“Solo di questo abbiamo bisogno: grande solitudine interiore”
Cultura generale
Guardate a Lui e sarete raggianti
Salmo 34
La prima volta che ho sentito la morte vicina, è stata per la fine di Jim Clark. Ero a casa di un mio cugino e si studiava, accesa la televisione arrivò la notizia: Jim Clark è morto sul circuito di Hockenheim. Fu un tonfo per me, una caduta del cuore a precipizio, ma senza apparente rumore, o, almeno, rumore parziale, diciamo breve frastuono, impatto che sentivo anch’io in me, di lui in me, Jim Clark in me finito, perduto; ma non del tutto, si trattava di morte rivelata, di morte in me rivelata attraverso lui, di morte affermata senza nemmeno essere concepita, senza prima essere avvertita, prima di essere vissuta.
Il rumore me lo sono tenuto dentro per anni, e adesso riviene fuori, lo risento per il senso di spietatezza che mantiene intatto nel tempo, rumore allora negato dai commenti di quelli che assistevano in quel momento al telegiornale, che dicevano che Jim Clark doveva finire così, che era già scritto, così come erano finiti Ascari, Castellotti, Von Trips, Bandini e… Il rischio si paga, e la morte ti aspetta all’angolo, è inesorabile.
Occorre speranza, ognuno di noi è un mezzo per questo, per vivere questo, la speranza è vittoria oltre ogni misura. Serve a capire la potenza del desiderio. Ecco che cos’è la velocità: essere per un attimo qualcosa, perché il mondo cancella tutto. Essere la scheggia di tempo che ferma le lancette dei cronometri. Basta!, è sufficiente! Eppure c’è ancora da dire, c’è ancora la vita, il salto del Nurburgring, ad esempio, la calamita di quell’immagine fotografica che coglie l’attimo in cui la Lotus di Jimmy si stacca da terra, per pochi secondi vola sollevata nell’aria, a ruote sospese, e si compie per destino lo struggimento che era impresso nel soprannome del grande campione. Lo chiamavano lo scozzese volante, ed è quanto dire, l’uomo che domina la macchina, la controlla fino al confine che non è più, allora che cos’è? È tutto macchina e uomo saldati insieme, uomo che plasma con la sua guida la materia dura, sebbene affusolata, del bolide, facendolo diventare velocità, ibrido di velocità e natura, velocità che modella il futuro dell’esistenza mortale, ed è destinata, per somma di eventi, a precedere, è tutta nella tensione di questo, della vittoria su questo, mentre il destino aspetta, non ha movimento, è ineluttabile; tracce di sbandamenti, di frenate lasciate sul selciato da pneumatici, che paiono pittura informale, ma è morte, un attimo prima della morte, per difendersi da lei, spaventosa distorsione di un segno antico, ferita scura che dice… senza parole dice… senza parole grida: io c’ero, c’ero, anche se a molti chilometri da Hockenheim, era il 7 aprile del 1968, facevo ripetizione di matematica insieme a mio cugino, con il quale condividevo la passione per l’automobilismo, la Formula 1. Lui era parecchio più grande di me, in effetti era mio zio, ed era cugino di mio padre, ma per via della famiglia numerosa, molti anni di differenza fra cugini e non molta differenza di età fra zio e nipote, possono capitare. Lui tifoso di Jackie Stewart, io di Jim Clark, lui studioso e ubbidiente, io no, lui disinvolto con le ragazze, io no, lui con una carriera davanti, io no, lui democristiano, io no. Già prima mi aveva raccontato (prima della notizia drammatica, intendo dire), che aveva provato un’arma un giorno, che gli avevano detto di provarla, che era eccezionale per l’emozione che si provava sparando, e gli dissero di provare, lui premette il grilletto verso un volatile che procedeva ignaro nella campagna, e il colpo fece troncare il collo di netto alla bestia, tant’è che mio cugino si rammaricava nel raccontarlo, per come aveva fatto a compiere una simile crudeltà, come aveva potuto lasciarsi convincere.
