplicare la devozione degli anacoreti. Così fece Blanquerna: scrisse il Llibre d’amic e amat adottando le parole d’amore e gli esempi abbreviati dei sufi, ferventi uomini di religione musulmana la cui esistenza è totalmente dedita al perpetuo innamoramento tra “l’amico” e “l’amato”, tra uomo e Dio. L’espediente, questo libro dentro il libro, può essere considerato vero e proprio motore della più ampia vicenda romanzesca, suo messaggio profondo. Ci troviamo in presenza di una raccolta di apparenti aforismi nutrita da una retorica sì evangelica, ma anche profondamente poetica. Fu voluta questa poesia? A riguardo, bisogna ricordare come ricezione non coincida con intenzione dell’originale: la produzione in versi del nostro autore è limitata e spesso rinnegata (opere in versi giovanili) e, soprattutto, in essa la rima ha la precisa funzione di facilitare la memorizzazione. Certo è che la giovanile produzione trovadoresca del Lullo ha sicuramente avuto un’influenza sulle sue abilità retoriche, ma non più di quanto lo abbiano influenzato l’epica francese, la coeva produzione lirica in catalano e occitanico, il rifiorire della mistica cristiana nel XII secolo e, soprattutto, il Cantico dei cantici.
Lullo ci dice chiaramente che scriverà alla maniera dei sufi, ma non altro, eppure di travasi da una cultura-sensibilità all’altra ne fa a iosa. Ad esempio, intaglia la tradizione occidentale della mistica cristiana sostituendo ai termini “amante” / “amato” le designazioni “amico” / “amato”: il genere dell’amico al maschile segna il discrimine tra amore mistico e amore carnale, esclusivo della letteratura erotica araba, confrontabile solo con le laude intonate dalle confraternite italiche. Ritroviamo, infatti, tali ricorrenze nella secolare produzione lirica dei dervisci, i danzanti eremiti musulmani che abbandonavano la caducità del mondo per rifugiarsi, attraverso un impegnativo percorso d’iniziazione, nell’estatico rapporto d’amore con Dio. Inoltre, Lullo localizza in punti strategici del testo proprio le parole “amico” e “amato” affinché sia semplificata la memorizzazione dei versetti, al modo dei cantori beduini della primitiva produzione in versi di lingua araba. Perviene così, il nostro beato maiorichino, a una specialissima prosa rimata, sorta di stile formulare epico, mantra lulliano, ricorrendo sovente alla figura etimologica, rara nelle lingue romanze, o alla rima interna (fondante un genere di prosa in lingua araba chiamato saj’); finanche, egli richiama sistematicamente l’aggettivazione della fenomenologia dell’amore mistico proprio dei sufi (tribolazioni, pianti, tormenti, afflizioni, morte e luce).
Il lirismo di questo inarrivabile gioiello d’amore e lacrime è caratterizzato da economia espressiva, discorso indiretto, brevità del dettato (esclusi gli ultimi cinquanta versetti, abbastanza prolissi), assenza di ramificazioni descrittive al fine di formulare precisamente il concetto, spesso sublimandolo in puro simbolo. Ogni versetto ci viene apparentemente incontro come un’autonoma isola di senso, di cui Lullo non contestualizza le ragioni, bensì primariamente il sentimento; in ciò rientra quella che possiamo definire la struttura binaria del testo, modellata sul doppio protagonismo “amic” / “amat”.
