24 Marzo 2023

“Lui Dio non lo voleva, lo negava con forza”. Gli incontri tra Banine e Nikos Kazantzakis

Ho scelto l’oppio. E poi?

Nel 1959, Banine, disinvolta ereditiera azera nata in una famiglia di tradizione musulmana, dà alle stampe francesi il diario di bordo della sua conversione al cattolicesimo.

Per il titolo – Ho scelto l’oppio – riceve non pochi rimproveri. Viene considerato estremo, pubblicitario, volgare. Ma il dogma marxista non rappresenta per l’autrice un mero desiderio di impressionare, bensì la memoria di una realtà vissuta da adolescente ai bordi di una Baku bolscevizzata ed espropriata di ricchezze.

L’impatto del libro è ad ogni modo notevole.

La vanità di scrittrice supera ogni pudore di raccontare le proprie tribolazioni spirituali e Padre Daniélou, gesuita suo primo lettore, ne caldeggia – non a torto – la pubblicazione, certo della risonanza che la potente testimonianza avrà su molteplici anime.

François Mauriac, da parte sua, scrive:

“La grazia delle grazie è vederci come siamo. Banine si è immersa in una fonte che conosco bene, in rue de la Source… Ma cosa l’abbia spinta fin lì, questo affascinante diario lo racconta giorno per giorno…”.

Ecco dunque Banine ai piedi di Cristo, convertita, battezzata, felice. “E poi?”, l’insistente domanda di numerosi lettori.

Lei non si tira indietro. E seguita a raccontare la storia della sua anima, in forma di pubblica confessione, sempre senza veli, vibrante, diretta. Nel 1962 pubblica Après (edizioni Stock), l’atteso seguito di Ho scelto l’oppio.

*

Di seguito, un brano da “Après” che ricalca gli incontri con il poeta greco Nikos Kazantzakis – amico epistolare – dopo la conversione:

“Prima ho sentito elogiare alla radio l’opera di Kazantzakis, ormai molto noto in Francia. Ma quando l’ho conosciuto, Kazantzakis aveva già settant’anni e una vasta opera alle spalle, che qui conoscevano in pochi. Poi, improvvisamente, due o tre anni dopo, i suoi libri sono stati tradotti, riconosciuti, apprezzati ed è stato candidato al Premio Nobel. Avrebbe potuto essere tradotto in francese altrettanto bene trenta o quarant’anni prima, ma no, non lo è stato.

Perché no? Quanta fortuna c’è nel destino, quanta nel divenire celebri? L’alchimia della fama è fatta di elementi oscuri, chi può dirlo!

Per inciso, quanto a Kazantzakis ho potuto misurare di persona la mancanza di giudizio degli editori e il loro capricciosi umori. Su sua richiesta, avevo presentato il suo Alexis Zorba [pubblicato in Italia nel 1955 come Zorba il greco, dalla versione inglese del romanzo; la prima traduzione originale esce per Crocetti nel 2011, ndr] a un editore amico. Si tratta di un libro squisito, di rara qualità, per di più “commerciale”, il che significa che può suscitare interesse in ogni tipo di spirito ed essere acquistato da qualsiasi persona. Sembrava che nessun acuto editore avrebbe potuto rifiutarlo; ma uno di loro, di rinomato estro, lo rifiutò.

Si pubblicano libri buoni e libri cattivi – questi ultimi in proporzione infinitamente maggiore. Alcuni libri buoni hanno successo, ma anche alcuni cattivi. Alcuni libri buoni non hanno successo e nemmeno alcuni di quelli cattivi. Come possiamo riconoscerci in queste possibilità? Si può forse sostenere che tutti i buoni libri finiscano per essere pubblicati? Ciò non è verificabile: sappiamo forse quali capolavori giacciono morti e sepolti nei cassetti? E che nessuno ha mai letto, tranne i loro autori?  

Per tornare a Kazantzakis: l’ho conosciuto ad Antibes. Viveva in una villa a Cap, non bella ma situata in una posizione mirabile. Dalla terrazza, circondata da ulivi argentati, il Mediterraneo appariva in lontananza come un grande lago immobile. Dal giardino, anch’esso immobile nella calura pomeridiana, salivano profumi inebrianti e, ancora una volta, lì, ho avuto la nitida percezione che la felicità esista.