Si fa bene a dire che bisogna avere un sogno, ma non per vederli realizzati, penso io, un sogno è un sogno, e dura quanto può durare. Bensì per la natura del sogno che è nella scoperta che la sua sorte è effimera, s’infrange mostrando quindi il giusto della realtà, che è più forte del sogno, o del sogno ad occhi aperti.
Sembra incredibile, ma viene da chiedersi se Clark era fatto per morire in quel modo. Se il suo sogno ha dovuto scontrarsi con la durezza della realtà per compiersi, per realizzarsi pienamente. Jim Clark era fatto per non vivere?, o era fatto per dare?, per offrire speranza nonostante la sua fine? Perché la sua fine va oltre, indica una speranza che bisogna avere e che è oltre la vita.
Torna in mente un racconto di Stig Dagerman Uccidere un bambino, del 1948. L’incipit è stupendo:
“È una giornata mite e il sole splende obliquamente sulla pianura”.
Tutto è tranquillo nel racconto di Dagerman, non vi sono ombre, tutto risplende, ma l’autore dice che
“è la mattina felice di un giorno infausto perché in questo giorno nel terzo villaggio un bambino sarà ucciso da un uomo felice”.
Che cosa succede? Due storie parallele scorrono nella stessa direzione: una madre si accorge che manca lo zucchero in casa e manda il figlio piccolo da un’altra famiglia a chiedere in prestito qualche zolletta di zucchero. Il bambino esce e non sa che gli restano soltanto otto minuti da vivere, perché basta attraversare la strada per raggiungere la famiglia Larsson e chiedere loro le zollette di zucchero. L’uomo che è al volante della macchina, è l’altro elemento della vicenda, in compagnia della sua fidanzata, anche lui ignaro di quello che sta per accadere, un uomo che non farebbe male a una mosca, ecco che incrocia il bambino che ha con sé le zollette di zucchero, e in un istante l’uomo investirà il bambino. Vi sono le zollette di zucchero sparse per terra, insanguinate, e il bambino che giace inerte, rovesciato sul ventre, il volto schiacciato contro la strada.
La vita non la facciamo noi, ci resta una ferita di dolore che non si placa: un bambino muore incontrando l’urto di una macchina che passa proprio nel momento in cui egli stava per attraversare la strada e presto sarebbe tornato a casa con le zollette di zucchero che sarebbero servite per la colazione, e poi sarebbe andato libero a fare una gita in barca con i genitori, invece ecco che un incidente cambia il quadro di una vita intera, l’incidente diventa la ferita da vivere, ferma la vita di un bambino in un incidente assurdo, “ed è altrettanto difficile che guarisca l’angoscia di un uomo un tempo felice che ora l’ha ucciso” scrive Dagerman.
Far sì che quel minuto mortale possa essere diverso! Dio fai questo! Fa che la storia non sia macerie, non sia quello che è, dolore e fatica, e poi ingiustizia. Ecco il sogno! Colpisce di questo bellissimo racconto, l’ineluttabilità della morte, e l’avvenimento che ciò rappresenta, come se non ci fosse scampo per nessuno e tutto fosse stato deciso per confermare il dolore. Che le zollette erano già lì insanguinate ad aspettare che si concretizzasse tutto, che quel minuto non guarisse più il dolore dell’uomo e della sua compagna, senza sapere che loro erano quelli che avrebbero ucciso un bambino che era solo andato a chiedere in prestito dello zucchero. Zucchero, sì, forse c’è una dolcezza da qualche parte?