Il colloquio con il lettore è presentato sotto forma di spesse volte ripetute qüestió in clausola, richiamantila quaestio medioevale (che nel testo ho volutamente tradotto con il colloquiale “ci si chiese…”), le tenzoni o i partimens trovadorici funzionali all’enunciazione di un debat che induce il “tu” alla riflessione. Il testo è strutturato da un andamento paratattico, esemplato dal carattere polisindetico dell’oratoria cristiana, con la reiterazione della congiunzione copulativa “e”. L’utilizzo insistente della congiunzione è un esempio del principale procedimento retorico del Llibre: la ripetizione, ma ripetizione di un lessico ristretto e afferente esclusivamente al campo semantico dell’amore (“amar”, “amador”, “desamar”, “desamor”); vi sono addirittura dei versetti che senza tale ripetizione non avrebbero sostanza, modo d’esistere. Alla reticenza formale corrisponde una notevole oscurità concettuale, probabilmente voluta affinché l’ardua risoluzione del messaggio trasmesso sia nella sua chiarificazione doppiamente gratificante. È possibile rintracciare i referenti culturali di un tale escamotage esegetico tanto nel trobar clus dei trovatori quanto nel procedimento immaginativo ed espressivo della rappresentazione allegorico-anagogica. Infatti, i tropi più ricorrenti sono la metafora, il simbolo e l’allegoria; i primi due sono fondanti il testo, tanto da dare il titolo all’intera opera (connubio di un dio amante e di un’anima amata), richiamando i poetici luoghi profani del trobar come la casa, l’alcova, il letto, le lettere e il carcere d’amore, l’alba, il giardino o ancora la tradizione cavalleresca, con termini quali “gonfalone” e “scudo”; non manca il tòpos medioevale del locus amoenus, luogo eletto dagli amanti per i loro trasfiguranti incontri. L’allegoria è costruita attraverso un meccanismo analogico che ricorre principalmente alla personificazione, figura con cui vengono sostanziate realtà immateriali, umanizzate la vegetazione e il regno animale. L’impianto allegorico cresce di complessità nell’ultima parte del libro, in cui alla poesia è progressivamente sostituita la filosofia. In merito, bisogna avvertire il lettore di quanto lo scorrere del tempo abbia come sepolto il vero significato del Llibre d’amic e amat, disperso potenza dottrinale e, irrimediabilmente, relegato il suo carattere di grandiosa costruzione enciclopedica a rango di opera letteraria, puro canto d’amore. Ma, fortunatamente, se è vero che quel che si rarefà non scompare, proprio grazie a due profondi atti d’amore – quello della traduzione e quello della lettura –, siamo in grado di ricostruire almeno in parte ciò che presagiamo come perduto; nondimeno, l’alterità non implica che il testo non ammetta una lettura laica: la leggerezza delle sue immagini, la folgorante icasticità delle enunciazioni, l’intensità di lingua e sentimento e la perturbata, quasi angosciata malinconia di un desiderio così grande da perdersi nell’assenza del desiderato, riescono a parlare anche a noi, creature di un secolo lontanissimo da quello in cui Lullo visse, eppure ancora vicino ai segreti d’amore di cui continuano a parlare fittamente tra loro, in qualche parte del giardino, l’amico e l’amato.
Federica Maria D’Amato
*
Da Il libro dell’amico e dell’amato di Raimondo Lullo
[2]
Le strade per cui l’amico ricerca il suo amato sono lunghe e pericolose, popolate di pensieri, sospiri e lacrime. Illuminate d’amore.
[13]
«Dimmi, folle d’amore, cos’è più visibile: l’amato nell’amico o l’amico nell’amato?».
Rispose dicendo che l’amato è visto dall’amore, ma l’amico dai sospiri, dalle lacrime, dai tormenti e dal dolore.
[18]
Vi fu un parlare tra gli occhi e la memoria dell’amico perché gli occhi dicevano che niente è come vedere l’amato senza ricordarlo, mentre per la memoria è grazie al ricordo che l’acqua ruscella fino agli occhi e il cuore s’infiamma d’amore.
[19]
L’amico domandò a ragione e volontà chi di loro fosse più vicino al suo amato. E corsero insieme, ma giunse la ragione all’amato prima della volontà.
[21]
Sospiri e lacrime vennero nella prova dell’amato chiedendo dove si sentisse più intensamente amato. Giudicò l’amato che i sospiri sono prossimi all’amore, mentre le lacrime sono più vicine agli occhi.
[27]
Cantava l’usignolo nel giardino dell’amato. Venne dunque l’amico dicendo: «Se non possiamo capirci con il linguaggio, lo faremo per amore: il cuore del tuo canto figura agli occhi la figura del mio amato».
[36]
Pensieroso errava l’amico per le strade del suo amato, e quando inciampando cadde gli parvero fiori e letto d’amore le spine.
[38]
Cantava e piangeva l’amico i canti del suo amato. E disse che più perfetta cosa d’amore era il coraggio d’amare, più del lampo o del tuono al fragore. E più viva acqua sta nel pianto che nelle onde del mare, e più vicini sono i sospiri all’amore della neve al candore.