Helen Kazantzakis stava preparando il tè mentre Nikos scendeva dal suo eremo, alto, dritto, magro, con un sorriso malizioso sulle labbra. La sua profusione di calore umano si esprimeva soprattutto in una stretta di mano che ti schiacciava le dita. Prima di offrirgli le mie, gli gridai: «Non troppo forte, Nikolaki, più piano».

Abbiamo bevuto il tè alla maniera orientale, cioè bollente, perché faceva molto caldo, e abbiamo parlato di letteratura, di uomini, di Dio… Non possedevo ancora quell’ardore nel cuore che credo sia la manifestazione di Cristo nella nostra vita. Eppure, “l’intangibile, ma essenziale” aveva sempre pesato su di me. E anche su Kazantzakis. Ma lui Dio non lo voleva, lo negava con forza, anche il Dio dei filosofi, quell’entità astratta che si libra nel cielo senza inabissarsi fra di noi. Si definiva pagano, parlava con esaltazione dell’antica Grecia e ripeteva spesso che la Grecia moderna è rimasta pagana sotto uno strato superficiale di cristianesimo. Quanto avrei voluto credergli! È molto più facile essere pagani che cristiani…

Molti anni dopo, quando ero già completamente presa da Cristo, fu proprio Kazantzakis a farmi capire come si possa resistere a lui fino all’ultimo soffio di vita. Non eravamo più ad Antibes, ma a Parigi. Ammantato di celebrità, Kazantzakis era venuto per partecipare a un ricevimento che Plon stava organizzando per l’ennesimo volume della sua collezione “Feux Croisés”, riservata alle traduzioni. Sarebbe stato il suo ultimo soggiorno a Parigi; sarebbe stato il nostro ultimo incontro in questo mondo. Andai a pranzo con lui ed Hélène nel loro albergo. Era stremato dalla malattia e anche dalla gloria, eppure stavano per ripartire per la Cina, un viaggio fatale per la sua salute precaria.

«Basta con la gloria», disse…

Dopo pranzo, Hélène salì in camera sua per riposare. Io e Kazantzakis ci recammo al bar per un caffè e fu lì che ebbi un’ultima, lunga conversazione con lui. Mi raccontò di come Cristo lo avesse affascinato per tutta la vita e di come avesse cercato di liberarsene attraverso la sua opera letteraria, una sorta di ossessione. Con ogni nuovo libro, pensava di essersene liberato: “Stavolta è finita, non devo più pensarci”. Ma l’ossessione ricominciava, e tornava a lavorare a un libro in cui si parlava ancora di Cristo o di cristianesimo.

«Ma questa volta è davvero finita, per sempre», mi disse. «Ne L’ultima tentazione ho detto tutto ciò che avevo da dire e non ci tornerò mai più».

Era vero, non sarebbe tornato, ma per un altro motivo: presto sarebbe morto. Mi accompagnò alla stazione della metropolitana di Bac. Ci baciammo un’ultima volta. In fondo alle scale, prima di entrare nel passaggio buio, mi girai: Kazantzakis non si era mosso, probabilmente aspettava un saluto finale. Animai la mano; mi rispose alzando entrambe le braccia.

È l’ultima immagine che ho di lui. Quest’uomo pieno delle qualità che fanno un buon cristiano: generosità, un cuore caloroso, propensione per l’ascetismo. Ha sentito per tutta la vita una chiamata che non voleva sentire.

Il nostro Salvatore, che ha così tanta difficoltà a salvarci… non ci salva forse nonostante noi stessi? Io, invece, per natura ben più antropofaga che cristiana, la chiamata l’ho sentita.  È questo è il paradosso; ma non è la logica a regolare il nostro rapporto con Dio… Grazie a Dio.

Banine

*La cura dell’articolo e la traduzione sono di Fabrizia Sabbatini

**Lunedì prossimo, il 27 marzo, al Teatro Basilica di Roma – ore 19, ingresso gratuito – andrà in scena la storia di Banine. Il pretesto del lavoro teatrale è il libro “Ho scelto l’oppio”, edito da Pangea / Magog nel 2022.

Info: https://www.teatrobasilica.com/ho-scelto-l-oppio

Gruppo MAGOG