Nel mare di spunti entusiasmanti, utili per un’infinità di riflessioni diverse, che si può trovare scorrendo le pagine de La peste di Albert Camus, un personaggio ha catturato in particolar modo l’attenzione dell’autore di questo articolo: Joseph Grand.
Egli si contraddistingue per una grande affabilità educata, vale a dire che risulta sempre estremamente cordiale pur mantenendo un certo riserbo sulla sua vita privata, specialmente nella parte iniziale del romanzo, dove viene descritto il modo in cui veniva percepito dai suoi concittadini nel periodo antistante il grande flagello.
Un mistero che aleggia intorno alla sua figura. Ogni sera, dopo il lavoro e a una cert’ora, non importa che si trovi a casa, fuori per cena con amici o chissà dove, egli si dilegua. Si dilegua annunciando ai suoi compagni, se ne è provvisto, di dover tornare a casa per lavorare al suo progetto. La natura di tale progetto è tenuta sottochiave nel baule dei segreti dell’impiegato e su di essa si insinuano le più svariate illazioni.
Durante i lunghi mesi della peste, Grand stringerà un legame sempre più stretto con gli altri protagonisti del romanzo, collaborando con loro per dare supporto al personale sanitario e, finalmente, svelerà loro il segreto. Questo progetto tanto chiacchierato altro non è che un romanzo o, per meglio dire, il tentativo di stesura di un romanzo. L’aggiunta del termine “tentativo” è quanto mai necessaria, perché, in tanti anni, non ha scritto che una frase, di cui, per altro, è tutto fuorché soddisfatto.
Nel corso del tempo, è nata in Grand un’ossessione per questo manoscritto: non può accettare un risultato diverso dal capolavoro; vuole, desidera, brama una calorosa accoglienza per la sua opera, vuole che i critici, una volta letta, si alzino, si tolgano il cappello ed esclamino: tanto di cappello, signore!
Non ambisce ad altro.
Ma insomma, di cosa tratta questa futura opera maestra? Una delle sue tante versioni recita: In una bella mattina di maggio, una svelta amazzone percorreva, in sella a una splendida giumenta saura, i viali fioriti del Bois de Boulogne.
E il resto? Non c’è nessun resto, è tutto qua. Questa è la frase che il buon Grand, durante il suo tempo creativo, si ritrova costantemente a rimaneggiare, senza trovare una duratura soddisfazione. Ad un certo punto, confrontandosi con i suoi compagni, esclama:
“Finalmente si vedono, si sentono! Tanto di cappello, signori miei!” Lesse trionfalmente la frase: “In una bella mattina di maggio, una svelta amazzone percorreva, in sella ad una sontuosa giumenta saura, i viali pieni di fiori del Bois de Boulogne”.
Quindi ce l’ha finalmente fatta? È riuscito nella sua impresa? Non proprio.
“Ma, letti a voce alta, i tre complementi di specificazione uno in fila all’altro che chiudevano la frase suonarono sgraziati e Grand balbettò un po’. Si sedette, con l’aria affranta. Poi chiese al dottore il permesso di andare. Aveva bisogno di riflettere un po’”.
Da questo momento, Grand scompare pressoché dalla scena, finché, la notte di Natale, il dottor Rieux e il suo fedele compagno e amico Tarrou, tra i protagonisti principali della storia, lo trovano a vagabondare per strada, vaneggiante e bruciante di febbre: la peste ha raggiunto anche lui. La malattia procede veloce, l’uomo sembra non avere scampo. In un attimo di lucidità, prega il dottore di portargli il suo manoscritto. Rieux lo prende, è piuttosto breve, una cinquantina di pagine. Subito scatta la sorpresa nella mente del lettore: quindi è compiuto? È riuscito ad andare avanti? No.
Le cinquanta pagine “recavano solo la stessa frase ricopiata all’infinito, rimaneggiata, arricchita o impoverita. Solo e sempre il mese di maggio, l’amazzone e i vialetti del Bois, accostati e disposti nei più svariati modi”.
Tuttavia, tra queste innumerevoli varianti, si trova la versione definitiva, finalmente.
“Legga”, ordina quasi al dottor Rieux: “Una bella mattina di maggio, una svelta amazzone percorreva su una sontuosa giumenta saura i vialetti in fiore del Bois”. “Com’è, funziona?” chiede il malato. Il dottore non ha il coraggio di guardarlo. Dominato da vergogna e frustrazione, Grand prega l’amico di bruciare quelle pagine. Poco dopo, di esse non resta niente. Rieux lo lascia da solo, non convinto che l’altro sia in grado di superare la notte.