Amiamo senza essere amati, subiamo senza aver compiuto nessuna colpa, facciamo noi stessi del male senza accorgerci di averlo compiuto, senza volontà. Possibile? E poi c’è il male vero, il male di chi è determinato a farlo. Non se ne esce! La morte è una porta stretta, è una cruna dell’ago che dobbiamo attraversare. Proprio da lì?, ma se mi è toccato nascere nella stessa maniera?, e già allora ho sofferto, eppure era una bella giornata, tutti erano felici, niente poteva sconfiggere il dono che ero, il dono che ricevevo della vita. A volte mi viene di pensare che amiamo solo alla fine, abbracciando una badante o un infermiere, o un medico qualunque, solo alla fine, in quell’abbraccio imprevisto è scritto di dare tutto il nostro amore per sempre, è l’anticipo di amore che vivremo, quello che non siamo riusciti a dare nemmeno per sbaglio, nemmeno per distrazione, e amiamo pienamente, totalmente affidati, e solo nell’ultimo momento proviamo a dire: ti amo uomo sconosciuto, ti amo donna mai vista, essere straniero che sei, ma tanto più estraneo tanto più amato, tanto più desiderato, di essere proprio tu la persona che mi aspettava alla fine, che mi avrebbe amato per ultimo, proprio come si conviene, per grazia, per destino, non per quello che vogliamo noi; che tu sia nera o bionda, ti amo, ti ho sempre desiderato ma non sapevo come eri fatto, adesso lo so, gli altri stessi lo sanno ma non vogliono dirlo, parlano d’ingiustizia, eppure quanto li pensano i loro trapassati, quanto vorrebbero telefonargli ancora, chiedergli come stanno, se non gli manca niente lì.
C’è una voce monologante nel romanzo di Leonardo Guzzo (Beco, Pequod editore, 2021), che cerca di dire quell’oltre che è la fine di Ayrton Senna. La parabola di amore che egli rappresenta, e di genio, di intelligenza, di talento, di fede, di generosità. Senna è l’uomo che mi pare di sentire dall’altro mondo che dice: non mi avrete più, provate a raggiungermi adesso, adesso che ho una velocità inimmaginabile, la velocità dell’impossibile, ora, qui dove sono; non riuscirete a prendermi, ad afferrarmi, non avrete più potere su di me, io corro felice, continuo a correre e godo dell’effetto di questa libertà, nel vedere che le cose di fianco a me schizzano via senza ferirmi, scomparendo alle mie spalle, risucchiate in un mondo apparente che Dio stesso custodisce nella sua immensa bontà, immensa creazione; cosa fatta per contribuire all’amore dell’uomo, per rendere il mondo partecipe anche delle cose inutili, che sono apparenza, fatte di apparenza, in modo da consacrare l’importanza universale dell’amore, di correre verso questo, contro tutte le parole inutili che diciamo, le strategie negative che mettiamo in atto, gli incontri sbagliati che viviamo, o in cui abbiamo sperato, confidato; incontri che ora corrono via, anche quelli schizzano di fianco a me, senza colpirmi, perché ormai sono inarrivabile, e s’infiammano come proiettili dietro di me, fino a scomparire nello spazio, oltre campi, periferie, città, stagioni, ere, anni…
L’autore entra in quei corpi angusti che hanno accompagnato la vita del pilota brasiliano, s’immedesima in loro, per pronunciare le parole che occorrono, la verità che aspetta ognuno di noi. I personaggi che si succedono sono quelli che hanno popolato la vita felice e feroce di Ayrton Senna, detto Beco, perché Ayrton da bambino
“camminava traballando, sempre in equilibrio precario. Cadeva e si rialzava continuamente, come un ubriaco. Ecco la spiegazione. Beco è un piccolo boccale di birra: forse fu per quello”.
“L’imprevisto è un’opportunità” scrive Leonardo Guzzo nel suo bellissimo romanzo. La morte di Senna è imprevista e ineluttabile, sembra di sentire il linguaggio incalzante del grande Dagerman:
“Centrò un punto delicatissimo.
L’occhio sinistro bruciò e si chiuse.
Provò una vampa di fiamma. Era, per ironia, una goccia.
Cadde da lontanissimo. Dio, messo su una nuvola, gli mandava la punizione. Poteva vederlo, e Dio vedeva lui; lo aveva visto anche quando si era sentito terribilmente solo, e aveva chiesto consolazione. Mentre pagava, prima, e dopo perdeva la cosa che gli era stata più cara da quando aveva coscienza.
Brividi.
Brutta cosa il bagnato…
L’asfalto si scurì nel giro di pochi minuti, la tuta fradicia appiccicata sulla pelle pesava. Sentì le gomme che perdevano aderenza, lo sterzo che si alleggeriva, la risposta alterata delle ruote.