All’improvviso, il miracolo. L’indomani, sembra guarito. La consequenzialità degli eventi lascia inevitabilmente pensare che l’ossessione per il manoscritto fosse per lui come una maledizione che gli succhiava la vita condannandolo a morte certa. Ma il sortilegio sembra essere ben più potente di così, non si limita a Grand. Piano piano, iniziano a verificarsi sempre più casi simili, persone che fino a pochi giorni prima sarebbero cadute sotto i colpi sferzanti della peste, si riprendono come se nulla fosse. Il flagello sta finendo.
Sembra che la mania per l’amazzone, che tutto sommato risulta meno che secondaria all’interno del romanzo, si riveli in realtà come punto cardine della vicenda e motore di questa terribile calamità. Come se gli abitanti di Orano, cittadina in cui si svolge la vicenda, fossero stati condannati ad espiare la frustrazione di Grand per il suo immobilismo creativo.
Ma quale è la causa di tale immobilismo? Come potrebbe essere anticipato dal titolo di questo articolo, il principale sospettato è una spasmodica ricerca della perfezione. Ma, come la grande maggioranza delle cose umane, non può che essere sintomo e indicatore di altri patimenti interiori. Tali patimenti possono avere svariate forme e diverse nature, di cui l’autore di questo articolo si azzarda a proporre alcune ipotesi, non escludendo la, quantomai probabile, possibilità di commistione tra più opzioni, non vivendo noi in un mondo digitale, fatto di uno e zero, di bianchi e di neri.
Molto plausibile è sicuramente la paura di fallire. Una sorta di ansia da prestazione che, più si prolunga il periodo di lavoro al romanzo, più ingigantisce come un tumore che costringe il petto dell’aspirante autore. È inevitabile. Dopo anni di lavoro, non ci si può più accontentare della mediocrità, del togliersi la soddisfazione di aver creato qualcosa che piaccia a noi stessi. No. L’unico risultato accettabile è la perfezione, il capolavoro, il pubblico giubilo.
D’altra parte, talvolta, le più grandi verità sono quelle più ovvie. Il soggetto può essere banalmente incapace: Grand non è in grado di scrivere un romanzo, ma ne è talmente convinto che trascina con sé questo enorme peso che lo trattiene, trovandosi incapace di guardare in faccia la realtà.
Una possibilità meno pragmatica, meno stoica è, invece, quella della frustrazione romantica. In diversi punti del racconto, si fa riferimento ad una donna, Jeanne, moglie e grande amore di Grand, che lo ha abbandonato anni addietro. Il suo nome è presente in un accenno di lettera scritto tra le pagine del suo manoscritto, è presente nei suoi vaneggiamenti dettati dalla febbre, è presente nelle più intime confidenze fatte ai compagni nei momenti di maggior debolezza. Possibile che l’ossessione di quest’uomo, la ricerca spasmodica di perfezione, quindi di qualcosa di totalmente irraggiungibile, non sia altro che una metafora del suo cercare invano l’amata che non può più ritrovare? Questo potrebbe essere sufficiente a giustificare la grande maledizione che grava su di lui e che si palesa con l’avvento della peste.
Tale ipotesi, forse più poetica, risulta la preferita agli occhi dell’autore di questo articolo. E le ultime parole di Grand all’interno del romanzo forniscono altro materiale di riflessione.
La mattina della sua miracolosa guarigione, egli dice al dottore che ha fatto una sciocchezza a chiedergli di bruciare il manoscritto, ma di non preoccuparsi: ricomincerà, si ricorda tutto. Settimane dopo, il giorno dell’apertura delle porte e della fine ufficiale dell’epidemia, i due si rincontrano e Grand afferma, con un sorriso: Ho eliminato gli aggettivi. Ha ricominciato, ma in modo diverso. Forse ha ricominciato con più leggerezza, senza avvelenarsi il cuore dibattendo tra vialetti fioriti, in fiore o pieni di fiori. Forse egli ha finalmente accettato la perdita del suo amore, sta cercando di viverlo con serenità. E questa serenità conquistata si traduce in una produzione letteraria più agevole e meno logorante e in una vita che può essere finalmente vissuta.
Forse invece, si sta scadendo in retorica spicciola, forse, anzi, sicuramente, il compianto Albert Camus è l’unico che potrebbe chiarire questo mistero, la cui risposta potrebbe risultare più banale del previsto. Ma a noi uomini, si sa, piace cercare significati profondi nelle parole dei grandi.
Daniele Moglia