Il ventuno lo superò all’uscita della curva. Vide lo spazio fra lui e il cordolo: staccò derapando, schizzandogli davanti, si mise di traverso e poi riprese l’accelerazione. Pattinò sull’acqua il tanto che bastava e poi riprese come se niente fosse. Provò a riprendersi anche lui. Accelerò a fondo.
Secchi d’acqua sulla visiera: frenò tre volte tanto.
L’occhio, quello ferito dai gas di scarico il mese prima, gli faceva male. La strana visiera del casco non faceva schermo. Le gocce colpivano direttamente o scivolavano lungo la fronte, dal lato esterno dell’orbita finivano sul globo. Porco di un dolore!
Lo sorpassavano da ogni lato. Con l’occhio chiuso e una fifa boia quasi non aveva armi. Spuntavano all’improvviso nel suo campo visivo e si catapultavano in avanti; oltre il muso della macchina trasformata in canotto, oscillante come un canotto fra le rapide.
Una farsa assoluta. Dove all’asciutto avrebbe vinto senza sforzo si ritrovava in balia. E Lui, Lui gli aveva mandato il flagello.
Vedeva, da una nuvola, e aveva voluto punirlo. Mostrargli quante cose non sapeva.
Niente del piacere e niente della pioggia. E la pioggia ora gli passava addosso come le carni brune della meninha, sembrava raggiungere lo stesso punto nell’intimo, svegliava lo stesso brivido di eccitazione e abbandono.
Gli aveva fatto l’amore e l’aveva lasciato nel fosso”.
Qui di seguito, altri passi fulminanti dal libro che mi piace riportare.
Dove dice la fede del pilota brasiliano: “Io ho Dio. Ho la velocità. Non la inseguo, non la seduco. La possiedo. Possiedo una cosa più grande di me. E mi invade. Non la controllo. È un’estasi” (pag. 61).
Dove dice la sua visione della vita: “Allora sai che sei nessuno. Improvvisamente, nessuno. La tua vita può finire all’improvviso” (pag. 79).
La sua visione della natura e di Dio: “È la semplicità della natura, che è il vero, che è la chiarezza della voce di Dio” (pag. 80).
Dove si dice della scoperta fatta dopo la sua morte, che portava sempre con sé la Bibbia: “Anche la Bibbia sembrava suggerirlo. – Oggi ti darò la ricompensa più grande che posso. Ti darò me stesso –. Aperto a caso sulla Genesi” (pag. 83).
Chissà dov’era Leonardo Guzzo il giorno che morì Ayrton Senna?
Quel 7 aprile del 1968, giorno della morte di Jim Clark, io ero a tavola con mio cugino e la sua famiglia, quando venne a prendermi mio padre per portarmi a casa, e disse che aveva parlato con i miei professori, i quali gli dissero che io ero un disastro, non studiavo, non facevo niente, che se continuavo così perdevo l’anno, che lui con me non sapeva più che fare, e si chiedeva perché lo facevo apposta a dargli problemi, a deluderlo. Io zitto, umiliato davanti a tutti, davanti a mio cugino che mi aveva spiegato l’algebra, la geometria, e mi sembrava di averci capito finalmente qualcosa, ma mio padre era disperato, continuava anche in macchina a rimproverarmi, attraversando la città illuminata da quei lampioni assurdi, cadenti, che non facevano luce, o facevano luce solo a sprazzi, su una città straniata dal dolore che provavo io, dove c’erano lampioni che non riuscivano a illuminare la città per intero, o, almeno, a me pareva così, tale era il mio sgomento. Città che si mostrava indifferente al mio dolore. “E non dici niente, niente, almeno giustificati, di’ qualcosa!” gridava mio padre.
Di colpo feci per dire che era morto Jim Clark.
Lui rimase in silenzio, lo vidi scoraggiato, le parole gli morivano sulle labbra. La faccia gli si sbiancò, era colpito anche lui dalla notizia. Si fermò al semaforo, incredulo. Allora mi abbracciò.